Il primo blocco testuale termina aprendo ogni cosa, la totalità
all’avvenire. E’ quasi una dedica, direi, di certo è un verso che apre
il campo del
possibile, un verso inaugurale. Quest’inaugurazione è già complessa
poiché non si propone in un astratto, edenico campo poetico ma semmai in
un il y a (“c’è”) che richiama di diritto “il c’è del
mondo” teorizzato da Merleau-Ponty, all’interno di una ricerca sulle
possibilità della
percezione. Per comprendere il peso di questo il y a, per
iniziare ad intravedere a che cosa ci destina o ci impegna davvero,
conviene fare una
breve digressione sul terreno della filosofia contemporanea. A
differenza della filosofia tradizionale (post cartesiana) che tende a
spiegare il nostro
rapporto con il mondo in termini ancora dualistici, come
rapporto tra il corpo e la mente, la poesia e l'arte sono dei tentativi
di superare questa
impostazione per mostrare l'ambiguità del reale. Ciò che
equivale a mantenere un legame con la lingua, con un linguaggio
"prelogico" che non si riduca
né agli enunciati della scienza né al senso comune. La posta in
gioco del pensiero contemporaneo è stata, spesso, un parente stretto di
questa verità
“impura” e “improduttiva”, la quale, da Kant in poi comincia ad
emergere al di là di un sapere implicito, silenzioso.
Se la riflessione filosofica concede al mondo di esistere è
soltanto partendo dal presupposto, ideologico e umanistico, che lo
spirito umano è già da
sempre “la culla del mondo”, e che si tratta soltanto di
risalire verso il principio o la causa, che si tratti di Dio o del cogito
cartesiano
(due elementi che, in realtà, non si sono mai radicalmente
separati), la sfida poetica e quella filosofica dovevano convergere, ad
un certo punto,
nella critica di quest'impostazione che dimentica l'esistenza
effettiva per favorire un'immagine idealistica dell'uomo e
dell'esperienza. E'
nell'orizzonte del linguaggio e della traduzione che si dà (il y
a) ancora rapporto con l'universo prelogico, pertanto produttivo dei
sensi e del
senso.
La parola non si colloca sul piano astratto dell'idea, ma
neppure vi rinuncia semplicemente: qui si attua, secondo Merleau-Ponty,
“un'attesa segreta
giacché vi crediamo instancabilmente”, si apre il gioco della
scrittura. L'avvenire, appunto, che non è mai soltanto una questione di
idee o di corpi,
ma di entrambi. E' un atto di parola, una parola data, emessa,
trasmessa. Questo tentativo non può che essere una verifica che si
svolge nel tempo [ii].
Se si dà avvenire, la condizione dell’esistenza in quanto tale,
prima di esso e per poterlo
accogliere deve darsi già una configurazione del mondo, e con
essa appare il conflitto tra l’avvenire e il futuro: il futuro
programmabile,
etichettabile, il tempo che coincide con la pianificazione
(cronologica, pragmatica, ordinaria) non è l’avvenire, ciò che accade e
che fornisce la
prova della sua esistenza soltanto nella forma- poetica e, se si
vuole, musicale- della fuga: “Il y a fuite d’avenir”, scrive
appunto Nőel.
Non si tratta di isolare un verso denso di rimandi filosofici,
ma di sottolineare la parola poetica in quanto testimonianza di un
dissidio, appello che
si rivolge ad un’altra concezione del tempo. Posta in gioco
politica, anche e soprattutto perché basata sulla riflessione
ontologica. Non si tratterà,
in ogni caso, di fantasticare un conflitto semplice, in qualche
modo già organizzato, tra forze subalterne come potrebbero essere
l'anima e il corpo o
la vita e la morte: non è una guerra comune, l'ombra qui suggerita sotto
la diade (nei versi citati sopra) sang et savoir...Sang
e pouvoir, si potrebbe parafrasare, poiché questo
retaggio precede ogni figurazione e non si risolve nelle comode sintassi
della politologia, per
quanto rivoluzionaria possa essere.
