Così parlò, ma forse un sogno… 10 tesi tra il serio e il faceto (ma non troppo)
È seduto in fondo al letto e sorseggia il suo amato Sangiovese. I baffi si muovono leggermente mentre continuano a gustare l’umido rimasto a colorarli
di un debole rosso. Sembra sereno, perfino pacioso.
"Mi piace il web, sì, quella piazza virtuale (la chiamate così, no?) dove ti vedo passeggiare spesso. Beh certo, non è la piazzetta di Barga, né i
portici di Bologna dove smaltivo le mie sbornie. Ma tu! Te l’ho detto già altre volte, smettila di scrivere nero. Beh sì, io dovrei star solo zitto, lo
so, ma… basto io, non ti pare? Io e Giacomino siamo più che sufficienti. Mica vorrai metterti con noi?”.
Lo guardo nel buio e mi faccio piccola piccola per la vergogna. Ci legge! Passeggia anche lui su Internet. Sì, senz’altro. Ci legge. Dio mio che
vergogna! Cercando di non farmi notare, scivolo piano piano sempre più sotto le coperte, ma anche lì la sua voce mi raggiunge implacabile:
”Dai, non sentirti umiliata, lo sai che ormai sono quasi il tuo papà d’elezione. Esci fuori. Dopo tutto sei una facitrice di versi e da tanto
conviviamo nello stesso Paese, quel foglio bianco che tu, degna mia allieva, aborri forse più di me. Senti. Vorrei farvi un regalo. Il Web ha bisogno
di qualche regoletta che normalizzi il traffico. E io… beh… voglio essere il vostro Mosé e dettarti i miei comandamenti. Anzi, oggi si chiamerebbero
tesi… ecco… le mie 10 tesi. Le bagnerò nel vino, così vi sentirete tutti più a vostro agio. Non vi date pena se vi si dirà che sono comandamenti
d’altri tempi. Tu lo sai che non è così. Ci possono essere mugugni e bofonchiamenti vari, ma voi andate per la vostra strada. Mica tutti sanno che per
fare qualsiasi rivoluzione le regole bisogna conoscerle. Lì da voi poi, sulla terra, oggi non ci si capisce più niente, figurati se possono essere ben
accetti i miei precetti divini. Anche se vi prendessero per pazzi, fate spallucce e passate oltre, ma le mie tavole della legge beh, quelle, che almeno
se le leggano tutti… Poi facessero pure quello che vogliono, ma non mi liquidassero come passatista, perché io sono stato un vero rivoluzionario e so
come si fanno le rivoluzioni. Altro che inconsapevole, come sosteneva Debenedetti…”.
E chi può dargli torto? Non certo io, penso mentre lo guardo gustarsi il suo sigaro, per niente preoccupato di impestarmi la stanza da letto. Zvanì è
sempre Zvanì, e lui lo sa. A lui permetto questo e altro. Anche questo ultimo capriccio.
”E ricordatevi che ogni uvaggio di parole concorre alla produzione di un determinato testo e che ogni testo va adeguatamente decantato prima di essere
offerto al lettore per la degustazione. Ma ora basta. Tra poco devo andare. Eccoti i miei comandamenti, fanne un manifesto e mettilo nella vostra
piazza. Questo è il mio regalo per voi, fatene buon uso”.
Così dicendo, si alza lentamente, poggia il bicchiere sul comodino e in piedi, con tutta la possanza della sua figura letteraria e accademica, Giovanni
Pascoli comincia a dettarmi:
che la scrittura sia:
- strutturata, come un buon vino, e manifesti ricchezza lessicale e varietà di paradigmi semantici, una volta articolata nei vari generi letterari;
- limpida, sì da esibire immediatamente consapevolezza del mezzo linguistico e correttezza formale nell’elaborazione testuale, nonché coerenza con gli
assunti di partenza;
- fruttata, caratteristica di basilare importanza in un vino di qualità e in qualsiasi oggetto letterario. Il testo deve dialogare con la tradizione
e/o innovarla, ma sempre a partire da Modelli che abbiano superato il tribunale del tempo. Nel lettore deve risvegliare echi intertestuali e, nello
stesso tempo, esibire l’originalità del riuso, così come le sensazioni olfattiva e gustativa di un vino dignitoso devono richiamare alla mente quelle
dei frutti integri e ben maturi;
- consistente, facendo intuire al lettore la molteplicità delle componenti che la materiano e, contemporaneamente, dischiudere una serie di orizzonti
di lettura che rendano il testo aperto e non chiuso e ripiegato in se stesso, proprio come la consistenza di un vino fornisce la misura della ricchezza
dei componenti chimici in esso presenti;
- ampia, non nel senso della durata, ma come spazio da cui si sprigionino richiami (di qualsiasi natura) idonei a coinvolgere il lettore e a renderlo
partecipe della messa in scena testuale, sì da farlo co-attore e non ricettacolo passivo di ciò che sta leggendo. Un’ampiezza dunque che ricordi quella
