Martedì, 30 novembre 2010
"Arte dello scarabocchio fatto con gomma e matita, la poesia che si
può fare e rifare (..,) mi ha sempre incuriosito", dice Lorenzo Mari.
Una curiosa dichiarazione di poetica, che presupporrebbe altre prese di
posizione, molto più radicali di quanto appaia dalla lettura di questo
libro, o altri mezzi di espressione. Ma se si sta alla scrittura poi
alla fine ci si rende conto, proprio come luì, che "per assumere
responsabilità e firmare con la x bisogna qui fermarsi un attimo,
prendere fiato e attraversare una minuta di silenzio". In altre
parole, una inquieta diffidenza nella parola (non in sè ma in quanto
immersa nella ormai canonica fluidità del mondo) deve prima o poi
fissarsi in una espressione, farsi magari carta. E diventare il quel
momento "definitiva". Si lascia al silenzio, alla riflessione interiore,
di fare la parte del foglio bianco mentale, della minuta su cui rimarranno, però ignote ai più, tutte le varianti immaginate.
Il
compromesso è (in Mari come in altri, ed è questo che mi interessa)
una poesia del provvisorio, del fenomenico, dell'incerto, evidenziata -
anche - da una scrittura che mima a volte il flusso attraverso le
associazioni o le isotopie (in un testo: scatto, erectus, sprazzi, ictus, ics, rictus) e che connota la difficoltà del vivere con un andamento scazonte, con concrezioni di senso in parole altrettanto "difficili" (trisma, glosse, prossemica, scialorrea, disforico, ecfrasi) e pertanto ugualmente (nell'immediato) indecifrabili. L'occasione non è quella montaliana, ma è in larga misura l'evenienza o
i suoi epifenomeni e la conseguente epifania (come, in certa misura ma
con differenza di stile, in Giovanni Catalano v. qui). L'osservazione
poi porta a riflessioni originali, come nel testo, qui presente, "L'uomo
che cade", in cui una storia dialogata (e, perchè no, recitabile) che
sta tra Newton e Magritte e che prende spunto, credo, da un evento ormai
infitto tragicamente nel nostro repertorio di immagini, si realizza in
una piccola operetta morale sul concetto di realtà e sur-realtà. In
altri casi è l'oggetto che assume una valenza simbolica, come in
"Passaggio" lo è il libro come testamento, l'opera come speranza di
passaggio, anzi meglio, di tragitto à rebours dell'autore in
marcia verso il "ponte maledetto" della morte. O le cose, gli oggetti
indifferenziati e innumerevoli che popolano la nostra vita, che in "A
fare maglia" costituiscono una specie di tela di Penelope senza
destinazione, ma anche ci circondano senza attenzione (e quindi senza
significazione, v. qui "Sermone di distrazione"). In altri casi ancora,
come in "Tell" in cui l'arciere tratteggia l'idea del
significato dell'atto, della sua coscienza, del suo controllo anche
amorevole che può essere senz'altro applicata allo stesso atto creativo e
artistico, la metafora si fa dichiarazione di poetica.
Tuttavia, di fronte a tutto questo, rimane l'inquietudine che si
diceva prima, riguardo a una scrittura "definitiva" che spesso l'artista
(in generale e anche Mari) percepisce come un limite e che a volte
lascia qualcosa di irresoluto o il dubbio che nelle catene delle parole,
delle associazioni, delle assonanze, dei significanti possibili sia
rimasto fuori qualcosa. Un'inquietudine, qui, a sua volta ragionata e
riflettuta. Così in "Necessità delle riconsiderazioni" Mari appronta un
testo che a me pare possa essere interpretato - anche - come
interessante metafora della scrittura come processo e giudizio che passa
definitivamente in giudicato e pertanto va attentamente considerato, e
tuttavia rimane aperto ("l'inganno del punto fermo") almeno per il
travaglio che è costato ("tutto il sudore addietro"). Aperto e fecondo,
perchè comunque bisogna (vedi "Nell'iperbato culla") "coltivare l'amore /
nella spezzatura, / nella riserva di voce", in altre parole dire "ciò
che non è stato / ancora detto".
L’uomo che cade
(Lo vedi, l’uomo che cade? –
Che domanda cretina, tutti lo stanno vedendo, tutti!, in questo preciso momento. –
E se ne ricorderanno “come se fosse adesso”, fossilizzando il gesto... Ma tu davvero lo vedi, l’uomo che cade? –
Sì. Vedo anche che a nulla è servita la lotta quotidiana, la polvere, la paccottiglia in una nuova forma d’amore e il movimento del viceversa. –
Non ti credo, e non soltanto perchè sei falsa disperazione: tu non lo vedi davvero, non lo vedi realmente, l’uomo che cade –
Si. –
No, che non lo vedi. –
Si. –
No. –
(...)
Non ti credo, ti sbagli, non lo vedi. Te ne fornisco prova appena si schianta. –
(...)
Ecco, non lo vedevi: l’uomo morto, contrariamente a quanto sostenevi, non aveva nessuna mela, in mano.)
Tell
Conosce l’arco che scocca, e la strada della freccia in seno al mondo: l’arciere sa che una cosa rimane dove l’ha depositata la mano caricata soltanto d’amore, neanche di parola. Inchiodata, non si muove dalla posizione che la fa pesante, determinata, sarcastica oltre misura – ma non brusca, non opaca.
Bisognerebbe aggiungere monito, certamente, e veemenza, ed afflato: un uso non coerente del fiato. Respirare ed attentare, nell’asma e nello sbalzo, al tempo vuoto, al vuoto sovrano.
