La solitudine non è compagna del poeta, appartiene a ogni uomo e la fortuna sta nel diverso grado di consapevolezza che si ha della propria singolarità. Dario Bellezza non è stato fortunato, ha sentito la solitudine così intensamente da renderla indistinguibile dalla sua stessa carne.
Allorché il male non è riconoscibile in un oggetto esterno ma abita il corpo (corpo-mente o corpo-oggetto che sia) diventa impossibile trovare un nemico diverso da se stessi e, quel qualcuno da maledire o combattere di cui l'uomo cerca storicamente l'esistenza per placare i propri conati di aggressività implicita, viene a coincidere drammaticamente con il proprio Io. Allora il teatro quotidiano diventa la lotta fra l'amore estenuante per la vita e la consapevolezza di averne nel corpo, nel cuore, nella mente, la propria fine. Questa condizione non è eccezionale, ancora una volta ciò che fa la differenza è la comprensione. Dario Bellezza sa di essere il proprio avversario, di portarlo nel corpo come un male inguaribile. Impossibile ipotizzare un dramma più grande e infatti il poeta tracima, sviene, si rialza, barcolla ma resta sempre sull'orlo pericoloso della dissolvenza. Anche quando grida la rabbia verso “altri moribondi normali”, contro le “segrete immense rivalse della invidia poetica”, quando dice l'indicibile per l'uomo civilizzato e “contabile” che ha ancora qualcosa da perdere e cerca nella mediazione la sua salvezza personale, paradossalmente il lettore sente che Dario Bellezza può farlo perché non ha nessun futuro da barattare, perché ha raggiunto il culmine della sincerità nelculmine della disperazione (e forse il lettore-uomo medio non eroico pensa, con intima indignazione, che effettivamente il culmine della sincerità può esserci solo nel culmine della disperazione quando questa è intesa nel suo modo più pieno, più concreto e fatale: assoluta mancanza di speranza, assoluta assenza, certezza del non futuro).
“...Ora lo sento il tempo distante da me che vivo
fuori del tempo e nessuno mi ha in simpatia,
neppure quando grido che in Italia si può
essere, o ironia di una citazione!, solo
ideologici o arcadici. Sempre al servizio
di qualche re buffone, arlecchino dalle cento
piaghe...”
Bellezza non è il poeta della solitudine perché la solitudine non ha un solo figlio prediletto ma è certo che in lui il sentimento dell'assenza ( di un Amore, di un futuro, di una fede) entra nel sangue, stende una patina sulla vista, connota le cose quotidiane e sembra colmare spesso la misura del sopportabile.
La sua poesia è disseminata di quotidianità. La si tocca negli oggetti che fanno parte dell'esperienza di ogni uomo (la tazza, il tavolo, la sigaretta, la maglietta, i giornali, la leggera sciarpa, il tram, le panchine, i biscotti, un cappuccino). Questi oggetti non sono filmati passivamente dall'occhio del poeta, non vengono osservati con scrupolo figurativo ma diventano piuttosto il nesso di congiunzione, il punto in cui la psiche-intenzione-sensazione si unisce al fatto-dato-oggetto allontanandolo da qualsiasi empirismo scientifico e facendolo portatore di un messaggio personale che è poi l'atto creativo fondamentale di ogni percorso artistico.
Non si cerca lo stupore per accostamenti bizzarri e non si percorre la linea dell'innovazione o della ricerca linguistica. Il linguaggio si mantiene colloquiale come è quotidiano il suo oggetto. Eppure la forza, la disperazione, la solitudine si mescolano con la capacità di toccare profondamente una zona buia di empatia. Commuove la semplice descrizione di una stanza“con due grandi finestre, un tavolo/e un lettino di scapolo in miseria” dove tutto il superfluo è tolto, rimane solo la visione del silenzio, di un atto creativo perfettamente compiuto nel momento in cui, colorandosi dell'ottica personale dell'artista, lo trascende e diventa universale.
*
Forse mi prende malinconiaa letto
se ripenso alla mia vita tempesta e di
mattina alzandomi s'involano i vani
sogni e davanti alla zuppa di latte
annego i miei casi disperati.
Gli orli senza miele della tazza
screpolata ai quali mi attacco a bere
e nella gola scivola piano il mio
dolore che s'abbandona alle
immagini di ieri, quando tu c' eri.
Che peccato questa solitudine, questo
scrivere versi ascoltando il peccatore
cuore sempre nella stessa stanza
con due grandi finestre, un tavolo
e un lettino di scapolo in miseria.
E se l'orecchio poso al rumore solo
delle scale battute dal rimorso
sento la tua discesa corrosa
dalla speranza.
*
Se un poeta, io, regalo al cupo silenzio
della notte metà del tempo che m' incalza
ostinato inquisitore di un corpo
sbalordito dall'abitudine, decomposto,
in ansia perpetua di non lasciare traccia
di sé nei corpi altrui o stampo caldo
nelle fresche leggere menti adolescenti
né la Storia, l'ordalia infernale
dei tiranni assetati di sangue e morte
non considero, ne viene anzi, rabbia,
sgomento, urlo lontano nella gola secca,
pianto sommesso o gridato, abbiate pietà!,
vi scongiuro, trattenete l'angoscia che sale
alle mie stanze, feritela, fate qualcosa!
grida la mia voce isterica e arrotata
dallo snobismo clientelare con il Diavolo;
ne viene tutto come meta finale un nulla,
un ghiacciato nulla senza escrementi
o virtù viziosa di drogato. Talché scrivo
in privato, di nascosto, che nessuno sappia,
per carità, madre di un attimo, amante
passeggero dentro un treno o una fratta,
scrivo un testamento o calendario, a seconda
dei temi giornalieri destinati dal Caso,
non umili o meschini o facili o malati
ma sempre datati come ogni cosa deriva
dall'anno il suo profumo e la menzogna,
spera di trovare l'occaso salutare
fuori di qui, terra bruciata, di nessuno
di là dal mondo certo e pellegrino.
