Martedì, 28 settembre 2010
China (Ed. Effigie 2010) è un romanzo in versi con cui Maria Pia Quintavalla continua a sviluppare il suo personale lessico familiare e forse lo
conclude cronologicamente, concludendolo forse anche artisticamente quando "I compianti" (di cui qui si è già parlato) troveranno una loro forma
definitiva e una pubblicazione. Non so in effetti cosa venga prima o dopo nella travagliata cronologia lungo la quale MPQ ha costruito la sua resa dei
conti, ha voluto affermare "la sua volontà di guardare in faccia la realtà, di rivisitare il passato, di riaffrontare con amore la propria vicenda",
come dice Franco Loi nella prefazione ad Album feriale (Archinto, 2005), un altro dei capitoli di questo percorso poetico. Ma credo che questo libro,
dedicato alla figura della madre scomparsa, assolutamente centrale nella sua esperienza poetica e di vita, chiuda in effetti una vicenda. E, per
ragioni extra poetiche, è proprio quello che auguro a Maria Pia.
Di questo libro, sostanzioso e coinvolgente, si è già parlato in maniera diffusa (v. ad esempio qui e qui). Dire in questa occasione che è un romanzo
in versi è addirittura pleonastico, a questo punto. Romanzo perchè come tale lo si legge e come tale è costruito, con la sua scansione in capitoli, i
lunghi testi in cui domina l'imperfetto (il tempo "femminile", del divenire), e il privilegio dato al fiato narrativo, ai fatti anche quotidiani, alle
epoche e agli ambienti, ai ricordi e alle occasioni. Romanzo forse anche perchè, a mio avviso, qui si nota una maggiore attenzione al dire (e al lavoro
sintattico per dire) piuttosto che al versificare, al polire l'emozione in versi, fatto che certo non esclude i molti momenti lirici, sostenuti da moti
del cuore o ferite ancora molto vivi. O forse perchè il sopravvento del dato biografico assume l'aspetto di una rilettura della vicenda con tratti a
volte cronachistici, di ambientazione, di posizionamento storico, che lascia sul terreno come i detriti di una magnifica scultura.
Mi sembra che l'interrogazione di fondo di questo libro sia l'estrarre tutto l'estraibile dalla vicenda umana dell'autrice, o almeno da questo suo
epilogo familiare: una lotta feroce, non facile, a tratti eroica, sul fronte almeno doppio dell'affollarsi del materiale poetico e del linguaggio
necessario per ridurlo alla ragione, sempre in bilico tra tracimazione e condensazione, tra il bisogno di "narrare" totalmente il fatto o il ricordo di
esso, e quello di ridurlo alla sua essenza poetica, decantandolo. E' l'elaborazione di un lutto (quello della madre), come è stato notato, ma anche
metabolizzazione di conflitti forse mai del tutto composti. Il rimpianto (o il compianto, per rimanere a un termine che è ormai "suo", di Maria Pia) è
molto spesso contrappuntato da sottolineature di incomprensioni o contrasti, in modo che il rimpianto è anche e contemporaneamente l'impossibilità,
sancita dalla morte, di poterli infine conciliare ("sono tante le cose che non ti ho detto, / il testamento andava scrivendosi piano..."). Il libro è
anche la storia di un confronto tra donne. Non tanto tra una diversità o una distanza di età o di ruoli all'interno di una qualche gerarchia
madre/figlia, piuttosto tra diversi modi di essere donna, tra diverse priorità (una per tutte la scrittura, così aliena e "altra", così indispensabile
e vitale nelle diverse sensibilità delle due deuteragoniste.
