Lunedì, 9 agosto 2010
Poesie da una piccola silloge di Enrico De Lea, da presso e nei dintorni, che forse sarà pubblicata a stampa così, forse sarà rivista, come lui stesso mi dice. Comunque sia, anche qui come ne I ruderi del Tauro (L'Arcolaio, 2009), Enrico continua la sua personale torsione e manipolazione del linguaggio. Nei Ruderi il linguaggio era non solo, come osserva Francucci, usato, riusato e "raschiato", come ripiegato su sè stesso, con una valenza (aggiungo io) gnomica e anti-fàtica insieme. ma anche (aggiungo sempre io, ma di questo spero di aver modo di parlare meglio altrove) caricato di altre funzioni che potremmo definire psichiche o metapoetiche. Qui invece la lingua poetica è programmaticamente sottoposta al regime carcerario della forma chiusa, del metro, della rima, ma senza nessuna pretesa di rinnovare tradizioni o di usare la forma in modo iconico o ironico. Il che non vuol dire che non ci sia una attenzione "culta" verso certe modalità, come nel caso del richiamo alle "frottole" , canzoni sentenziose quattro-cinquecentesche, o alle ottave, componimenti tanto popolari nella Sicilia di De Lea quanto nella mia Toscana. Ma quello che interessa è il tentativo di Enrico - apparentemente paradossale - di rinchiudere l'idea (sia essa una piccola meditazione sulla morte o una memoria) dentro l'angusta cella della forma, e ivi illuminarla come alla luce d'una feritoia, e liberarla, renderla acuminata, come in certe chiuse quasi epigrammatiche che qui è possibile leggere.
da (ottave)
(etiche)
Pensa, le case che abitammo nell’assenza che dentro vi s’impianta, dove i padri non sono, ma in passato furono un’essenza di verità scolpita e raccontata; qui, che ladri nacquero tra noi, e fu esperienza d’ombre senza figure, di grigi quadri resi ai mercati a prezzi cravattari, da trafuganti loschi, dritti re di denari.
***
(ottava dal cimitero di Ciappazzi)
Anime pregne, torsi seppelliti coi corpi al cimitero sul paesaggio, niente salvezza, esseri sfiniti, dalle beghe di ieri, a quelle d’oggi. Gli occhi qui vagavano smarriti della prossima fine del coraggio: poi, accompagnarli tutti, ad uno ad uno - vinse un paesaggio sull’ansia di ciascuno.
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(ottava notturna ed al limite del mondo)
Non è visione se stanotte piove, al largo del cortile ch’è allagato le terre hanno altre terre da vedere mentre i mari sorreggono il creato nelle placente massime, severe con l’atomo o l’atollo che mi è dato: inizia senza avviso, d’insistenza, arbitrio oscuro, pioggia di un’assenza.
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(ottava della presenza)
Forse che il pensiero dell’assente, ossimoro sfibrante di parole, richiama alla passione pienamente, oltre le siepi la predica del sole: in cima al muro la valle del torrente, nativo e soprastante memoriale ha pause sempre vive ad ogni estate - anime dentro ai corpi, donne ricordate.
da (cinque frottole)
(frottola di don Juan)
E’ la freddezza delle antiche amanti un corpo d’arenaria allo scirocco. Mi limito a scostare i grani tra la barba che il vento infuria al viso, scosto pure l’aria dal bronzo delle lastre: vinsi battaglie e guerre e mi riposo guardando il mare – sapevo navigare tra carne e nulla, sapevo che davanti c’era il faro, il dio benedicente il porto, ora un lago di ferro rugginoso e chiuso.
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(eterna frottola, un po’ mortale, del restare in piedi e dell’esser seduti)
Sempre, in fondo, il conflitto che si svela è tra il seduto e chi, in piedi, anela
a un posto in cui a riposo stia la schiena, avendo, innanzi, più calma per la scena
del mondo da godere, da osservare non limitandosi ritto ad invidiare
chi in sala già per tempo s’è seduto, chi del suo culo svelto è compiaciuto.
- Seduto è – dicevano gli anziani significando il comodo domani
già anticipato nell’attimo presente anche al più fesso, al più buonaniente…
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da voli e altri voli nella valle
(voli)
I.
Sorvolavo l’incendio sugli ulivi, cercavo l’acqua, il mare dove un poco – non troppo – annegare - tu, a quell’ora, che facevi? morivi?
II.
Oggi, volo di nuovo, in sogno, di quell’alta aria ho bisogno: mi increspa la barba una festa di sparvieri – la roccia che resta.
V.
Liberi in volo, i morti - ci pensavamo, assorti. Arriveranno e ci diranno tutto: hanno, da sempre, smesso il lutto.
(un altro volo)
Qui e non altrove, sempre in volo da Cucco alla marina, con ali prese a nolo, ancora di matttina ci rischio qualche piuma lambendo scoglio e schiuma. Tu ne saprai qualcosa: dimenticai la rosa (è la prescia dell’andare dove si slarga il mare) là, sopra il davanzale - basta il pensiero, è uguale…
(altre sul volo)
3.
A volte se saluto in un commiato immaginario, in volo sopra un fiato d’aria, fra tante sviste rivedo il profilo asciutto di mio padre - sta a volare sopra la valle, insiste con ironia a stare al mondo – non è triste. A volte assieme ad altri su alberi, colline e case – con motti dalla cima, brezze vicine.
il blog di Enrico De Lea
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