E’ fondamentale l’ esperienza fiorentina in scrittori come
Scipio Slataper, Giani e Carlo Stuparich, Carlo Michelstaedter, Virgilio
Giotti, Biagio
Marin, Umberto Saba che, nel 1911, fece uscire proprio qui il
suo libro d’ esordio Poesie. Questi uomini si presentarono sulla
esuberante scena
fiorentina di quegli anni con l’ intento di inserirsi nella
tradizione italiana, ma, soprattutto, con la necessita’ di comprendere e
valorizzare quella
caratteristica impignorabile dell’ essere di frontiera.
Parecchi anni fa scrissi che l’essere di frontiera mi ricorda cio’
che, come simbolo, mi comunica la cabina telefonica usata da Hitchcock
nel film Gli uccelli, e cioe’ una specifica
contradditorieta’ del linguaggio: la sua chiusura e la sua
comunicabilita’. Dove prevale uno dei due termini
di questa che possiamo chiamare un’ antitesi specifica del
linguaggio, assistiamo alla caduta di una difesa nei confronti del
reale, come conseguenza
di un abbassamento di guardia della personalita’, e al prevalare
ad un diffuso senso di estraneita’ e di angoscia, nel film
efficacemente simbolizzati
dagli uccelli. Cristallizzata in “cabina telefonica” la
comunicabilita’ del “tipo di frontiera” e’ spia di una profonda
idiosincrasia nei confronti del
reale, di quel reale vissuto come agglomerato di “altri”.
Il “tipo di frontiera” si proietta, viene proiettato nel reale,
con quella trasparenza da hitchcockiana cabina telefonica e, come
questa, subisce l’
assedio degli “altri”, della folla che, come uno stormo di
uccelli, incupisce il cielo.
Scrisse Franco Basaglia, a proposito di quella sottospecie del
“tipo di frontiera” che e’ il tipo triestino: “ Mi ha sempre colpito l’
angoscia del
triestino, una angoscia che in citta’ e’ palpabile e si esprime
in tutte le varie maniere dell’ essere: dal dialetto che ha una
velocita’ espressiva
incredibile che talvolta rasenta l’ aspetto maniacale, all’
ansia che nessuno ti porti via la vita, al desiderio di dimostrare
continuamente la propria
esistenza comunque. Quest’ angoscia puo’ portare a una crisi
esistenziale che puo’ essere pericolosa per le scelte che si possono
fare. Messa di fronte
ad una scelta una persona deve trovare il modo di risolvere la
sua esistenza, e il triestino e’ sempre stato messo fra due fuochi, tra
due culture, tra
due stati… darsi da una parte e non dall’ altra , piu’ per
generosita’ che per razionalita’, e’ stato un atteggiamento estremamente
romantico del
triestino.”
Intrappolato difinitivamente in quello che e’ l’ ultimo retaggio
della musiliana kakania-il nazionalismo-, l’ uomo di frontiera, oggi,
e’ il derivato
di quelle scelte di cui parla Basaglia. E’ quell’ essere
incantati in mitologie che furono poste da volonta’ esasperatamente
incanalate verso una via,
una scelta che, nel giuliano del primo anteguerra sottostava,
come ha scritto Sestan, a “ quell’ istanza ultima della sua moralita’ ”
sintetizzata
nelle domanda : sei tu italiano abbastanza? Noi aggiungiamo: sei
tu sloveno o croato abbastanza?
Consapevoli del dramma che si portavano dietro, gli
intellettuali giuliani attivi fra il 1900 e il 1915, erano alla ricerca
di una formazione
linguistica, di una padronanza stilistica dell’ italiano, di una
tradizione da innescare sul loro territorio. Ecco uno stralcio di
lettera che Carlo
Stuparich scrisse da Firenze al fratello: “ Spero sempre di
trovare a Firenze elementi piu’ capaci di fertilizzare una anima. ..E’
dolorosa questa
eredita’ triestina…La tragicita’ triestina e’ in poche anime che
sono essenzialmente l’ anima di Trieste. Onde mi faccio un concetto di
una
triestinita’ fuori di Trieste.”
Territorio particolare, irregolare; territorio vissuto come
eredita’ dolorosa, arida come il Carso, ma talmente abbarbicato nell’
animo di questi
triestini da essere vissuto come fertilizzante dell’ anima.
Quello stesso territorio che Slataper ha definito privo di “tradizione
di cultura”, ma che
non gli ha mai permesso di districare il nodo della sua triplice
anima: italiana, slava, tedesca. Letteratura vissuta come umanita’,
come arte e poesia
radicale: e’ questo l’ attaggiamento che contraddistingue questi
scrittori di frontiera (basti vedere il ruolo che ebbero ne La Voce).