Il corso del "romanzo" è in parte il corso degli eventi, strutturati appunto narrativamente, con prologhi, epiloghi, ripetizioni, passi indietro (come
nota Ottavio Rossani: "a passo di gambero: uno avanti, uno indietro, cioè una proiezione verso il futuro liberato dalle ombre e, poi, un’estrazione
improvvisa dal cilindro della memoria"). Si inzia dalla fine, dalla morte avvenuta, dall'ospedale, da una specie di preghiera laica ("..oh madre / che
riposi oggi nella conoscenza, / stai serena e guarda noi piccoli. / se salvatrice, accoglici...") o anche da un dubbio che assale chiunque abbia
perduto una persona cara ("come ci senti, dove ci ricordi, / hai bisogno di noi, o ne sei offesa sfinita" o anche "dove ti trovi oggi, madre, / sei
nell'ineffabile dell'aria tra i campi, /...o resti qui tra noi diversi, divisi ancora / dalla tua grande, e atroce vita"). Poi , tornando indietro, la malattia, le visite dei parenti, spettatori
più rituali che confortanti, a volte destinatari di lemantele che coinvolgono ancora Maria Pia, e quindi il conflitto, in una sezione intitolata "I
parenti, il perdono". Perdono di chi nei confronti di chi? Non è chiaro, non c'è traccia di perdono, se non convenzionale ("bisogna perdonarsi tutti,
/ genitori e figli. Lascia andare!", dice una cugina alla madre), se non quello delle parole della poesia o quello di accudire, "ricambiando il rito",
cioè una qualche inversione di ruoli madre/figlia che l'infermità comporta, non necessariamente con affetto. E ancora più indietro, alle origini del
conflitto, in una sezione intitolata "Il decalogo di una bambina" in cui si marcano le diversità, si delineano i caratteri, si fissano i contorni del
dissenso, si cerca disperatamente di far capire "che cosa a un bimbo / non si può mai fare". Torna prepotente il problema della scrittura come costante
di vita inalienabile per l'autrice, non percepita invece dalla madre, e perfino oggetto di incidenti (o forse distruzioni freudiane), come quando il
padre "nel repulisti annuale, i bei quaderni / caddero nel fuoco". Ma sullo sfondo non c'è solo questo, si intravede anche un naturale attrito
generazionale, tra ribellismo da una parte ("Al Sole e alla Luna, scrivevo / ai nonni materni / ... / Al caro Hitler e al caro Stalin, / l'intestazione
di missive ai genitori veri") e dall'altra una consolidata idea, anche estetica e etica, di figlia femmina, un orgoglio ("... Io, ti ho fatta / così
bella, rivendicavi...") a volte non abbastanza confortato dai riscontri che ci si aspetta, mischiati in sentimenti ambivalenti nei confronti di chi,
invece, "voleva / da lì muoversi, salpare".
Bambina, adolescente che cresce e si muove tra scuola e famiglia. La sezione "Interni, totem" è forse quella più densa da un punto di vista narrativo,
gli interni in cui si muovono i personaggi e avvengono i mutamenti sono (forse, forse) quelli della "casa" che poi Maria Pia chiuderà ne "I Compianti",
il totem non è solo, probabilmente, il nome di un orsetto, ma anche il corpo, di cui l'autrice in questo periodo inizia a percepire non solo le
pulsioni accese, ma anche le potenzialità di spirito guida, di libertà e di liberazione, o almeno di qualche infantile riscatto o richiamo
d'attenzione. Certo, dapprima il corpo della ragazzina è esibizione di un dolore che esige il conforto della madre, come quando, dopo un incidente
quasi cercato a scuola, "lei arrivò, / incurante in tailleur snello, così sembrava", e per l'autrice "la mia gloria, in quella tenera mattina, / era
che lei per me, noi sole, / potessimo una volta stare accanto" (ma, avverte Maria Pia, "non si ripetè il miracolo"). Poi l'infanzia svanisce, il
corpo diventa altro, nei giochi si insinua la curiosità sessuale, nella naturale schermaglia "al buio i maschi spingevano le bambine per baciarle",
ancora non chiaro il confine tra bene e male. La madre sorveglia, la madre nota e addita i primi toccamenti, come una ricerca di altri affetti, di
altre "braccia" che non fossero quelle materne. E poi altre attrazioni, anche fraintese, e il buio dei cinema, e i ragazzi, le avances. "L'amore - dice
Maria Pia - era per me già gioco duro / di una me che non sapeva perdere leggermente / né vivere all'oscuro". Su tutto, sempre, la scrittura:
"tacevano squittivano nel buio / dei quaderni, i versi".
