La poesia vive, anche, di echi. Ovvero di quegli agganci che non solo ti fanno dire "ecco, questo mi ricorda Saba", ma allo steso tempo arricchiscono quello che stai leggendo, ampliandone il significato. Questo ovviamente non sempre, ma sicuramente quando ciò che stai leggendo attinge artisticamente a una tradizione che non sia "preventivamente uccisa e mummificata", secondo le parole del grande triestino.
E' proprio di lui che sto parlando. Nell'ultimo articolo pubblicato su IE uno dei testi proposti mi aveva richiamato decisamente alla mente una delle poesie di Umberto Saba che amo di più. Si tratta di "Ulisse", contenuta nella plaquette Mediterranee pubblicata nel 1946, e poi ricompresa nel Canzoniere (Torino, 1957), una delle "ultime tra le mie ultime cose" (ma come sappiamo non furono davvero le ultime della carriera di Saba).
Una poesia "facile", se si vuole, e arcinota. Ma anche, a mio avviso, una poesia perfetta.
Nella mia giovanezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d'onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d'alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l'alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l'insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.
Tredici endecasillabi cristallini, un incipit semplice (un endecasillabo a maiore
con una prosopopea dantesca) che introduce solennemente ad uno di quei
"miti" autobiografici (Mengaldo) tipici, come questo Ulisse, dell'ultima
parte della vita del poeta, un poeta che non vuole, quasi
programmaticamente, rinunciare al suo "non domato spirito". Un uso
altamente musicale dell'enjambement, l'incastonatura al centro della
composizione di una pennellata di colore quasi accecante nella luce
solare, uno di quei colori giovanili che ricorda Carlo Muscetta da
qualche parte, una vera "smaltatura" come fu definita da qualcuno che
non ricordo. Tutto questo (e altro) confezionato con quelle "trite
parole" di Saba ("amai trite parole che non uno / osava. M'incantò la
rima fiore / amore, / la più antica difficile del mondo" la sua
dichiarazione poetica proprio all'inizio di Mediterranee),
allineate in limpide catene sintattiche scevre da artifici retorici. Il
tempo, il luogo, l'agire e perfino la prospettiva di un poeta già
anziano sono mirabilmente condensati, in maniera direi aristotelica, in
questo breve componimento
A proposito del verso di apertura, vorrei ricordare che uno dei primi lettori di Mediterranee fu, probabilmente a Firenze ai tempi della rivista Solaria,
il poeta e critico Aldo Borlenghi. Racconta Saba, in una lettera al suo
editore Alberto Mondadori: "Ero seduto con lui al Caffè; egli leggeva
alcune delle Mediterranee, che avevo appena, con amorosa cura, ordinate e trascritte. Ulisse era
una di queste poesie. La poesia, nel suo complesso, gli piacque. Ma
ecco che, come ne rileggeva il primo verso, vidi Aldo Borlenghi fermarsi
ed arricciare il naso. Il verso dice:
Nella mia giovanezza ho navigato
Gli chiesi il perché del suo visibile disappunto. Mi rispose che il
verso non era "bello" ; lo trovava anche troppo "scoperto" Ora quel
verso (tecnicamente ineccepibile) non è, in sé stesso preso, né bello né
brutto; è solo un inizio, che vive in funzione del componimento di cui
fa parte, dei dodici versi che lo seguono, ai quali dà e dai quali
prende rilievo. Non è né "brutto" né "scoperto" ; è semplicemente
"immediato", non cioè passato attraverso nessun alambicco di nessuna,
più o meno sapiente, più o meno di moda, deformazione letteraria. Dice,
con rara spontaneità, quello che deve dire, nel modo più semplice e
diretto possibile. Diventa bello (molto bello anche, e felice) quando,
nella memoria del lettore, fa corpo col resto della poesia".
E' evidente che Saba aveva una non piccola opinione di sè, ma non aveva nemmeno tutti i torti.