di un vino che, dal punto di vista olfattivo, evidenzi una grande varietà di sensazioni odorose, gradevoli e accattivanti;
- armonica, a prescindere da rigide leggi metriche, ma tale da presentarsi come un’architettura testuale in cui ogni elemento sia coeso e contribuisca
all’equilibrio dell’insieme, o allo squilibrio dello stesso, purché finalizzato alla traduzione di un Senso consapevole e non casuale. Similmente, in
un buon vino è auspicabile che le componenti visive, olfattive e gustative siano in perfetto equilibrio;
- lunga, cioè non sottoposta al marcescibile dell’obsolescenza pianificata tipica del mercato consumistico contemporaneo, né alla veloce estemporaneità
del web, bensì nell’accezione che ha quel vino, le cui sensazioni gustolfattive restino a lungo in bocca dopo averlo deglutito. Un testo tale insomma
da lasciare in chi legga una sorta di traccia mnesica che lo svincoli dagli imperativi del transeunte;
- calda, da non confondersi con una ebbra esternazione dell’emotività privata, ma tale da porsi come familiare al lettore, a prescindere dall’
“enciclopedia” dello stesso. Una scrittura che tra le sue pieghe alimenti dunque la caratteristica dell’universalità, grazie alla quale chi legge può
ritrovare anche le proprie emozioni e/o che faccia rivivere esperienze collettive e archetipi antichi. Una scrittura ‘calda’ proprio come si definisce
quel vino che, per il suo contenuto di alcol, dà una sensazione gustativa di calore;
- fragrante di emozioni filtrate dalle leggi che governano sia la stessa scrittura sia i vari generi letterari, che dia una sorta di sensazione
olfattiva che richiami l’idea della pulizia e dell’integrità dell’acino d’uva, come della parola;
- speziata, ovvero che profumi di passione, di rispetto, di cura e di studio, come un vino di elevata qualità che, sottoposto ad affinamento in
barriques, in quelle piccole botti di tradizione bordolese, odori di particolari profumi di spezie (vaniglia, liquirizia, cannella, caffè, cacao…).
”E ora, prima di congedarmi, ti/vi ricordo un pugno di versi dell’amico Orazio, che mi sta aspettando per bere con me un buon Falerno. Lo dedicherò a
voi, abitanti di un mondo dove c'è ormai ben poco da gustare, insieme a questa citazione dall’ “Ars poetica”:
Omne tulit punctum
qui miscuit utile dulci,
lectorem delectando
pariterque monendo”
Teresa Ferri
(2007)
Contromanifesto
Un colpo di vento improvviso apre le imposte dischiuse e lui, come un ladro, scavalca il davanzale e si posiziona al centro del riquadro della
finestra. Un gran ciuffo di capelli castano rossicci gli ricade sulla fronte in maniera scomposta. Ne noto il colore perché evidenziato da una
sciabolata di luna. Lo riconosco subito. O meglio, ne riconosco lo sguardo penetrante e come invasato. Ho scritto “come invasato”, non “invasato”: non
vorrei cadere anch’io nella facile mitografia del personaggio.
“La Notte è il mio regno e non ammetto che altri se ne approprino. La Notte. Rotte di vele, vele, vele. Porte chiuse nella notte. Botte. Gemma e Luna
van cianciando lungo il fiume. La Falterona, quel cavallone pietrificato, tra i suoi fini capelli vegetali, nelle screpolature della sua roccia,
conserva ancora le mie pie, le mie mistiche voci. E il suono dei miei sandali che ripete la mia melodia. Eterna. Là una Chimera fulva ricorda a memoria
i miei Canti e io, nota per nota, pettino i capelli della mia Regina adolescente. Tu li dovresti conoscere i miei noncomandamenti. Dovresti conoscere
quei miei dorati silenzi… Almeno…”
Scuote la testa e dai capelli piovono parole a dirotto. Sembra nervoso.
”Eppure – continuando – eppure… sei stata a sentir lui, quel piagnone. Ma quello lì ha insegnato latino e greco al liceo, poi addirittura letteratura
italiana a Bologna, è un barone barbogio d’accademia e tu lì, carta e penna in mano, a tener dietro alle sue mattane. Lui ha fatto il suo tempo. Rosso.
Rosso come un fosso. E se volete sapere cos’è, è un fosso arrossato, un rosso affossato. Ma che ne sapete voi dell’ armonia chiaroscurale dell’acqua? E
dell’ancella e della Matrona, che ne sapete? La Trinità. Ecco, del fluire trino del discorso, di questo dovreste dibattere. Ma poi trino? No, infinito.
Come la rotta delle navi, come il coro dei cordami, come quella sgualdrina fascinosa di Genova che parla serpenti nei suoi vicoli stretti e vomita
macchine giù a mare, come cateratte del Niagara”.
Ma cosa sta dicendo? Perché è così infuriato?