Il trasferimento a Milano di Maria Pia (la sezione "Milano, poi") è narrazione della malattia, conoscenza, sua e dei suoi piccoli ricatti,
prefigurazione della morte. Ma anche ulteriore discontinuità nella comunicazione, difficoltà, ancora, di intendersi, dubbio della madre che questa
difficoltà sia ingiustificata (v. "La consegna del silenzio) o un atto mancato. A volte eventi come la nascita della figlia dell'autrice rompono certi
silenzi, e offrono spazi ad affetti delegati, a volte chi scrive ammette, come un linimento, che "le distanze acquisite mi facevano protetta", o che al
telefono si va molto più d'accordo. Eppure la distanza, come direbbe Stefano Guglielmin, è immedicata. Diventa un territorio in cui i ricordi della
vita familiare, in quella casa ora lontana ("in quella che appariva una spaziosa casa"), si affastellano, la televisione, i quiz che amava il padre, il
quaderno dei conti della madre "cui il padre obbligava, in doganale sguardo", i rituali stagionali, la cucina, i "leggendari pranzi di Natale" da cui
la madre usciva spossata, fino all'ultimo. In altre parole la distanza, anche se nella narrazione, tra i ricordi, emergono ancora gli atti o i discorsi
di recriminazione e la malattia e i medicinali diventano un corpo solo, ritorna ad essere appello di affetti, necessità di quegli incontri (o
re-incontri) che Maria Pia non esita a definire "visitazioni".
Forse la sezione del libro più "affettuosa" è "Parlavi per intonare una tua antica voce". E' la narrazione nella narrazione, il racconto dolce di una
madre affabulatrice, di sè, della sua infanzia anch'essa alle prese con una madre "sempre lontana e dura", della guerra, del padre "dolce hidalgo, di
antichi fasti orfano", di "altre storie più lievi, fiabe gentili", di leggende locali in cui parole dialettali, così poeticamente feconde, "nel
dondolare della lingua / si mischiavano al carnale, selvatico di Parma / ne rotolavano giù per terra, / come un bimbo cade sopra un prato". Una, qui,
rimpianta madre che, dice l'autrice, "eri inesausta nel narrare, tutto rapivi / al volo nei dettagli, di un'epica solenne: / noi là vinti - ad
ascoltarne il verbo, il verso".
Al suo epilogo il libro, in una sesta parte titolata "A sud, speranze", vira malinconicamente verso una riconciliazione del ricordo. Al sud, luogo di
villeggiatura negli ultimi anni, le speranze si ricollegano alla possibilità di un dialogo, complice una maggiore pacatezza dell'età, all'approdo di
una ricerca ("per una vita ti ho cercata, / in luoghi già vissuti") o all'ultimo bilancio di ricordi felici, alla fissazione di essi, infine, in poche
immagini definitive ("cara madre, / dai foulards in pervinca azzurro"), quelle che ci serviranno a stabilire, al di là di tutto, un amore, un'amorosa
assenza in cui finalmente "non c'è acredine o ira, né silenzi, ma danza / dell'uno verso l'altro", dolci immagini sullo "sfondo ideale di una
famiglia", "storia che ci lega, / invisibile ai più".
La consegna del silenzio giunse a proteggere le mie corde vocali, il rito delle telefonate con la madre fu interdetto proprio lì, la sera, che era momento di massima effusione volgendo noi, nomadi all'aperto. Occorreva battessi per rispondere sì, che tacessi per il no: fu spoliazione estrema il pigolare lieve, tu tu tu insisteva, sul telefono regredendo me a cosina.
Nell'oscuro codice la madre era garante dell'innocuità del gioco, una distanza che si palesava, le maniere infantili sull'orlo di intimarmi, Piantala, questa commedia ci ha stancati, ubbidisci, rispondi! Iniziarono i toni dell'accusa quando non rispondevo, subire quei monologhi feriti doveva farmi un'impressione strana, di affetto ricusato, per una volta io al comando, tu in balia del gioco, il tono miagolante minacciava asserendo, Lo sai, una cosa sola pretendiamo, tu stia bene, parla. Non vedevi, come fatto reale, la mia malattia; il nastro della segreteria raccoglie il monologo materno, ora lieve giocoso, ora insoluto, com'era già fra noi, la relazione.
***
Di contro ringhiavano altre immagini di te, quando infierivi, io adolescente, se ordinavi
le porte del bagno spalancate, o interdivi il lavarsi, né mai compresi una sragione così torva, ma imparai presto i colori del mimetismo, compiacerti al buio, levare via le tracce, se rea di preferire altri, fuori da te, dove non c'era il sole.
