Mercoledì, 8 settembre 2010
Uno dei problemi correlati ai divieti di scrivere o pubblicare quello che non piace a chi comanda (e lasciamo perdere le autocensure dei servi
del padrone, quella cosa antichissima che Orwell chiamava “censura volontaria”) è sapere se – eventualmente – c’è ancora qualcuno che legge. E
se, qualora legga, capisce. Ci si preoccupa meno di questo, come se fosse molto più importante salvaguardare il principio. Naturalmente lo è, ma
non bisogna mai dimenticare che in questo paese, forse molto di più che in altri paesi occidentali, esiste una seria questione culturale, ormai
endemica quanto quella meridionale o quella mafiosa. Questo alla politica interessa poco (o molto, per un altro verso) e la scuola italiana, ora più
di ieri, certo non aiuta.
La profezia di Orwell non stava tanto nella nascita di una società occhiuta, onniveggente e ficcanaso, cosa che invariabilmente si è verificata ma che
nell’immaginario collettivo si è ridotta a una stupida trasmissione televisiva per guardoni, diffusa in decine di cloni in tutto il globo. E’ ovvio che
nello stesso immaginario come minaccia sociale si è depotenziata parecchio, e tutti sono convinti che non c’è niente di male se qualche telecamera ti
riprende per la strada. Tranne quando, naturalmente, qualcuno non ti filma mentre sei al cesso con le mutande calate e ti sbatte su Youtube. Allora sì
che ti incazzi, improvvisamente conscio del tuo status di cittadino (?) colpito nella sua privacy.
No, la vera profezia di Orwell, non a caso spostata nello stesso romanzo al 2050 (coraggio, c’è ancora tempo), sta nella progressiva distruzione della
capacità di comunicare, soprattutto nel senso di mettere in comune affetti, sensazioni, idee, colori, opinioni. L’impoverimento della lingua è
un fatto, ogni mese esce fuori una statistica che ti dice che il vocabolario di base (lasciamo perdere gli altri) è sempre più sparuto, che i nostri
giovani sono sempre più asini, che essendo come popolo negati per le lingue non possiamo nemmeno fare affidamento su un altro idioma, una nuova lingua
franca. Le colpe di questa situazione sono svariate, e vanno dalla televisione (naturalmente) fino alla educazione parentale (dis-educazione
generazionale a cascata), passando per la solita scuola, e per Internet, un mezzo che contemporaneamente è democratico e superficiale, anche nel senso
dell’inibizione ad approfondire un pensiero non casuale. Ma queste colpe hanno un denominatore comune, che è la trasmissione e la pervasività di una
in-cultura epidermica e volatile quanto una canzonetta estiva, e soprattutto intercambiabile a seconda delle esigenze, in altre parole consumabile.
Come si diceva, il guardare, lo scrutare, il sorvegliare (anche se avessimo un Panopticon planetario) e magari punire, da solo non ha mai cancellato le
idee nella testa della gente, in quanto, come ha dimostrato Foucault, espressione di un potere esercitato essenzialmente sul corpo (tuttavia è
bene ricordare che il corpo è, a partire dalla seconda metà del ‘900 e oggi più che mai, un terreno politico, anche se sempre meno di
liberazione).
Come aveva bene intuito Orwell, quindi l’occhio (anche se vuole la sua parte) da solo non poteva bastare. Era (è) necessario smantellare i meccanismi
linguistici che permettono un pensiero articolato e possibilmente profondo, certo politico, ma anche filosofico o, cosa che qui ci riguarda, artistico.