E’ questo il
retaggio di quest’”arido” incrocio di tre culture.
E’ interessante notare come la ricerca assillante di quel luogo
ideale che e’ la letteratura fa saltare fuori cose e esseri concreti,
imperfetti e
complessi, ma capaci di essere amati dalla poesia, anche quando
la ripudiano. Si veda , ad esempio, in Saba, dove l’ aulicita’, marcata
nella sintassi
della sua poesia, controbilancia la finalita’ rasoterra del suo
discorso, la sua aspirazione, sentita anche dallo Slataper, a “ essere
uomo tra gli
uomini”, a “vivere la vita/ di tutti” ed “ essere come tutti/
gli uomini di tutti/ i giorni”. Interessante e piena di umanita’ e’ la
diffidenza di
Svevo nei confronti della letteratura vissuta come strumento
introspettivo:” Io a quest’ ora e definitivcamente ho eliminato dalla
mia vita quella
ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura”; cosi’ come
lo e’ la contrapposizione in Slataper fra le “cose” e le “ parole”: “ La
parola che
supera la parola, che l’ annienta, che da’ le cose
direttamente”. Per non parlare della contemporanea ricerca della
“persuasione” contrapposta alla
“retorica”, di Michelstaedter, un Aut-Aut di spessore
kierkegaardiano e precursore di tante cose.
Noi, uomini di frontiera, saltiamo fuori da una spaccatura
interiore. Ci proiettiamo verso esseri e cose spaccate, pungenti come
cose a cui manca una
meta’ ineffabile. Forse la meta’ piu’ morbida, o quella
attaccata a qualcosa che possiamo per comodita’ chiamare territorio,
certezza di un territorio,
sia esso linguistico o geografico. Cosi’, di volta in volta
siamo costretti a rifugiarci nella ricerca di una seconda nascita oltre
questa striscia di
territorio irregolare. “Questa e’ una parabola per ognuno di
noi: ognuno deve organizzare in se’ il caos, concentrandosi sulle sue
vere
esigenze.”(Nietzsche). E’ quello che fecero i nostri padri,
esperendo nella poesia la sempiterna imperfettibilita’ dell’ umano e
dando voce a quel
hitchcockiano, folle stormo di uccelli.
Colgo l'occasione per pubblicare qualche poesia di alcuni degli autori citati (g.c.)
Carlo Michelstaedter
A SENIA
VI
Ti son vicino e tu mi sei lontana,
mi guardi e non mi vedi, o s'io ti parlo,
per quanto ascolti, non però m'intendi;
ti sono questo corpo e questi suoni,
ti sono un nome, ti son un dei tanti,
come un altro sarebbe
che per nome e per vista conoscessi.
Io non son per te «io», la mia vita,
io, questa mia volontà più forte,
il mio sogno, il mio mondo, il mio destino.
Io non sono per te: questo mio amore
disperato e lontano e doloroso,
gli passi accanto e non lo senti amare.
VOGLIO E NON POSSO E SPERO SENZA FEDE
II
"Guardi dove cammina! o 'che 'gli è cieco?".
M'erutta in faccia con fetor di vino
un popolano dondolando l'anca.
In vasta curva costeggiando il fiume
tremola ancor la luce dei fanali
e l'Arno scorre sonnacchioso e grigio,
l'acque melmose.
Spicca dei colli ancor la massa oscura
e San Miniato avvolto nella nebbia
ombra nell'ombra, -
fiaccola rossa dai camini neri
batte nell'aria, e l'alito affannoso
ferve di vita.
E risponde dall'anima mia triste
un'ansïosa brama di vittoria
ed un bisogno amaro di carezze:
forza incosciente - fiaccola fumosa.
Se camminando vado solitario
per campagne deserte e abbandonate
se parlo con gli amici, di risate
ebbri, e di vita,
se studio, o sogno, se lavoro o rido
o se uno slancio d'arte mi trasporta
se miro la natura ora risorta
a vita nuova,
Te sola, del mio cor dominatrice
te sola penso, a te freme ogni fibra
a te il pensiero unicamente vibra
a te adorata.
***
Virgilio Giotti
PIOVA
Spiovazza. Ombrele negre,
drite, storte, le cori
le scampa. Soto i àlbori,
nel sguaz, xe pien de fiori.
Xe alegro 'sto slavazzo.
Vien l'istà. E altri istai
se svea in mi pa' un àtimo,
ùmidi, verdi... andai!
'N omo se ga fermado
soto un'ombrela sbusa.
El varda i fioi che sguazza
nel ziel de 'na calusa.