Avila e la clausura, di figlie femmine in peccato, era quanto la mia immaginazione di ragazza poteva fare congettura.
***
"Andiamo molto più d'accordo al telefono", l'ho notato anch'io, ma sentivo soffocare la vergogna, né lei se ne avvedeva. Dunque ci avevo pensato, continuava, è meglio non ci vediamo di persona. Lo vedo anch'io, annuivo sempre più cupa, poi di scatto, Ma ti pare normale non possiamo vederci, cosa significa, mi rabbuiavo in croce.
Non saprei, è così, credevi dirmi cosa gradita da una cabina telefonica sul lungomare in lontananze panacea dove credevo rinsavire il cuore, cucito in un'infanzia. Ne tacemmo fino al giorno in cui, con voce soffocata dicesti al telefono non avevi mai avuto un buon rapporto con me, ma avremmo potuto averlo in seguito, poiché avevamo davanti a noi la vita -
Avevi compiuto da poco gli ottant'anni, pensavi alla prossima esistenza, o a questa ignota, anima cara.
***
Un idolo maschile, icona silenziosa di quegli anni fu Fausto Coppi, eroe ostico che entrava nel mito. Nei volti divinati al cinema cercavo un'aria sexy, intellettuale che mi attraeva, misto di anima, e fuoco intenso dentro, ma fuori dal miracolo mediale succhiavo, in quei normali dopocena un altro leit motiv, la storia dei torti ricevuti con cui tessevi gli alfabetieri del peccato. Nessun Grimm o Salgari ho più ricordato di quel ron ron sonoro dalla cui saga pareva originarsi il mondo, lo ricordo come un fondale colorato fino al giorno in cui qualcuno poi moriva, si sposava, i cattivi restando minacciosi a dominare la piazza, come nel gran teatro del mondo: li sognavo a notte, consideravo icone o santi, più spesso demoni in campana.
***
Mi raggiungesti al mare dopo le nozze d'oro: quel tuo giungere trafelata a una salita, incredula, alla sala ristorante, declinava il sorriso, il pasto i brindisi, tutto ti costava, raggiungesti per ultima la spiaggia da noi tutti incoraggiata, ma ti fermasti al bar, eri tenuta a braccia, da vicino manifestavi i segni del declino; da tempo avevi rinunciato a camminare, i piedi come archi si flettevano, gli occhi appannati, ti lamentasti tutto il tempo, volevi presto ritornare a casa dove immobile attendere, malata. Il contrasto con mia figlia che iniziava il camminare, era duro a vedersi, la mia vita divisa in due da tempo, il futuro ai primi passi, il passato come i malanni, irredimibile. Sarei stata graziata, ma non lo sapevo. Così il congedo, nel dopo pasto, melanconico, i baci alla partenza soffocati, strani presagi nell'aria avviluppati, seppi dalla telefonata il giorno dopo che eri caduta, la prima di una serie,
perdendo l'equilibrio, la diagnosi che si annunciava, celata, era processo di ischemia iniziale. Ma al mare ci venisti, e io ne ebbi una visitazione.
***
Andavo in visita a mia madre negli inverni quando da anni preferiva restare immobile seduta, sognando un po' certi pensieri tristi, la vista danneggiata i piedi e la schiena compromessi, la paura a cadere; al mio arrivo volevi sfogarti un po' con me, dicevi, Sai, quando vengono a trovarmi siedono sulla sedia qua di fronte, ma hanno sempre fretta poi vanno via, stringevi gli occhi miopi per sentire come tu non vedessi bene, e allungandoti verso di me chiedevi un'attenzione. Volavano tristezze, non potevi fermarle, ti appoggiavi allo schienale, unico sostegno, e con la voce dalla grana amorosa, parlavi a noi. Parlavi per intonare una tua antica voce, sensibile profonda venire incontro, maturare fiorire poi cadere, seminare più melodie nella tua stanza che ne restava scossa - il presente avaro di gesti. Lamentavi anche la sera, le sue solitudini appassite per poca vita -
E ci straziavi il cuore, noi col cappotto in mano, vitellini scappati o già venduti al mercato tanto tempo prima, senza là nessuno il marchio, avesse mai potuto scioglierlo mondarlo, tumore colpa di nessuno che una vita, o il destino gli si incollasse addosso, come sanguisuga. Altre volte, era la storia dalla cupola illimitata a farti volare, prendeva inizio un ricordo strano, ora lieto, di famiglia:
una danza ariosa procedeva, il tuo naso diritto segnava l'orizzonte lasciava traccia nell'aria, con la voce disseminava sé, i saluti evitati come il dramma dell'addio che si doveva, e mai nessuna che strappasse l'ipnotica catena, strattonando il cappio.
