Giovedì, 3 novembre 2011
Viola Amarelli è
stata più volte presente in queste pagine, per cui è quasi necessario
rimandare a quanto ho scritto in quelle occasioni (v. il tag "viola
amarelli") almeno per alcune cose che rimangono presenti nella sua
scrittura. Inoltre alcuni dei testi pubblicati in questo suo nuovo libro
(Le nudecrude cose e altre faccende, Ed. L'Arcolaio, 2011)
erano già passati di qui poco più di un anno fa, mi riferisco a "incendi
occidentali". Il che in parte costituisce anche una piacevole
rilettura e forse una riflessione.
Viola
non ha mai frequentato, fin dalle sue prime prove, una poesia delle
occasioni, o prevalentemente lirica, o elegiaca (semmai oracolare), o
rapsodica, e ogni suo libro è frutto consapevole di un'idea, e un
progetto nel senso pieno del termine. Compresa anche una speciale
attenzione per la forma, che va di pari passo con (ed ospita e assiste e
nutre) l'idea o le idee che muovono la sua ispirazione. Non è perciò un
caso che l'epigrafe posta in apertura sia insieme una lucida
dichiarazione di intenti e una (possibile) chiave di lettura, una
asserzione di Antonio Porta ("Non mi sono mai appagato di una forma, ho
sempre cercato di provocarne molte"). Naturalmente qui, come in Porta,
la forma è funzionale a quel che si dice, è parte significante del
dettato, anzi è una sua "dilatazione". E ancora, la "provocazione" della
forma è dinamica, varia nel corso del libro. E' cioè espressiva, come
un volto che muta con le emozioni. Forme in movimento: grave, andante, presto sono
annotate le sezioni del libro.Quindi poemetto quando è necessario,
prosa poetica o verso lungo quando il respiro ispirativo o il racconto
lo pretendono.
Le
"nudecrude cose", quelle che come dice l'autrice "se ne fottono o, più
esattamente, restano imperturbabili", sono il protagonista latente di
questo libro, come un'ombra nella fovea dell'occhio. "Cosa" come
sappiamo è un termine tanto generico quanto inquietante. "Cosa" non è
"oggetto", è un quid insieme ineluttabile, destinato e sopratutto più
longevo di noi, che va oltre la nostra esistenza, e non c'è, direbbe
Bourdieu, "persuasione occulta" più potente di quella del semplice
ordine delle cose. Ma l'ordine della cose, dice Viola, è un caos che si
riflette sulle nostre vite, o una casualità di eventi sofferti, di
prospettive annichilenti. O anche la semplice apparizione, per quanto
carica di segni pitici, di una campagna d'inverno in cui un sé inquieto
si rispecchia. Sempre, o quasi sempre, la donna o le donne al centro di
questa poesia: che vivono le loro paure, che aspettano i loro uomini
fuori da un carcere, attraversano piazze, tirano ironici bilanci
fallimentari delle loro lotte, si affacciano "sull'orlo della fine",
vivono la loro "ora delle passioni e del deliquio" o la zona d'ombra
delle loro malattie, personaggi e interpreti (e cito i titoli delle
sezioni) di convivenze, cure, strabismi, congedi. Ma quello che
Viola vuole dire è che le nudecrude cose, se pure se ne fottono, "hanno
una loro bellezza, anche quando distorte, lesive, a volte mortali",
sono popolate da un "dio disperso". Devono essere vissute. E descritte.