Non è uno scherzo, poiché come è stato dimostrato dalle scienze neurolinguistiche “l'impressione che molti hanno di poter pensare o addirittura
ragionare senza la lingua è un'illusione” (Sapir). Strumento e insieme obiettivo di questa operazione è una neolingua (newspeak, prendiamo anche
noi questo termine da Orwell) che funziona come un virus informatico, svuota le parole, le innesta in slogan e tormentoni, le rovescia nel loro
significato o nella migliore delle ipotesi le semplifica fino al significato singolo, senza contare la instancabile fabbrica del luogo comune di certo
giornalismo. Nella situazione attuale, al pari di quella ipotizzata in 1984, si tratta di espellere dalla lingua tutto ciò che è “non
indispensabile” (parole di Orwell). Già, non indispensabile. Ma a chi o a che cosa? Tanto per cominciare, in piena sinergia tra televisione e altri
media (con la conseguente necessità di controllarli in una nuova softdittatura), non indispensabile alla politica. E’ possibile desumere qualche
esempio, a parte quelli lampanti sui giornali di tutti i giorni, in un articolo di Fabio Mussi apparso su L’Unità del 5 maggio 2002 (reperibile qui), a sua volta ispirato da una nota di Federico Orlando apparsa sullo stesso giornale. Qualcuno sicuramente obietterà che il compagno Mussi
ha anche lui avuto a che fare a suo tempo con una neolingua d’altro genere, ma tant’è. Il problema è semmai che tutti, ma proprio tutti compresi quelli
che oggi stanno all’opposizione, cadono nella trappola della semplificazione, inseguendo prima (vanamente) l’immagine, e poi lo slogan con poco
contenuto. Il disorientamento, che contribuisce a sua volta alla caduta del senso, è naturale che sia grande
Dietro tutto questo lavorìo ideologico non c’è naturalmente nessun Miniver (il Ministero della Verità di 1984), anche se un Ministero
dell’Amore, con i tempi che corrono, non stupirebbe certo nessuno. C’è semmai l’innesto di un progetto capitalistico aggressivo e insofferente a
qualsiasi regola (qui da noi tra l’altro molto personalizzato e molto monopolistico) su un tessuto politicamente e culturalmente debole di cui si
tenta di annullare i residui anticorpi, siano essi rappresentati dall’informazione, dalla cultura, dalla scuola, dalla ricerca, o dalla stessa
Costituzione. In tutto questo il linguaggio, la capacità di espressione c’entra e come, è anzi fondamentale. E fondamentale è combattere, per dirla con
de Saussure, la radicale trasformazione della parole (l’aspetto creativo e individuale del linguaggio) in una rigida langue di parole
d’ordine martellate nel cervello di ciascuno dai telegiornali, dai reality show, dalle soap opera, dai finti dibattiti, dagli opinionisti senza
opinione propria, dai portavoce che si aggirano perennemente negli studi televisivi.
Non è solo una questione di parole, certo. L’impoverimento lessicale per tradursi meglio in obnubilazione del pensiero ha bisogno di quello che negli
incendi si chiama un accelerante. Cioè, nel nostro caso, di una diffusa omologazione che ormai è lontana anni luce da quella che paventava
Pasolini. Non si tratta più di una assimilazione culturale o della fine della civiltà contadina con le sue lucciole (per quanto Pasolini avesse
acutamente preconizzato la “mutazione antropologica”), e neanche dei timori di K. Popper nei confronti della TV che erano incentrati per lo più sulla
violenza assimilabile e trasmissibile. Si tratta di una riprogrammazione dei bisogni (ancorché impossibili da soddisfare), delle estetiche,
degli intrattenimenti, delle paure, dei modelli, dei comportamenti, delle percezioni, che devono essere contemporaneamente monoculturali (con quello
che potremmo definire, dato che parliamo dell’Italia, una glocalizzazione psicologica), cioè, estremizzando, una nuova ideologia, una nuova narrazione in cui purtroppo la TV, come orwelliano occhio rovesciato, ha una gran parte. L’obiettivo è - anche -, come annotava Guido
Vetere tempo fa su Il Sole 24 ore, non la semplificazione del messaggio, ma la semplificazione del suo recettore (antropologicamente, ma anche nel
senso, aggiungo, che sia limitato e semplice quello che gli interessa di sentire, in quanto limitati i suoi interessi).
Sì, stiamo parlando dell’Italia, il bel paese dove il sì suona (e chissà se suonerà fino al 2050).
(g.c.)
Syme diede un altro morso al suo pezzo di pane nero, lo masticò in fretta e poi riprese:
«Non ti accorgi che il principale intento della neolingua consiste proprio nel semplificare al massimo le possibilità del pensiero? Giunti che saremo
alla fine, renderemo il delitto di pensiero, ovvero lo psicoreato, del tutto impossibile perché non ci saranno più parole per esprimerlo. Ognuna delle
idee che sarà necessaria verrà espressa esattamente da una "unica" parola, il cui significato sarà rigorosamente definito, mentre tutti gli altri
significati sussidiari verranno aboliti e dimenticati.
Già nell'Undicesima edizione non siamo troppo lontani da questi risultati. Ma il processo di riassorbimento delle parole continuerà a lungo dopo che tu
e io saremo morti. Ogni anno ci saranno meno parole, e la possibilità di pensare delle proposizioni sarà sempre più ridotta. Anche oggi, naturalmente,
non c'è né ragione né giustificazione per lo psicoreato. È tutta questione d'autodisciplina, di verifica della realtà. Ma un bel giorno non ci sarà
bisogno nemmeno di questo. La Rivoluzione sarà completata solo quando la lingua avrà raggiunto la perfezione. (…) Non hai mai pensato, caro Winston,
che per l'anno 2050 nemmeno un solo essere umano sarà in grado di capire il significato d'una conversazione come quella che stiamo tenendo ora?»
George Orwell – 1984 – trad. Gabriele Baldini
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