Aljoša Curavić è un'altra delle voci che mi giungono da una
apparente periferia dell'area linguistica italiana, quella istriana e
dalmatica per intenderci, dove è presente una comunità niente affatto
trascurabile. Rimasta fuori dei confini nazionali per le note vicende
storiche, ha saputo conservare e rinverdire una identità culturale ben
definita. Ma ci saranno altre occasioni per parlarne.
Curavić è
un poeta che ha letto parecchio, si direbbe. Non solo dagli exerga di autori noti spesso presenti, ma anche da richiami abbastanza decifrabili nella sua
scrittura. C'è un Saba (ovviamente), sincopato e infitto in una
sensibilità tutta ultramoderna attraverso l'uso di parole di allora
(sciabordii, flutti, rabescate) inchiodate in una visione di oggi, c'è
qualche limpido endecasillabo di stampo leopardiano, c'è anche il Pavese
poeta narratore, da qualche parte. Comunque sia la poesia di Curavić riesce
poi a liberarsi di certi debiti (ma chi non ne ha?) acquistando una sua
originalità, sopratutto in quei testi connessi a una identità, anche
storica e ambientale, più specifica, a cui il poeta è legato, non
ostante "la nostra micragnosa storia". Assai significative, da questo
punto di vista, poesie come "Frammenti di viaggio" e "Un pò di pace",
ispirate da un sentimento partecipe di appartenenza. Ma Curavić non è
poeta confinario, almeno non nel senso che intendeva Magris, dire questo
sarebbe riduttivo. L'identità di cui si diceva non è tutto, in lui si
ritrovano - in testi più essenziali, quasi spogli, a volte lapidari - anche i denominatori comuni della poesia, italiana e non,
attuale, la riflessione dell'io sulla realtà, certa inanità dell'essere
di fronte all'esistenza e alla sua descrizione ("come descrivere questa
sorta / di molle refrattarietà del male / di ostile benevolenza del
bene?", dice in un testo qui non riprodotto). La risposta, anche per
lui, credo che sia: provarci sempre, provarci con la poesia.
Non ho piu' voglia di vivere, perche' cio'
Non e' che apparenza.Io conosco il
Futuro a memoria.
(P.Valery)
Dicevano li' tra quei rami
Quelle gemme quell' artiglio
Rabescato di nubi troverai
Un albero una radice per quanto
Inutili come i castelli
Di sabbia.Ma nulla .Vuoto.
Nemmeno la memoria di te
Fra quei flutti ti rimane.
Scaglie di trame che incidono.
***
Distruggitor di se' e di sue cose
(Dante)
Trastulla e trescina
Questo tramaglio di nervi
Scavezza e titilla
Questa lattina di muscoli
Sganascia e impasta
Questo santuario di otturazioni
Amore mio saturo
Di clip e aspettazioni
***
Appeso a sciabordii di polke,
Considero il mare un' epidemia e non ho
Che poche sillabe per arginarla,
Poche sillabe e qualche male
Che non gli appartiene.
***
Come bestia addomesticata
La notte mi dilaga negli occhi.
Palpano il suo ventre le mie mani,
Sfrecciano rari occhi spettrali,
Mentre le tue mani palpano
I miei fianchi. Parcheggiati lungo
I muri dei viali come foglie
Autunnali i miei fianchi e le tue
Mani dilagano nel dilagare
Della notte. Scandiscono
Le ore i fanali.
***
Istria. La nostra micragnosa storia
Convulsa come guati (*) appesi all' amo
E' nata su banchi di arenarie marnose.
Ti odio e ti amo o carogna rossa
Di terra e carnosa per quel che in te
Non e' storia ma ossa.
***
FRAMMENTI DI UN VIAGGIO
Via Brigata Casale. La faccio da una vita.
Piu’ lunga della vita di mia figlia:
quattro chilometri piu’ quindici anni.
Ci sono parole che e’ difficile scrivere.
Provocano danni.
Ti commuovono,
sfuggono al significato che vorresti,
aprono altri mondi.
Hanno capricci propri, incontrollabili.
Figlia.
Quando metti due vite in parallelo e in mezzo
ci tracci una strada
puo’ succedere di intravedere una luce
che non vedevi,
una nitidezza ultraterrena.
La trasparenza alle volte puo’ essere opaca,
intrisa di qualcosa che si intromette
fra l’ occhio che vede e le cose che son viste.
Via Brigata Casale.
Scende giu’ dalla camionale
sulla periferia est di Trieste
ed e’ piu’ lunga di una vita.
Odora di benzina e catrame sfuso.
Ha il colore del Carso
che si dissolve fra moli e rive e secche
di un mare in disuso.
***
UN PO' DI PACE
I
Della guerra, quello che so sta
in una fotografia ingiallita dal tempo,
abbastanza chiara da vederci chiaro:
i visi di Johan e Maria.
I bisnonni istro-austro-ungarici.
Stanno li' a mordere dall’oltretomba
il tempo, l' aria. Lei festiva
come una domenica di sole.
Lui marziale come un fante
A difesa dell' impero.
Johan e Maria sono a braccetto.
E' lei a tenerlo in equilibrio.
Stai qua, sembra dirgli. Non te ne andare.
Lui preme sulla coscia il berretto di feltro.
I calzoni stretti alle caviglie.
Quel giorno parti' per Caporetto,
da dove non torno’ ne' vivo ne' morto.
Chissa’, forse gli ha sparato
qualcuno che si chiamava
Giovanni o Ivan o Janez.
C'e' una ragazzina alle loro spalle,
Sbuca dall' orlo della foto.
Stringe le mani nelle tasche
Del piccolo cappotto logoro e sgualcito.
Punta lo sguardo fiero verso il mio,
Infischiandosene del primo piano,
Dell' uomo che verra' polverizzato
E della donna impietrita nell' attesa.
Sembra dire: »Hei, ci sono anch'io!«
***
VERRAI ALLA TUA MORTE
Il dubbio s’ insinua
Dove rimani sospeso
Appannato
Come il parabrezza
Dopo uno scroscio d’acqua
Improvviso
Equatoriale
Indeciso
Non piu’ certo del certo
Senza forma ne’ peso
Come mai nato
Dannato a non esserci dopo
Che sei stato
Il dubbio
Certo s’insinua
Nella certezza d’ esser passato.
Verrai
Come non visto
Sterzando
Giu’
Per la discesa
(*) Il ghiozzo nero, nome scientifico Gobius niger jozo, è noto dalle nostre parti come guato (anche guato de fondo), in sloveno črni glavač. (fonte: ilmandracchio.org, portale della comunità italiana di Isola
Aljoša Curavić, caporedattore responsabile di Radio Capodistria, è opinionista dei
quotidiani “La Voce del Popolo” (rubrica “Libero”) e collabora con il
quotidiano in lingua slovena “Primorske novice” (rubrica fissa “Na
robu-Al limite”).
Ha già pubblicato il romanzo breve “Sindrome da
frontiera” (MEF Editore Firenze), il noir "A occhi spenti" (Edit, 2010) e
la silloge “Silenziario” (da cui sono tratti questi testi), premiata al
Concorso d’arte e cultura Istria Nobilissima 2003.