L’arciere, però, legge e non può parlare, sa che se sopraggiunge disarmonica postura – chiamata altresì “alienazione”, nel manuale di istruzioni – per cambio di scapola e polmone, questa porterà sicuramente a mancare il bersaglio, cambiando la storia con lo scacco, volgendo in tragedia l’attimo in cui era pronto a levarsi, fronte alla tempesta, un crescendo orgoglioso e compatto.
(E se dice, non dice cosa muove la sua mano.)
Sermone di distrazione
Attorno a noi la resurrezione delle cose, pagina tremenda. Meglio quando stenta l’oggetto, lo guardiamo di sguincio e s’arresta. Non attenta. Non chiede attenzione. Lascia il devoto al suo sermone di distrazione.
Necessità delle riconsiderazioni
Fermati. Riconsidera la pagina bianca. Non ci sarà un’altra volta. Non ci sarà un altro tribunale tanto disposto a clemenza larga – pavido di onde concentriche, placido di tempo eterno – che riscriva gli atti, rimangi le testimonianze, cancelli le impronte digitali, che – per questo suo bene che continua a spergiurare – convochi e riconvochi i monatti. Come se della lebbra non avessimo avuto abbastanza – quanto a verità, dico.
C’è un travaglio che conosce solo l’uomo al banco degli imputati. Non farlo iniziare, e prendere abbrivio, non fargli dire la sua versione preconfezionata, misurata sui tempi stanchi dell’accettazione del male: lascialo, piuttosto, trasecolare qui davanti. Non ridere, soprattutto. Ma fermati. Riconsidera la sua faccia, di colore in colore, che, nel pallore finale, rivela momenti altrimenti passati.
Per la riuscita, devi unicamente trascinarlo via come peso già morto un momento prima dell’infarto.
Poiché lo chiamano l’inganno del punto fermo: il volto quasi fresco di parole pensate con tutto il sudore addietro.
Nell’iperbato culla
Coltivare l’amore nella spezzatura, nella riserva di voce –
il nonnulla che cambia ineluttabile attraverso ciò che non è stato ancora detto –
avrei dovuto
(per cullare serena la vita che ha trovato il ritmo
come madre, dopo che ha portato alla luce l’ostetrica il respiro, sempre irrimediabilmente altrui, sculacciando)
Rive
Sulla riva dell’epoca non si sa come stare, ci si dimena. Il grande fiume insegna
la pazienza lunga di chi guarda lontano e oltre l’orizzonte scorge la curva
che s’increspa di un pesce pilota – senza squali, al seguito. Questo
ci vorrebbe. Ma con troppa destrezza – che qui manca, senza l’arguzia della campagna –
ci si dovrebbe trovare anche su rive di metropoli deserte, a calcolare le distanze
e scendere a patti – infine, con determinazione – per l’interpretazione delle rotte
davanti, e smorti, nella nostra frenesia disforica, ad un’epoca oceanica di sbagli.
A fare maglia
Cose che scivolano dal letto e s’ammonticchiano, cose che cadono di bocca, in scialorrea continua: non ci faremo caso. Sono gli oggetti che sempre raccogliamo: sempre ci abbassiamo alle loro altezze microscopiche, scoprendo tesori con la coda dell’occhio, tra i riccioli di polvere, tra bava e bava. Della gobba, dell’inarcamento cui diamo luogo, della schiena ridicola non ci curiamo, e procederemo, di nuovo, alla raccolta indifferenziata del resto – infileremo perle nei fili, indefessi. Pronti a cucire gli strappi, a fare maglia e quindi a disfarla, ricorderemo Penelope – ma questa volta diremo pure che è odio ciò che non torna a Itaca.
Infittirsi nella vita
Non solo mangiarsi il respiro e sottoporre a radiologia infinita il polmone ormai saturo. (Picchi di sangue sulla pleura.) Infittirsi nella vita: coltivare anche la possibilità del trisma, del segno neurologico grave, dell’impossibilità che scuote tutto il corpo, quando soltanto manca la parola. Capire cos’è il gioco della mandibola, che al doppio compito da’ ordine, eppure soggiace.
(Vi è il delirio della bocca cucita, del male ordito, sempre.)
Passaggio
Il libro nell’urna d’acqua riposa intatto – con la presunzione di resistere a fuoco e peste, sempre, con l’assunzione di un destino perpetrabile unicamente con grande dedizione e con una dedica sul frontespizio – resta quale speranza di passaggio inneggia a mondi possibili a una crescita di unghie inarrestabile che dopo la morte si riconferma forte delle parole riprese nell’esodo – dei piedi, in particolare, messi l’un l’altro avanti, invertendo la marcia una volta diretta verso il ponte maledetto, verso l’orrido
Minuta di silenzio
Di tanti posti, in riva al mare è dove conta meno il minuto di silenzio, stretto tra onda e risacca, accanto alla figura fetale, a ossa rotte, dell’uomo che cadeva. Scrivere sulla sabbia è gesto romantico, meglio le glosse: tatuate dal sole con certezza, e più direttamente, sulla minuta di silenzio (gioco di biglie che sposta le lettere), sulla pelle più profonda, sulla lingua riscossa e bruciata – se è arrivata sino a questo santuario di fuoco e acqua in forma di risma bianca
ora lo lascia con qualche grido, con qualche piegolina.
(Lorenzo Mari - Minuta di silenzio - Ed. L'Arcolaio - 2010)
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Tracciato: Nov 30, 22:41