Pioggia - Piove forte. Ombrelli neri, / dritti, storti, corrono / scappano. Sotto gli alberi, / nel guazzo, c'è pieno di fiori. // È allegro questo acquazzone. / Viene l'estate. E altre estati / si svegliano in me per un attimo, / umide, verdi... sparite! // Un uomo s'è fermato / sotto un ombrello bucato. / Guarda i bambini che sguazzano / nel cielo di una pozzanghera.
Vècia moglie
La xe in leto, nel scuro, svea un poco;
e la senti el respiro del marì
che queto dormi, vècio anca lui 'desso.
E la pensa: xe bel sintirse arente
'sto respiro de lui, sintir nel scuro
che'el xe là, no èsser soli ne la vita.
La pensa: el scuro fa paura; forsi
parché morir xe andar 'n un grando scuro.
'Sto qua la pensa; e la scolta quel quieto
respiro ancora, e no' la ga paura
nò del scuro, nò de la vita, gnanca
nò del morir, quel che a tuti ghe 'riva.
Vecchia moglie - È in letto, nel buio, un poco sveglia; / e sente il respiro del marito / che dorme quieto, vecchio anche lui adesso. / E pensa: è bello sentirsi accanto / questo respiro di lui, sentir nel buio / che lui è la, non esser soli nella vita. / Pensa: il buio fa paura; forse / perché morire è andare in un grande buio. / Questo pensa; e ascolta quel quieto / respiro ancora, e non ha paura / del buio, né della vita; neppure / della morte, quella che arriva a tutti.
Figura de putela
Davanti una vetrina,
che se spècia i colori
ciari de la matina,
'na garzona ghe xe, col scatolon
sul brazzo, co la fronte sul lastron.
Sun una gamba sola
la sta; e el pie de l'altra,
lassada cascar mola,
la lo nina. Le scarpe che la ga
xe quele che la mistra ghe ga dà.
Del viso solo un poco
se ghe vedi, un rosseto;
'na rècia, el colo, un fioco.
Sora el covèrcio, bela, xe una man
de pìcia, là pozada, una sua man.
Un pitor, co 'l ga ciolta
zo 'na figura, altro
no' 'l fa. Cussi stavolta
fazzo anca mi. Meto ancora un fiatin
de rosa su le calze, un cincinin
quel nastro d'i cavei
fazzo ancora più scuro;
e meto zo i penei.
Altro de far, altro no' go de dir:
che ben ghe vòio, 'nidun pol capir.
La lasso parlar ela;
che sola la ve conti
quel che la varda in quela
vetrina, quel che la pensa, ormai là
ferma par sempre, quel che in cuor la ga.
Figura di ragazza - Davanti a una vetrina, / dove si specchiano i colori / chiari della mattina, c'è una apprendista, con lo scatolone / sotto il braccio, con la fronte sul vetro. / Sta su una gamba sola; / il piede dell'altra, / che ha lasciato cadere mollemente, / lo dondola. Le scarpe che ha / sono quelle che le ha dato la padrona. / Di viso se ne vede / solo un poco, un po' di rosso; /un'orecchia, il collo, un fiocco. / Sopra il coperchio, bella, c'è una mano / di bambina là posata, una sua mano. / Un pittore, quando ha tirato / giù una figura, non fa / altro. Così questa volta / faccio anch'io. Metto ancora un pochino / di rosa sulle calze, faccio un attimo / più scuro ancora / quel nastro dei capelli; /e poso giù i pennelli. / Altro da fare altro da dire non ho: / che le voglio bene, ognuno lo può capire. / La lascio parlar lei; / che vi racconti da sola / quello che guarda in quella / vetrina, quello che pensa, ferma / ormai là per sempre, quello che ha in cuore.
***
Biagio Marin
Co vignivo de tu pioveva stele,
e tante ne 'nsunevo
che l'anema gera un firmamento;
comò un supio de vento
noturno vignivo!
Te le metevo adosso a una a una,
sui fianchi persuasi,
co' tanti mai basi,
da fa 'na sintura.
Te le ghitevo in cuor e nel sangue,
a stiochi, a grande refolade:
le scoreva in fiumere,
in cressenti, in dosane,
le vanpeva in caldane
de sere
d'istàe,
le rièva sovrane
in duti i to dinti splindinti,
nel vogio to moro.
E in fin tu geri in fiame,
un fogo belo e grando,
che bruseva 'l gno cuor
e la to vita intiera,
boca mia bela
che senpre incora vago recordando.