”Inutile che tu ti chieda cosa io voglia da te. Ci puoi anche arrivare, per il Kaiser!”
E così dicendo scosta violentemente la tenda della porta-finestra e con un lungo salto mi si fa sempre più vicino.
”Che mai sono tutte quelle frottole che quell’ubriacone ti ha dettato? E ne avete fatto anche un manifesto! Per Soffici e Prezzolini! La mia lunga
notte dovete imparare a memoria, altroché! Lì c’è tutto. C’è musica, c’è disperazione, c’è tutto e il contrario di tutto. Quelle matrone di Spagna
dagli occhi torbidi e angelici… E, soprattutto, c’è il mio genio. Altro che matto! L’amore mi ha dannato, l’amore. Sibilla e le sue corde… E cantatelo
questo amore, cantatelo, come io l’ho cantato. Senza mascherarlo, senza addobbarlo di quell’inutile fronzolame, quegli sdilinquimenti strappalacrime”.
Sfoglio a memoria la sintassi di quel lungo pianto mascherato da inno alla libertà e cerco di rivederlo alla luce dei precetti consegnatimi dal
Pascoli. Beh… i “Canti Orfici” li rispettano in pieno. Quella ridda di pronomi in vorticosa e solo apparente confusione caotica è funzionalizzata a
riportare lo spettro di emozioni che agitano il suo linguaggio macchiato di sangue purissimo, sacro. Foglie d’autunno nel giardino di Boboli.
“Io vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tortora e volare distesa verso le valli immensamente aperte. Ma tu no, né voi, né loro. Nessuno di voi
ha mai visto staccarsi una tortora dal deserto bianco della pagina. Cosa ne sapete mai dei miei uccelli dorati? E delle rive selvagge dove ho ammarato
le mie radici, la mia lingua? Ricordate il mio grido che taglia la Pampa. E le mie osterie…”.
Inarrestabile, continua nel suo flusso orfico, non senza sollevare con un lieve gesto della mano, tutt’intorno a sé, un popolo di ombre senza forma che
sembrano fargli da coro.
“E ricordati delle solitudini della Verna, di quel paesaggio cubista ma non geometrico. Ognuno ha le sue solitudini mistiche e dannate. E gridatele,
per Orfeo! Ognuno ha il suo Inferno e nessuno il Paradiso. Suonate le vostre lire, le vostre cetre, i vostri desideri senza paure. I vostri orrori
santi. La paura è sì una malattia, è la paralisi del cervello. E non date retta a quel piagnone, ma cantate insieme a me. E della mia sintassi impudica
fate il vostro faro. Di coraggio. Osate! Spezzate le catene che vi annodano la lingua, che mummificano la sintassi. Osate! Giù, giù nel precipizio. E
la salita canterà più azzurra”.
Rimango senza parole. Non sono in grado neppure di salutarlo, tanto in fretta dilegua, lui e tutte quelle ombre partorite dalla sua Notte. Lui e la
suprema purità ancestrale del suo linguaggio. Lui, Dino Campana, il vate del più lungo giorno che mai ci sia stato. E delle sue cancrene.
Teresa Ferri
Teresa Ferri insegna “Teoria e pratica del
testo letterario” nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università
degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. Nel 2001 ha pubblicato la sua prima
raccolta di poesie Fiori di corallo (Pescara, Tracce); successivamente
Alfabeti a perdere (Roma, Il Filo, 2004); una terza raccolta di
liriche, Campanile d’aria, è uscita di recente per i tipi di Carabba
(Lanciano). Diverse sue poesie e racconti sono apparsi su riviste e in
antologie di poeti e scrittori emergenti. Con Fiori di corallo e con
alcune liriche inedite ha vinto diversi premi nazionali e ha conseguito
varie segnalazioni. Tra i numerosi studi e contributi critici, si
segnalano le monografie su G. Pascoli (Pascoli. Il labirinto del segno.
Per una semantica del linguaggio poetico delle ‘Myricae’, Roma,
Bulzoni, 1976; Riti e percorsi della poesia pascoliana, Roma, Bulzoni,
1988); su U. Saba (Poetica e stile di Umberto Saba, Urbino,
QuattroVenti, 1984); su D. Campana (Dino Campana. L’infinito del sogno,
Roma, Bulzoni, 1985) e il volume Le parole di Narciso. Forme e processi
della scrittura autobiografica (Roma, Bulzoni, 2003). Sia su scrittori
otto-novecenteschi (D’Annunzio, Manzoni, Quasimodo) che su quelli
contemporanei (Bossi Fedrigotti, Conti, Duranti, Lunardi e Tabucchi),
sono apparsi diversi contributi in riviste e miscellanee italiane e
straniere. Infine ha curato monografie, antologie e ristampe di testi
letterari di autori abruzzesi dell’Otto e Novecento (E. Marcolongo, D.
Ciàmpoli, E. Janni).