Trattatello incostante
Non è possibile al momento
spingere la favola più in là
che me saturno e i sette anelli
acclamanti dicenti oh sì
come tenere buche
come un vento direi
veramente iniziale è il mondo
se dovessi accadere credimi
non notizie di me
ma descrizioni descrizioni
così acceso è affollato
secco culmine di cose
in esclamati pennacchi inerpicato
irreversibile a tu per tu
così dunque finale?
ma in piena durata
nemmeno tra due cosa prigioniera
o cosa che ti agguanta
delinquenti nella testa amanti
se sempre il più di uno
il tanto che si sposta
tuttavia così
l'intima acqua
pioggia su tutti gli orti così vasta
radici bagnate delle verze
non smentire subito
se ti tira nel suo tempo
o studiare un tempo misto
un sollievo di bilancia
inutilmente trattieni
l'autonomia dei peli
chiudi il buco dell'ascella
risale un fruscio nera terra
sfiora in mille specchi
è il mare delle gonne
come invoglia nel suo buio
è la buia confidenza
conoscere impigliato
muore preso dove è nato
non avrà esito altrove non avrà?
come ti fa simile a sé il conosciuto
ti invita
che intendere (dolcissima freccia)
ma più contendere
se in più dolce chiusura si addolcisce
confuso in me circonfuso non esce
lungo tempo dio nel suo manto
povere similitudini allora
che nuvole i meli
il tanto somigliante
è il bulbo di giacinto
è l'acqua propagata
nascondiglio è descrivere
ma fatto che taglia
dove avviene il fatto
tromba che atterrisce
come brillano i denti: noi siamo!
pensieri per conto loro
oscuri passeri
oscuri chicchi beccando
o incipiente qualcosa
cerchiamo di coincidere
con la velocità dicevamo
di tenerci nel suo volo
ma non disturbare non chiamare
offensivo discorso
o non potrà avvenire
offerto qui non rivolto
sui mucchi di fieno allora più che grilli
esigua stella soffio suscitato
delicato è il bilico
ili riempito che sale
dolcissimo emerso
assistere a lungo così
la lunga creazione
per lungo silenzio conosciuta
ma non il tempo capisci
non il tempo
perciò da un bianco di luna tacitato
impunemente barocco me ne vanto
se con vero trasporto oltrepassa
verso te altro la palla passione
diventa come pace orsù? che acconsente a vero presente
decade così felice dunque?
(che appena un silenzioso canestro)
se fosse (religiosi nelle loro ali
sapienti uccelli) un'amata esecuzione
non era pattuito cara mamma
nemmeno un pochino?
oh santa teresa del bambino gesù
una scaglia di cosa
una ressa amorosa
incredibile tu!
o forse non abbiamo inizio
o avremo perso le intenzioni pensava
se solo l'estremo
ma come atterriti
concedente ragione brevità
dagli da mangiare di te di cose
volentieri sì
che guardando direi guarda
il bello dalla sua morsa scampato
così riferito
tu catena dello spostamento
tu principio della distrazione
non dirmi
l vergogna menzogna
se sono legami non preghiere
non finisce abbastanza non in tempo
sacro cuore che defluisce non finisce
il diletto che formicola
sotto la camicetta la febbre
moscone sulla rossa piaghetta
invece più veloce è l'agguato
come dolce rumore di me
in te forse o fronde
il vento che infoltisce
come rallenta in sé godendo
la lucida zampa
spinta di luna che sormonta
come talvolta si raduna convolato
il numeroso volando
che più incantata somiglianzà
mago di sé
come dolce bilancia è pareggiato
se così fosse favorevole a te
il dolce sfondamento
la vista che risbuca
un nitido fatto è una pesca
attendibile atteso
l'oggetto più errante che mi porta!
ma innamorati (imparziali)
o pervenuti pregando
come tenere il prezzo la testa
non tenere la testa
l'amore guardiano
inutilmente fa il giro
o tieni cara una cosa
lei ti condurrà
( disubbidiente raggiro )
carità della fretta
contemporanei silenziosi lillà
più profondi più viola
fermo come soglia
breve fatto che ti mostra
severo divisorio
che tanto incuriosito avvicinare
è l'amore goloso
che vorrà farti morire?
se soltanto l'accaduto
è abitato, punta di un ago
inesteso, asceso pendolo
dolce è la propensione
bellavista
ma tieni presente anche questo:
in tante scale si circonda
in ramosi balconi incoronato
è il melo nero d'inverno
accerchiando sé moltiplicato
nera pioggia che gronda
contro il cielo conversa .
