Sabato, 21 agosto 2010
Su come se la passi la poesia, data sempre per moribonda se non spacciata del tutto, interviene Valerio Magrelli, in un articolo su La Repubblica del 14 agosto scorso, dal titolo "Un popolo di poeti - Un paese di rime tempestose" (v. qui). Articolo appunto giornalistico, ma comunque interessante sintesi di come la vede un osservatore in un certo senso privilegiato come Magrelli, che ha modo di registrare lo stato dell'arte da diversi punti di vista, compreso quello interno alla editoria maggiore. Si parte naturalmente dalle cifre, a prima vista impressionanti. Un milione e mezzo di persone che avrebbero composto almeno una raccolta in vita loro (non sappiamo se edita o no), 20 o 30 mila "praticanti" (termine che sta, non certo per colpa di Magrelli, tra la fede religiosa e il judo). Cifre notevoli, sì. ma mi chiedo quali in proporzione possono essere in un paese come gli Stati Uniti, dove la poesia si insegna perfino nelle università. Voglio dire, può darsi anche che le nostre non siano così esorbitanti. O può darsi viceversa che lo siano, in relazione al grado di acculturazione di questo nostro paese. Comunque sia, il fatto è - prosegue Magrelli - che i poeti sono tanti e i libri di poesia venduti sono pochi. Ecco qua il punto, tante volte sollevato anche nei dibattiti in rete: si scrive ma non si legge (e tanto meno si legge criticamente, ma questa è un'altra storia). E se vogliamo per un attimo rimanere alle cifre, sarebbe bastato che il milione e mezzo di scrittori di poesie avessero comprato un libro di poesie, oppure, se vogliamo accontentarci, sarebbe sufficiente che i 30 mila "praticanti" acquistassero una raccolta all'anno (diciamo 30 raccolte per mille copie, considerando queste mille una produzione editoriale di "sicurezza") per evitare la lamentata chiusura di certe collane. Questo è un fatto, per usare le parole di Magrelli, di carenza comunicativa, perchè, dico io, è carente il ricevente del messaggio (e come sappiamo, mentre il silenzio è anch'esso una forma di comunicazione, la sordità non lo è). Altri fatti, richiamati da Magrelli, sono lo spostarsi dell'interesse, sopratutto giovane, verso altre forme "liriche" o poetiche come la canzone (citando Lorenzo Renzi) e lo scadimento del mandato sociale del poeta, ripiegato sul confessionale, sul narcisistico dettaglio della propria vita effimera (citando Mazzoni). Magrelli si è sempre opposto fieramente all'idea che la musica leggera, la canzone anche autoriale sia "poesia", opposizione che ho potuto constatare anche personalmente durante un incontro pubblico. Su questo sono certo d'accordo con lui, con buona pace dei fans di De André o Capossela. In quanto all'io imperante a cui allude Mazzoni, non si tratta tanto di quello eroico che ha attraversato il '900 mostrando la crisi dell'individuo di fronte ad un mondo sempre più complesso, ma quello che dopo aver esaurito l'espressione di realtà nuove per quanto individuali ha poi portato questa individualità verso modalità espressive che quanto più erano libere tanto meno erano comunicative. E allora? Allora, per quanto queste premesse non siano affatto rassicuranti, la prognosi non è del tutto infausta. E questo perchè, come annota correttamente Magrelli, la comunicazione poetica si è spostata altrove. E lo ha fatto in due direzioni importanti, quella di una produzione cartacea minore, di riviste e piccoli editori, spesso più coraggiosi e curiosi dei grandi (in gran parte in difficoltà); e quella di una poesia disseminata in luoghi o eventi (Magrelli cita gli slam) o occasioni diverse, anche più capillari dei festival che cita Magrelli, o dei premi letterari su cui qualche volta è lecito avere dubbi. Sul versante della carta, tralasciando per il momento le antologie, a volte costruite come certe mostre, cioè su un filo conduttore artefatto (il più di tutti quello basato sull'astrattissimo concetto di "giovane"), direi che l'attività più meritoria la svolgono i fogli, le piccolissime riviste, le piccole case editrici (i nomi sarebbero molti). La poesia su carta sembra effettivamente affidata all'editoria minore, o addirittura a quella amatoriale, che si accontenta di andarci pari anche senza il famigerato "contributo" dell'autore, quella che seleziona la roba da pubblicare mediante un confronto tipo un concorso che non sia ad usum assessoris o annusando in giro (e dove vuoi annusare, ormai, se non nella rete?). Ed effettivamente quello che conta (e la novità) è appunto il confronto, più o meno democratico, che va a sostituire il patronato o patrocinio di questo o quel Poeta Noto. Breve inciso: non illudiamoci del tutto, anche nel web ci sono forme di patrocinio che si appoggiano alla "autorevolezza" di certi siti o luoghi virtuali. Ma è una questione marginale. Sta di fatto (e ne abbiamo parlato in altre sedi) che solo il web poetico può avere una visione abbastanza varia di quello che sta succedendo. E' un fatto che personalmente riesco a leggere cose più interessanti in certi siti che nella "bianca" di Einaudi, che pure si azzarda a pubblicare perfino esordienti assoluti (v. qui). Già, la rete. Magrelli accortamente non manca di registrare (forse con un pò di ritardo) che la novità vera è appunto rappresentata dal web, anzi direi meglio dalla comunità poetica che bene o male e con differenziati livelli qualitativi (e qui si torna al problema della "lettura" critica) si è insediata in rete. Ai siti che cita Magrelli aggiungerei almeno il nuovo e in progress Poesia 2.0 (v. qui), figlio naturale di un serrato dibattito su poesia e web che si è svolto negli ultimi tempi (Vimercate, Verona, la rete stessa...), dibattito che tutti si augurano che continui e si intensifichi, non ostante qualcuno creda di identificare elementi di stanchezza nel mezzo. Qualche considerazione finale. Partito dalla contraddizione tra i molti poeti e la poca poesia venduta, Magrelli chiude il cerchio tornando al paradosso del rapporto tra poesia e mercato. Eppure, proprio partendo dalla millenaria convinzione che carmina non dant panem (né ai poeti né agli editori), deve proprio esserci un rapporto di questo tipo? Non è forse proprio la piccola editoria, che ha depotenziato la carica commerciale della poesia, e ancor più internet, che l'ha smaterializzata e forse defininitivamente demonetizzata (mi si passi la parolaccia), che hanno spostato drasticamente i termini del problema? E se invece di venderla l'obiettivo fosse quello (con il web, gli eventi, gli slam, le letture, il copyleft) di fare della poesia una cultura diffusa?. E anche: possiamo inquadrare il problema da diverse dicotomie? Voglio dire, possiamo decidere che c'è una differenza sostanziale tra poeti editi e poeti noti? oppure tra poeti venduti e poeti diffusi (scelta che alcuni hanno fatto)? se la mia poesia in rete ha 500 lettori non paganti e quella del Poeta Noto vende 500 copie come va considerata la cosa? Certo questa diffusione, le centinaia di pagine che è possibile reperire in rete pongono a maggior ragione il problema della qualità, e di una attenzione consapevole e critica. Ma restano una serie di domande, una delle quali è se per far vivere la poesia non dobbiamo alla fine "regalarla".
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