Nessuna sapeva più di te quei fatti misteriosi, li ritessevi come tradizione tua, libro detto e non scritto, cui ciascuno doveva credere per fede quando attaccavi a dire, Tu non sai quando... il fiato si faceva corto, le mani immobili per non turbare te, in solitaria positura, la corolla abbassata, vaticinavi noi: una musica dolente di stanchezza girovaga verso la periferia, prendeva un andamento arioso al punto che sentivo d'esserne già parte, vi appartenevo col cuore più persuaso -
***
C'era una storia senza tempo come quella del fratello prediletto, accompagnato a casa di già morto annegato, a braccia dai paesani, poiché l'altro il più piccolo, non era riuscito a muoversi gridare, trarlo in salvo dal letto del torrente Parma, dov'era andato ad imparare il nuoto. Tua madre, nel riconoscerlo, era impazzita, si era strappata i capelli, già gridava non si sa quali grida, Accorrete correte! Tutti tornavano lentamente a casa, dove lasciarsi fulminare poi dalla visione: il fratello maggiore i parenti, e amici tutti,
tornavano dai campi verso sera, e lui solo, Glauco, non poteva, il più dolce sensibile che ti aiutò a proteggerti dagli altri.
E tu là ragazza, unica femmina incapace di avvicinare la madre, sempre lontana e dura, che strappandosi i capelli sulla scena di casa, rendeva pubblico lo strazio, sul dormiente urlava senza più fiato lo chiamava indietro, a te nessuno che prendeva le mani che calmava.
***
Con aria complice mi avvicinasti, alle ultime vacanze al mare, Fra poco sarà tempo che invecchiamo, dovremo fare le vacanze insieme, non lo credi? Lo sai che vostro padre è a rischio, abbassavi la voce, temevi ti ingannavi su chi era tra voi il più debole, il più bisognoso d'essere protetto. avevo voglia anch'io di raccontarti certe mie storie quando a otto anni, mi perdesti in un paese della val bresciana. Al comando dei vigili del posto, mi presentai pensando ormai all'orfanotrofio, così fantasticavo d'essere perduta. Ma, come pronto lo sguardo a riaverti, le grida da lontano,
si riformava la famiglia, mi stavano sgridando, dunque c'ero, c'eravate ancora. Quanta valle buia, per ripide di poca luce, nell'umido di alberghi senza i colori di passeggiate silenziosissime nel verde visitato da continue piogge, in girone invernale, dove massimo piacere era il pieno in borracce. Parlavamo poco io e te, tu più spesso avvolta in silenzi ostinati, ti azzittivi. La mia vita sociale era di sera, nei sottoscala giocando alle signore, cucinavo minestre di cacao e di zucchero in tazzine da caffè inscenando un pò di vita, ma la tristezza della muffa o pioggia, concludeva poi storta la serata; in camera, come orazioni fisse, ricordavi non potevi fidarti della tua famiglia, se fosse morto il babbo, non avremmo potuto più studiare, e altro ancora di tremendo, io crescevo piano col compito di fare luce alle tue pene.
***
La sostanza, tu che di "sostanza" amavi fare scorta. Tu, che la ciccia dolce e imperturbabile portavi addosso come collana d'oro; che non osasti mai smentire tale, il grande corpo della madre, trovasti nell'impenetrabile magrezza ultima, una catarsi mistica di te sognata, tappa ritmica del corpo e cuore di ragazza che diceva no al suo cibo. Una sua splendida e trovata vita, poiché dal lato di magrezza del pensiero, spirito dove non ti eri mai piegata, dal lato sconsolato di tuo corpo attento, febbrile sua muscolatura, scatto dei "no" ripetuti in fondo al tempo dove non eri più plasmata; così all'ultimo, tu lo facesti integra, tuo. Né pancia o adipe più rivedemmo, ma corpo asciutto di ragazza.
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Tracciato: Feb 27, 21:40