Quando venivo da te piovevano stelle,/ e tante ne raccoglievo / che l'anima era un firmamento; / come un soffio di vento / notturno venivo! / Te le mettevo addosso a una a una, / sui fianchi persuasi,/ con tanti mai baci, / da fare una cintura. / Te le gettavo in cuore e nel sangue, / a schiocchi, a grandi ventate: / scorrevano in fiumare, / in flussi e riflussi, / vampavano in caldane / di sere / d'estate, / ridevano sovrane / in tutti i tuoi denti splendenti, / nell'occhio tuo nero. / E alla fine tu eri in fiamme, / un fuoco bello e grande, / che bruciava il mio cuore / e la tua vita intera,/ bocca mia bella / che sempre ancora vado ricordando.
Cale del Volto
Cale del Volto gera un'aventura:
la scuminsieva un giosso de canpielo,
co' un balaor de fianco, su la destra.
Per la scala 'ndeva su 'na creatura
duta nùa comò un anzolo del sielo.
In fondo, 'na pergola de vida
decoreva la porta d'una casa;
la rinfrescheva la piasseta grisa
fagando de suàsa.
Da cu sa indola in giro
vigniva fresco un bel canta disteso,
che 'l deva sol a duta la contrada.
Gera oltre volte un sigo o una riàda
d'un bel geranio rosso vivo.
El largo 'l 'veva 'l spassio d'un curtivo,
col saliso seren, valìo dai pie,
e da le carne fantuline.
A sinistra più avanti, in fondo, gera,
drìo un riquadro sensa ante, un curtiveto.
Là cresseva, ben sconta, una fighera,
la maravegia del curtivo queto.
E un barconusso se vegheva in fondo,
co' vanpe vive drento la curnisa;
fra barcon e fighera una camisa
ciapeva 'l sol, sora una corda tesa.
La cale qua gireva e se vegheva el volto;
oltri curtivi, drìo le porte in sfesa,
oltre case in ascolto.
Anche una botegussa de sartor
col rumor de la machina che cùse,
e può, la luse d'un oltro balaor.
Qua finiva la storia del gno amor.
Calle del Portico - Calle del Portico era un'avventura: / la cominciava un poco di campiello, / con un ballatoio di fianco, sulla destra. / Per la scala saliva una creatura /tutta nuda come un angelo del cielo. / In fondo, una pergola di vite / decorava la porta d'una casa; / rinfrescava la piazzetta grigia, / facendo da cornice. / Da chissà dove in giro / veniva fresco un bel canto disteso, / che dava sole a tutta la contrada. / Era altre volte un grido o un riso / d'un bel geranio rosso vivo. / Il largo aveva lo spazio d'un cortile, / col selciato sereno, lisciato dai piedi, / e dalle carni fanciulle. / A sinistra più avanti, in fondo, c'era, / dietro un riquadro senza imposte, un cortiletto. / Là cresceva, ben nascosto, un fico, / la meraviglia del cortile quieto. / E in fondo si vedeva una finestretta, / con vampe vive dentro la cornice; / fra finestra e fico una camicia / pigliava il sole, sopra una corda tesa. / La calle qua girava e si vedeva il portico; / altri cortili, dietro alle porte in fessura, / altre case in ascolto. /Anche una botteguccia di sarto / col rumore della macchina che cuce, / e poi, la luce di un altro ballatoio. / Qui finiva la storia del mio amore.
Ninte no xe passao
Ninte no xe passao
e duto vive e xe presente;
un sielo solo levante e ponente,
un solo sol m' ha iluminao.
I primi vogi che m' ha inamorao
xe quii che 'desso rie
e infinite restìe
basa dì e note el lio de Grao.
Ogni geri xe incùo
ansi xe adesso,
ogni vento xe el messo
de Dio, nel sielo de velùo.
E ninte mai more
nel mondo:
un solo, ma fondo
xe 'l corso de l'ore.
La mutassion origina el canto;
no 've paura de sparì;
dura un atimo el dì
ma xe eterno l'incanto.
Niente è passato - Niente è passato / e tutto vive ed è presente; / un cielo solo levante e ponente, / un solo sole m'ha illuminato. / I primi occhi che m'hanno innamorato / sono quelli che adesso ridono, / e infinite onde / baciano giorno e notte il lido di Grado. / Ogni ieri è oggi, / anzi è adesso, / ogni vento è il messo / di Dio, nel cielo di velluto. / E nulla mai muore / nel mondo: / uno solo, ma fondo, / è il corso delle ore. / La mutazione origina il canto; / non aver paura di sparire; / dura un attimo il giorno, / ma è eterno l'incanto.
La foto di Biagio Marin è di Giovanni Giovannetti
L'articolo di Curavic' era stato precedentemente pubblicato sulla rivista lettararia La Battana