Rinunciando ad estendere la rete dei rimandi testuali, già molto
fitta, mi chiederei: in che modo avviene questo “furto” sistematico di
tempo,
l'apertura del e nel tempo che è poi l’avvenire stesso? Quale
rapporto tra la parola e l'avvenire, se quest’ultimo si sottrae alle
categorie
concettuali, se non si lascia assimilare in nient'altro che la
scrittura? Il testo suggerisce un movimento proprio, quel qui che
costruisce la
scena del canto uno de La chute des temps, e che
riecheggia come l’eco di una materia ribelle. Esso apre il poema, e dal
momento che appare non
cessa di cambiare, di biforcarsi e di strutturare, in questo
modo, il testo seguendo l’orbita del verso, antefatto e manifesto, “il y
a fuite
d’avenir”:
qui
qui donc voudrait
sentir sur la peau de ses yeux
autre chose que le vide du monde
l’aile a le même besoin
d’abime et nous passons dans
l’air oubliant
que la vérité se tue elle-même
chi
chi dunque vorrebbe
sentire sulla pelle degli occhi
altro che il vuoto del mondo
così l'ala ha bisogno
dell'abisso e noi trascorriamo per
l'aria dimentichi
che la verità uccide se stessa
Poco dopo questi versi di grande limpidezza, l’operatore qui
ritorna e ha già un’altra figura che comincia a disporsi, in un modo
sempre più
articolato, verso un discorso di identità e di esperienze comuni
(“les mots n’en reviennent pas | deuil sale et | on t’avait dir de
prendre garde | le
souffle remue la langue”; “le parole si smarriscono | lutto
sporco e | ti avevano detto stai attento | il soffio agita la lingua”)
in quanto radicate
nel linguaggio, limite del mondo e suo perenne sconfinamento.
Non ci sono scelte da fare, come se si potesse scegliere di parlare,
cioè di essere fin
da subito implicati nel mondo come soggetti: non c’è che la
storia di una discesa nel tempo, di una pluralità di cadute. Se qui
funziona in
quanto operatore sintattico e semantico lo è, in primo luogo,
per la sua forza espressiva e interrogativa, per il rilancio ontologico
che instaura nel
flusso delle immagini, nei rimandi fitti o condensati di una
vita intima e pubblica, nel campo sempre aperto delle forze che si
disputano, in un modo o
nell’altro, il potere.
In secondo luogo, se leggere un testo significa portare alla
luce altri testi che senza di esso non sarebbero stati letti o compresi
nella loro novità
o complessità, adottare un punto di vista “testuale”- anche se
generico-, è un gesto che può richiamare alla mente il rapporto
estetico, mai del tutto
dimenticato, con Mallarmè. E in modo più diretto, con l’opera di
Maurice Blanchot. Si tratta della riflessione che tenta di pensare la
scrittura, le
sue derive e le sue tentazioni, nell'atto di produrla e non come
puro oggetto di pensiero. Quando si dice che viviamo in una "società
della scrittura",
si commette l'errore concettuale di pensare la scrittura come
qualcosa che potrebbe tenersi separata dall'essere che descrive; questa
modalità di
pensiero rimuove ciò che non può afferrare, la rottura che avviene
nel fatto stesso di scrivere, confidando nella lingua come semplice
strumento
di comunicazione. Blanchot, infatti, scrive: “Scrivere come
questione dello scrivere, questione che porta la scrittura che porta la
questione”,
sottolineando in questo modo il circolo in cui il segno si
deposita e si rilancia, “non ti permette più quel rapporto con l'essere
inteso innanzitutto
come tradizione, ordine, certezza, verità, ogni forma di
radicamento”[iii].
2.