tuttavia affacciato
perciò direi a un mio bambino:
preserva il vuoto con le azioni
preserva il vuoto
così il mondo
volando nel vuoto
volando da te
o genera la fine (per vedere)
genera la fine direi
o non generare la fine per vedere
non generare la fine
se prima della fine
in bellezza affrettato
già tramutato in preghiere
perché non ha scampo
se vuole essere una rosa
cosi non si affaccia
ma profonda nel rosso
in velluto tuffata
il suo congegno che pensa
allora diventa una rosa
oh rosa guerriera
mio rimorso di rosa
potente chi si carica un nome
mille volte sospetto dolore
inflessibile il volto del bello
mile rose mille rose piuttosto
un buon commercio ti prego
teste più basse da scambio
caso senza prova
non prova è lo stesso
qui contrattata
rosa ottenuta
non mistica sposa
scacciato da una rosa
sfiducia di racconto
tu me mutolino
disgrazia
pregando la rosa
mia sposa
non sfuggo abbastanza
me rosa! sfinito
disabitato lo strido
guerriero di rosa!
Majorìno: Tra le ricerche di poesia nuove, la tua sembra, non soltanto a me, una delle più ricche; dovessi in modo trasparente motivare perché e interrogarti su questo, toccherei due punti: a) sente e sa che ogni parola, ogni verso, ogni decisione (cosciente e no) di scelta poetica devono risultare da una messa in gioco totale, non alleggerita né rimossa, neppure certo semplicemente canalizzata secondo maniere in uso; b) ha di bello e di brutto che sta come a un bivio: tra il lavoro di quasi tutti i nuovi poeti (il campo della scrittura non è quello della realtà; la poesia non ha origine dal mondo ma origina un mondo) e la domanda spesso ancora inespressa e malformulata di giovani sempre più numerosi (la scrittura deve comunicare; la poesia viene dal mondo e torna nel mondo)...
Lumelli: Davanti a una poesia c'era un patto molto semplice: che ci saremmo visti attraverso di lei, non in precedenza, anticipando, o a parole. Questo vuole dire che c'era un tempo senza margini e senza ulteriore recupero o nuova pace spostandoci nei luoghi della conversazione. La conversazione non era un luogo in cui poteva compiersi una verità o èssere portato a termine il senso di una cosa tenuto in sospeso, distolto o intimorito tra le altre intenzioni che producevano i fatti. Sembrava piuttosto, coincidendo con la durata dell'istituzione letteraria, il luogo dei raduni consolati, sotto quiete lampade, dove inutilmente forse anche la retorica chiedeva vero tempo nella sua affaticata ripetizione.
Dunque collocata tra gli oggetti una poesia non poteva essere meno di un oggetto né un po' prima magari, fìngendo di avere ancora tempo in sé, o solidale con il corpo, essendo noi con lei, come garanti, a intrattenere verità.
Tutto ciò dichiarava risentimento e. incredulità sia per il discorso che, dotato già all'inizio di futuro compimento, tentasse di spingersi, coltello intemerato, nel tempo e nei fatti, estorcendone il senso più vantaggioso e mentendo perciò, con nomi antecedenti, applicata corona sulle cose; sia che altrettanto premeditato e deciso volesse uguagliare a sé l'accaduto e viceversa, come fraterno per sempre e senza tradimento e in questo modo stringendo noi in una certezza prematura, spauriti commensali, sobillati a credere nella nostra verità, alla lingua che iniziava in noi, ravvicinata, calda tra le azioni.
Cosi non ci andava bene; gli strumenti di questo conoscere, come fermi al bordo del campo, macchine immobili, lunghi colli delle gru, pronte a catturare tempo e cammino o anche inoltrate in mezzo forse, assicurando spostamento, erano un inganno: garantivano, con la loro presenza, la riconduzione in verso, la prosecuzione del discorso, la sua sopravvivenza in fervore; non scioglievano sé nel conosciuto ma si ingigantivano, grandi, impudiche alla fine, oscene garanti di una continuità.
Invece noi volevamo sentire gli intoppi; stare sul luogo non dello sguardo narrante ma in quello che divide sguardo da cosa, ogni volta impoveriti, per ottenere l'accadimento e non cadere nell'eloquenza.
L'eloquenza era una camuffata predona, simbolo dall'accumulo, voce anticipante e già partecipe, confabulava la nostra uguaglianza in discorso rendendo per sempre innocua la diversità tra dire e fare. In alcuni casi forse era anche a fin di bene, era un patto, una conoscenza per volontà e ripetizione, o mantenerci uniti in un intento o non so. Io so che non potevo.
Confesso comunque: talvolta fu desiderato un accordo, un rumore preesistente a ogni cosa, in grado di farmi passare, di mantenermi nella visibilità, una eloquenza della paura o della pace, perché le cose minacciavano, allora come rifugiati, l'intermedio parlante dei poveri, il riconoscimento al posto del grande gioco, la riconoscenza per l'immediato, anche per la responsabilità della gioia... Ti dico questo perché la domanda di poesia di cui tu parli mi sembra riguardare non tanto il consumo del prodotto finito da parte dei lettori, ma giustamente penso, la teoria che dovrebbe consentire un linguaggio felice.