Forse riordinate. Lo dice con un nudocrudo stile, pulito e personale,
inventivo nel lessico ma non autoindulgente, mai esondante, mai
eccessivo, neppure nei testi più lunghi che qui non ho inserito ma che
Viola sicuramente predilige, e soprattutto privo di ammiccamenti, di
furbizie di mestiere. Sotto molti aspetti un libro pensato per sé, un
libro di bilancio che Viola doveva scrivere, che doveva al suo personale ethos umanistico, alle sue sofferenze, per capire. Dice Amarelli nel bellissimo testo finale, "a latere",
qui non riprodotto: "...la scrittura è dall'origine un fissare, un dar
conto. E nel fissare c'è l'ordine, l'elenco, il taglio sul mondo: il
"cosi è" artistico (...) Tutta questa ansia di fissare, contare, nasce
da un flusso e si risolve in un flusso, quasi una sorta di processo a
"doppio cieco". Se il primo flusso è quello esperienziale, il secondo è
uno sguardo che trabocca (...) Si presta voce a un mondo, a una faglia,
all'innervatura di un picciolo, ci si illude, perchè il mondo resta
tutto...(...) E' la scrittura spugna, materia che respira: quello che
hai ridai. Per questo ogni poesia è sempre, dannatamente, anche nolente,
politica". Vedete? Il progetto, l'idea...
(visite)
L'arraffa arraffa lo sporco il sangue la tosse si schiantano cadaveri e polmoni su queste donne all'alba dentro un pullman, sciupate, usate ombretti a sbuffi e grumi bambini che dormono accucciati lì verso un carcere, vocìo tenuto basso le stesse storie, di soldi e malattie e lui quand'esce. Per andare dove.
(patrie)
Ha cambiato di lingua e di nome e il cielo ha una linea diversa e ci sono colline ma non uno tra i fiori che a mazzi le riempivano i giorni al mercato. Entra in case stracolme di oggetti, li pulisce, stupita vi sia tutto quel ben di dio cui nessuno oramai fa più caso. Le persone le sembrano strane, lamentandosi stanche di rabbia eppure non si scava patate o carbone, né si ammassano in fuga nei camion. Gli uomini, quelli, più o meno gli stessi certo non bevono tanto ma ugualmente ci provano gratis. Sa di essere stupida e brutta, non importa, ha gli occhi pervinca e sorride e insiste daccapo. Preferisce i colori sgargianti, tutti i fucsia e i verde del mondo, troppi morti alle spalle, è riuscita a portarsi suo figlio. Fino a sera spolvera e lava al ritorno, preparata la cena, finalmente si spoglia, respira, in un amen di lingua d'infanzia a un suo dio che sicuro la ama: le radici le hanno le piante, donne e uomini hanno le gambe.
(biancovìola)
Riprende corso il giorno chiuso il frammischio con le voglie intorno, fauci gentili pronte a divorarti, ma la fortuna oggi alleggerisce l'aria scrosci di pioggia a ripulire terra e cieli, sola.
(gaudio)
Friabile la luce della mente smotta le onde organoelettriche maree dentro le gabbie faraday, sabbia e tempesta plasmano i paesaggi, gocce di sangue, trombi con trombette risuonano gonfiando l'aria che s'espande all'onda qual è l'acqua con i lampi scomparsa perfezione pre-concetto pensare di pensare, scroscio risata, friabile decanta crepita luce limpidamente cuore a chiara mente.
(necessità)
Sarà polvere, e brezza, e cerchio in goccia o in ombra, e cenere, e fumo di spirali e afa pioggia e verde, e odore di muschio e gran silenzio, e fiamme e rombi e razzi cadenti di scie striate arcobaleni argenti, fissi, immoti tristi allegre sfingi sarà l'acqua e l'aria e il fuoco con la terra fino a una supernova pura materia e spirito iustum in perpetuum vivet, basta e avanza al cuore.
(fluxus)
Il fascio in flusso sforma pensieri come papere celiando, in gran silenzio, sembra, un segreto inesistente: l'urlo affocato e ruvido del male tramente giù gloglotta limpido l'accade che ripassa, vecchio scherzo, il tempo lascia la presa e nuota, più veloce, come la tartaruga quando ad Achille brontola il fiato.
(on the road)
Si spacca per si spacca per l'acqua l'unghia di cani e talpa pressione gonfia di terra il gelo fende stecchito, si spacca l'usura, al consumo le vene mangiano crepe nel travertino sbriciola a gonzi passeri il marciapiede, cuore vivente già terrapieno, già buco già fossa nefasta, cammina, fischia, senza importanza.