*
Racconto l'affamato scontro di due vite
per impietrare nella vita idiota
la promessa felice della vittoria
sul ricordo del lupo e del pugnale
e voi assonnati adolescenti odorosi
di fumo presto sfiancati dalla maturità
rispettate il codice cupo di chi vi volle
strumento assurdo dell'eternità.
Il pane muffo e le patate bollite che mangiai
con uno di voi sonnolento buffone meritano
la muffa eterna della vigliaccheria o
la forza della misericordia che s'elimina
crescendo verso la dolcezza estrema
del suicidio più lento: vivere.
*
Come le stelle da secoli spente
ancora inviano lor luce splendente
ai nostri casti occhi che guardano
la luna e le stelle e tutto
il firmamento remoto,
amore solitario
il tuo pallido ricordo
arriva in ritardo all'appuntamento
sperduto nella vastità
della mia solitudine.
Arriverà la notte suicidale
a ricoverarci lo spremuto
cervello che s'accende ancora
di questo deserto e spaventoso
“A presto!”
*
Amato o no il mondo era vero
vero simulacro del fabbisogno di Dio
sembrava un sogno ad occhi aperti
occhi aperti sugli abissi e i confini del sonno
Sogno o son desto era il mio motto
le parole del cuore consolavano i pianti smisurati
gli assalti del cuore raggelavano i pieni
del cinema – la voluttà di baciare
Liside era spenta nelle braccia della fortuna.
Chiamate il bisogno – amaro o dolce -
della carne più sincero di ogni strazio
e ogni pentimento della ragione silenzio accorato.
*
LA PATRIA E'LA LINGUA
Per una mattina il male e il vero si confondono;
nessuna bestemmia per l'opera esaurita
da chi, come me, non spazia più nei sentieri
della poesia. Forse sbagliai arte, la sovrumana
fine non cercai con accanimento; non avevo
mestiere; così passai ad invidiare i pittori.
Ma quali? I mentali, tutti figurativi
e anormali, astratti e immaginosi vigliacchi
nel rifiuto dell'Antico e della Tradizione,
ma virili nell'accettazione del Caos
del mondo moderno. Creatori d'immagini, sì,
beati, mentre il poeta s'arrangia anche
in estreme parole, afferrando, magra
consolazione, che la sua patria è la lingua!
Assassino, scuoti il poeta, discreto infantile
tessitore d'inganni, scuotilo, con la tua magia:
fallo fuori con gli occhi della mente bruta;
calpesta l'orgoglio di chi rimane attaccato
alla Realtà! La Realtà non esiste, ma esiste
un mattino in cui ci si sveglierà perfetti
e ciechi nella ridondanza dei corpi,
o della loro fresca resurrezione. E noi saremo
là, angeli di fiamma e ghiaccio, a cantare
la gloria del Signore per aver saputo
registrare l'orrore del mondo mendico
in Marocco o a New York, non ha importanza.
*
La sedia di paglia si è rotta,
ne conservo solo lo schienale.
Fu regalo di un amico defunto
ormai sparito, suicida, arrivato
nel buio calmo degli Inferi.
A presto mi dice nel sogno
a presto dentro la stufa aspettando
l'Inverno dove butterai lo schienale
e della vecchia sedia non resterà
traccia, come noi mortali.
Diventerà fuoco, poi brace
piena di tizzoni ardenti
sfrigolando nel pianto sommesso
della cenere.
Tu, tu,
sempre tu
calzando mattutine babbucce
ti riscalderai al fiato
solenne di una statua
bottiglia di Centerbe.
Come ricorda Elio Pecora nell'introduzione a “Poesie 1971-1996” (Mondadori, 2002) sono numerosi gli autori che presiedono alla formazione di Dario Bellezza, primi fra tutti “il Baudelaire del tedio invincibile, della sensualità esacerbata, e il Genet della purezza nel crimine”. Ma, cito dall'introduzione di Pecora,“la singolarità di Bellezza sta nell'essere, dopo tanti avvicinamenti e fascinazioni, subito e giovanissimo dotato di una propria voce” tanto che Pasolini lo indicò come “il miglior poeta della sua generazione”.
#4
da Michele Ortore
on
15-07-2009 12:40
(Rispondi)
IL DECADENTISMO POST ESISTENZIALISTA SI AMMANTA DI UNA LUCE VAGA,ONIRICA,L'INTROSPEZIONE GRIDA VIOLENTA LA SUA ANGOSCIA,LO SPLEEN PENETRA CON VIOLENZA NELLA REALTA' STUPRANDO IL DIAFRAMMA PATINATO IMPOSTO DAL SONNO DEL DORMIENTE CONFORMISMO