Allora il problema è vedere quale gioia è concessa a un significato, fin dove dovrà spostarsi per sfuggire alla sua tetra consunzione, un luogo imprendibile, veloce.
Può ben essere che in molti aspettino, come buona lingua del conoscere, anche la poesìa. Il problema per me è che la poesia non sta aspettando nessuno.
Non precede noi come nostro scudo o in testa alle cose aprendo il passaggio; nel fatto non c'è semplicemente la sua descrizione, l'esecuzione di un sapere attraverso la lingua: anche la descrizione è, a sua volta, un fatto totalmente in gioco che deve guardarsi alle spalle. La descrizione non è al sicuro.
Non c'è alcuna conversazione in atto o aspettativa a cui riferire le nostre notizie che si volevano, bisognosamente, totali: di qua continua la terra, supponiamo di poter dire (la fantasia di un sapere riparato dal suo oggetto e dal suo ascoltatore, vera botte di ferro, il consumo gaudioso dell'informazione, il corridore di Maratona, fresche notizie, fresche brio-che, stampa mattutina...).
O non è questo il mio caso o non è questo il caso del genere poetico. Trovandomi invece, per quanto mi riguarda, come non connesso alla lingua, non manifesto in lei come quasi trascorrendo in parole, ma riconoscendo me come subdolo rispetto alla mia esistenza pubblica e parlata, nel senso almeno che mi trovo eccedente in confronto alla mia esteriorità, uomo delle trappole, alla fine, in attesa di ciò che lo porta fuori, allora collocato su questo punto, se mi metto in posizione di poesia, se si può dire così, è questo innanzitutto che viene mostrato: l'interruzione verso l'esteso, una esagerazione della pausa e del passaggio.
Allora guardando dalla zona delle prime mosse, dalla dolce unità, dove non si può dire se muovendosi una parola era l'azione che si preparava, o viceversa avanzando un fatto la sua lingua che lo propaga, lunga ondulazione che si smorza senza finire (poi qualcosa avverrà, un altro qualcosa si dirà), da qui dove tutto sembra iniziare, anche l'inizio di una poesia, tutto questo luogo precedente appartiene al pensato non al fatto.
Di fatto una poesia può cominciare a parlare per una decisione eccessiva, una responsabilità totale rispetto alla lingua che si muove nei fatti. Non potrà più controllare le risposte, riprendere tempo in sé. Anche diminuendo il distacco, accostandosi, lasciandosi invadere o invadendo il tempo che la circonda, sì accorgerà che non è qui, nella maggiore o minore compagnia con le cose, la sua salvaguardia e la sua giustizia. È costretta a essere sempre un po' più in là del linguaggio consumato. O spiccherà balzi, come fuori da sé, dimostrando la sua necessità e la sua paura, mezza falsa, mezza innocente, o velocissima sulla sua ruota veloce, ruotando figure, perché adesso finge tempo, contro la paura della diminuzione e dell'abbandono, un movimento che non cessa e che la mantenga al presente.
Se tu mi dici, con le tue osservazioni, che la tattica di spostamento lungo il filo della lingua è una povera guerriglia, come al cinema guardando gli indiani, un fuoco qui uno là, specchietti sul profilo delle colline (in un luogo che non si estende, allora tutto è rappresentazione ), ti devo rispondere che ho proprio l'impressione di comportarmi così e che c'è fuga nella lingua, vagabondare, perché un luogo non è avvenuto e non ci contiene.
Tu mi dirai invece che tutto passa da cosa in cosa, che per ponti di lingua e di fatti una poesia è linguaggio che si aggancia, appena radunata in sé, per forza, ma chiamata e conosciuta da ciò che è stato nominato non si perderà?
Certo che ritorna, dico anch'io, ma dopo essere accaduta altrove. Quindi non è conoscenza sul vero suolo, giusta provvisorietà, accoglienza.
Qui so soltanto che mi trovo all'inizio di una cerimonia. Tutto accadrà per la seconda volta, se una prima volta forse è accaduto, almeno come materia, tempo che voleva decifrazione.
A questo punto non so quale teoria sia allusa in tutto ciò. Forse non ho voluto farmi prendere dalla sua, immaginata dolcissima e inflessibile, legge. O saprò che la teoria non vuole le mie poesie. Vuole altro, tutto, pone tutte le domande. Vorrà l'umiliazione delle forme; non vuole che mi concluda in loro, ma forma identica a ciò che si diviene, lunga come il tempo.
Sarò stato cattivo, forse ho soltanto esclamato?
(...)