(campagna d'inverno)
La luce di gennaio che ora è febbraio filtra le foglie dei sempreverdi i tronchi con i rami pazienti di vento questa immane stanchezza di nuvole in corsa, riepilogo di temporali, spossa il midollo e la pelle a toccarla si secca restano, eroi, i cani randagi e le code di uccelli
ci vorrebbe un riposo incessante un letargo che plachi la crosta e protegga le ossa, il latte che è inacidito l'hanno buttato nel pozzo, gli sciocchi.
(tempo)
Era l'ora del loop, della saudade dello tsunami del tempo che schiantava gonfio di mastocisti e di fibromi. Era l'ora di lotte logorate vittorie trasmutate in agro sale battaglie di ceneri e lapilli, il mondo a reclamare a piena voce ragioni antagoniste e sanguinarie sul corpo dilaniato alla deriva, l'ora delle passioni e del deliquio, del gelo che essiccava anema e core. Era l'ora in cui andava bene un marchettaro uno qualunque, il primo che passava, l'ora che anche lui si rifiutava.
(amnesie)
Cazzo, abbiamo studiato, letto saggi e tesine, scritto dissertazioni, zeppe di citazioni e d'ironia edotte viaggiando in lungo e in largo
abbiamo anche lottato per un posto in palestra per un look più adatto, fissati i punti g pianificati ombretti, prese tutte le pillole
si è persino deciso: sedurre, quanto basta, abbandonando spesso, senza metterci il cuore senza il becco di un soldo, senza il lusso di figli,
tutto per essere, insomma, una persona, cazzo, quello che sognavamo, anni di allenamento a diventare neutre, fidando noi in noi stesse
mentre per tutti quelli intorno/addosso/sopra rimanevamo donne, nel cuore del problema che resta, ci hanno detto, se darla, a quale prezzo
(sull'orlo della fine)
Sull'orlo della fine la pioggia fitta sottile, le tre del pomeriggio la domenica nell'aria grigia e umida, l'acqua che scorre
silenziosa su cianfrusaglie stese su stracci di un mercatino d'usato, improvvisato, scolora plastica e scarpe e maglioni già
fossili ora petrolio. In un silenzio clamoroso scivolano ragazzi neri, vecchie badanti dai capelli tinti masticano panini, chi
baderà loro, i ragazzi neri scivolano tra buche e cedimenti, l'acqua che stinge, infreddoliti in cappotti, giacche a vento
sciarpe nere e grigie e bianche, nessuno di loro con un ombrello. Una luce purissima traslucida scandisce ogni dettaglio,
lo dilata sull'orlo della fine la piazza enorme, cantiere eterno già caduto a pezzi, cammini su basalto, passi sull'asfalto roso
da ruote e acqua, freddo d'umido. Tra un po' - quando - non ci saremo più, noi, la pioggia, la piazza enfia e ansimante, gli
esseri umani tutti, tra un po', non tanto. Sta attento a non bagnarsi le scarpe, slalom e rally, attento alle auto, ai vecchi
travestiti da nipoti, alle vecchie spedite a morire affianco ad altri vecchi, sta attento ai ragazzi ninja spaesati senza
sole, qui, che ci sarebbe, ma devi pensarci, il mare, tra un poco scoppia, lo sente, tutto e giustamente. Non più occhi né
gambe, né idee né pozze né fiati. Niente di niente, per noi, tutti, ovviamente. Meglio così, ci sarà qualcosa d'altro e chi
dice che non sia meglio. Arriva quasi alla fermata, di fronte alla stazione, non c'è mare non c'è sole solo acqua incolore,
sta per salire sul pullman, quando inciampa inzuppa infradicia le scarpe, gomma e pelle, il piede la sua pelle, come accade,
frequente, quando pensi che sia finito e tu, almeno, in salvo e allenti la tensione e sei finito. Un pezzo di strada e di
giornata. Una vita di viaggi. Sull'orlo della fine, degli umani. Peccato, resta sospesa l'aria, non che non possa, non deve
farci niente.
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Tracciato: Feb 03, 07:03
Tracciato: Feb 16, 18:22
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