Le figure dell’esperienza si fanno dure e difficili non appena
“la vérité se tue elle-même”? Una certa scena di omicidio e di fatalità
si disegna, in
effetti, in questo punto di apparizione che rimane un punto
cieco, mobile, di difficile decifrazione. Eppure, anche se siamo
costretti a prendere atto
che
il nous reste un mur là-bas
de pierres aériennes et ce cadre obscur
qu'on appelle vie
ci resta un muro laggiù
di pietre d’aria e questo riquadro oscuro
che chiamiamo vita
Il riflesso della vita nel linguaggio, l’impossibilità di
attingervi in modo diretto e inequivocabile come nell’epifanico universo
di Whitman, è già la
struttura “teatrale” dell’Io che riapre, pertanto, e riassegna
al qui la sua fatale nominazione, poiché
je est un écho
il roule sous le crane
et qui l’a dit
la voix ne ressemble à rien
elle est le tremblement de la chair molle
sa fragilité faite invisibile
io è un’eco
rotola sotto la volta del cranio
e chi l'ha detto
la voce non assomiglia a niente
è il tremito molle della carne
la sua fragilità fatta invisibile
La scena non è, ormai da tempo, quella di un’appropriazione di
sé attraverso la parola, magari elaborando un mito dell’origine, ma è
piuttosto la
perdita e la caduta che dominano una scena già in frantumi (il y
a…fuite…d’avenir), dove però si verificano, con una certa lucidità, le
appartenenze e
le forze messe in gioco. Non c’è abbandono né sconfitta,
piuttosto permutazione e rovesciamenti di rotta, forse miraggi, come in
una difficile
navigazione.
Non si tratta tanto di riconoscere dei temi o delle ricorrenze
significative quanto di riaffermare, attraverso la lettura, un rapporto
con le idee e
con i segni che consenta di “percorre un’idea come molteplicità”[iv],
secondo uno stilema che non
potrebbe essere più attivo e antiparassitario rispetto ad
affermazioni di “poetica”, di “visioni del mondo”. Leggere, domandare
intorno all’Essere una
risposta sempre ridefinita- cerchio spezzato, rilevazione delle
metamorfosi- vorrà dire accettare fino in fondo la fluttuazione come
paradigma del
testo letterario, restando all’altezza di questa perturbazione.
Questo sembra essere il compito suggeritoci da Nőel. Pertanto
s’indica qui il luogo di un’analisi critica che senza rinunciare alla
solidità di una
tesi ne metta in rilievo le crepe o le effrazioni, cancellando
lungo il percorso le proprie tracce. La chute della critica è
contenuta, come un
guanto rivoltato, ne La chute des temps? Il tempo della
critica non c’è, da tempo, è un insieme di buchi o di dinamiche che non
si possono
totalizzare. Tempo a venire, tempo ripiegato nella parola
interna al “c’è del mondo” (Merleau-Ponty), parola che si confonde con
l’universo delle
apparenze.
NOTA BIOGRAFICA
Alessandro De Caro ha studiato filosofia presso l’Università di
Torino e composizione musicale presso il DAMS della stessa città. Si
interessa, da
diverso tempo, dei rapporti tra filosofia, letteratura e musica
del Novecento. Giornalista culturale attivo nell’ambito di alcuni
quotidiani locali e
di riviste specializzate, cura progetti legati all’editoria e
agli eventi musicali.
28/06/2010
[i]
B. Nőel, La chute des temps, Gallimard/Folio 1993. Per la
traduzione il riferimento è l’edizione a cura di Donatella Bisutti,
La caduta dei tempi, Guanda 1997.
[ii]
Cfr. M.Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile,
Bompiani 1994.
[iii]
M.Blanchot, Il passo al di là, Marietti 1989, p. 6. Il passo è
citato in G.Piana, La questione della scrittura
nell’opera di Maurice Blanchot, in Aut-Aut, 259, 1994.
[iv]
G.Deleuze, L’isola deserta e altri scritti,
Einaudi 2007, p. 118. Per le questioni inerenti il tempo e l’espressione
resta fondamentale
G.Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli 2005.
Cfr. E.Alliez, Les temps capitaux. Récits de la conquête du temps (prefazione di
Deleuze), vol. 1, Ed. Cerf 1991.
Altri testi di Bernard Noel qui e qui
In primo luogo, c’era questo debito infinito incalcolabile nei confronti del testo di Bernard N?el ma non soltanto, anche il debito personale verso chi me l’ha fatto scoprire con il suo impegno culturale, vale a dire Giacomo Cerrai e il suo
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