Su GAMMM un mio "testo", A tribute to John Cage, ispirato al celebre brano 4'33''
del compositore americano. Può essere "letto" (o suonato, se preferite)
a piacere, cliccando sul logo. Ringrazio Marco Giovenale, Michele
Zaffarano e C. per l'ospitalità.
“Cerco di pensare a tutta la mia musica posteriore 4.33
come a qualcosa che fondamentalmente non interrompa quel pezzo”.
Chiunque di noi, compresi tutti coloro che non hanno mai preso uno
strumento in mano, lo può eseguire magistralmente. Perché? La domanda è
più che legittima. Basta indossare un abito da concerto (giusto per
entrare meglio nella parte dell'esecutore) e accomodarsi al pianoforte
per quattro minuti e trentatré secondi, senza suonare alcunché.
L'esecutore non deve fare assolutamente niente e il pubblico non deve
fare altro che ascoltare, ascoltare la “musica” che viene creata dai
rumori interni alla sala da concerto, bisbigli, colpi di tosse,
scricchiolii vari, ed anche da quelli che provengono dall'esterno. Cage
ha dimostrato così che il silenzio assoluto non esiste (nemmeno in una
stanza anecoica, e cioè totalmente insonorizzata, perché anche lì uno
sente almeno il proprio battito cardiaco). Il silenzio sarebbe da
intendersi dunque semplicemente come un rumore di sottofondo. Durante il primo movimento della leggendaria prima esecuzione assoluta di 4.33
si sentiva il vento che spirava, nel secondo la pioggia, e nel terzo il
pubblico che parlottava o si alzava indignato per andarsene.
“Sentivo
e speravo – diceva Cage – di poter condurre altre persone alla
consapevolezza che i suoni dell'ambiente in cui vivono rappresentano una
musica molto più interessante rispetto a quella che potrebbero e
ascoltare a un concerto”. Nessuno, o quasi, colse il significato allora.
Eppure, con 4.33 Cage ha rivoluzionato il concetto di ascolto
musicale, ha rovesciato le cose, ha cambiato, è il caso di dirlo,
radicalmente l'atteggiamento nei confronti del sonoro, invitando ad
ascoltare il mondo: io decido che ciò che ascolto è musica. O,
altrimenti detto: è l'intenzione di ascolto che può conferire a
qualsiasi cosa il valore di opera. Ciò implica di conseguenza un'altra
definizione di musica. Cage voleva semplicemente dimostrare “che fare
qualcosa che non sia musica è musica”. Un virtuoso “rumoroso” come
Yehudi Menuhin, quando era presidente dell'International Music Council
dell'Unesco, propose addirittura che la giornata Mondiale della Musica
fosse celebrata in futuro con un minuto di silenzio.
Una
rivoluzione estetica, quella cageana, che è andata oltre, e che ha
messo in discussione gli stessi fondamenti della percezione nel porre la
musica anche in intimo contatto con tutte le arti, senza che ciò
venisse motivato da alcun genere di idealismo. La poetica di Cage si può
inserire in quel filone dell'arte figurativa dell'astrattismo gestuale
di Pollock, Kline, De Kooning. E se 4.33
non contiene alcun suono, Robert Rauschemberg ha realizzato dei
dipinti, semplicissime tele bianche, che non contengono alcuna immagine
(“questi dipinti diventano aeroporti per le particelle di polvere e le
ombre che sono presenti nell'ambiente), mentre il compositore coreano
Nam June Paik ha girato un film della durata di un'ora, che non contiene
immagini, e Dieter Schnebel ha concepito la Muzik zum Lesen
(musica da leggere), partiture che non sono destinate all'ascolto o
all'esecuzione, ma alla lettura. Tutto ciò, da diversi punti di vista
dunque, ci riporta alla concezione del silenzio di Cage: “Per me il
significato essenziale del silenzio è la rinuncia a qualsiasi
intenzione”, una rinuncia alla centralità dell'Uomo, il che implica
l'eliminazione totale del gusto, del ricordo, e del desiderio, una
regressione e una rinascita all'innocenza.
Il
silenzio (“i suoni se ne stanno nella musica per rendersi conto del
silenzio che li separa”), la filosofia zen, l'identificazione dell'arte
con la vita (“la mia opera è intesa come dimostrazione della vita”), il
ricorso alle tecniche aleatorie e casuali (con l'antico metodo cinese
dell'I-Ching) volte a eliminare l'aspetto soggettivo del processo
compositivo, l'apertura totale nei confronti del sonoro (“ora non ho più
bisogno di un pianoforte: ho la 6th Avenue con tutti i suoi
suoni”), la passione per Marcel Duchamp (“gli scacchi non erano altro
che un pretesto per stare con lui”), per i funghi (partecipò anche a un
quiz di Mike Bongiorno), per l'astronomia (per la stesura della
partitura di Atlas Eclipticalis, ha usato un atlante astronomico, traducendo la posizione delle stelle in note), per la Finnegan's Wake di
James Joyce, ne fanno una delle figure creative più originali ed
aperte, ancora da scoprire sotto certi aspetti, del secolo appena
trascorso. (Helmut Failoni – L'UNITA' – 08/04/2002)
Che c'entra tutto ciò con la poesia, sopratutto con quella "da fare"? C'entra parecchio, se ci si riflette un po'...