Mercoledì, 1 aprile 2009
Giuseppe Martinelli (v. qui), il "professoreinnulla" come si autodefinisce con molta modestia, aveva ragione. Horace Tograth (v. commenti al post del 17/03/09) è un personaggio, nient'altro, del "Poète assassiné" di Guillaume Apollinaire, in cui, come lui ricorda, Walter Benjamin vedeva un'allegoria della situazione degli scrittori e degli artisti al suo tempo. E fin qui ci siamo.
Ma la sua invettiva è anche, e questo è singolare, l'exergo della nota (e per qualcuno famigerata) antologia poetica "La parola innamorata", a cura di Giancarlo Pontiggia e Enzo Di Mauro, Feltrinelli 1978, ormai introvabile. Nata come contrasto e risposta alle avanguardie e come recupero di una parola e di un linguaggio soggettivi, anche lirici e giocosi se vogliamo, tentativo che a leggere i testi lì raccolti non è difficile definire come abortito scivolando infatti spesso in un automanierismo (parola innamorata anche di sè stessa?, narcisismo?), l'antologia è coetanea di un'altra antologia, forse migliore, quella curata da Antonio Porta con il titolo "La poesia italiana degli anni '70", Feltrinelli 1979, ed è tuttavia un documento importante perchè costituisce una specie di "come eravamo" di parecchi poeti noti che poi hanno compiuto, attraversando diverse stagioni, una notevole metamorfosi stilistica (sono presenti tra gli altri Giuseppe Conte, Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Tomaso Kemeny, Angelo Lumelli, Nanni Cagnone, Valerio Magrelli, Cesare Viviani, Gregorio Scalise, Gino Scartaghiande). Ripropongo qui l'introduzione, abbastanza stralunata. Magari può far comodo a qualche studente di lettere. Curioso quello che ebbe a dire al riguardo Aldo Nove, non ricordo dove: "La prima cosa che colpisce dell'introduzione a La parola innamorata è che non si capisce niente, ma traspare comunque un'esigenza molto forte: una volontà di gioco, di recupero ludico-amoroso della parola. Una spiegazione banale me l'ha data uno dei poeti più importanti de La parola innamorata, ovvero Milo De Angelis, dicendo che lui e altri poeti si trovavano a casa sua, prendevano un sacco di acidi e poi scrivevano queste cose". Parole sue...
LA STATUA VUOTA Questa prefazione non ha pace, perché il vento che la muove è fiero e secco, e sgretola le forme liquide dell'albero, quando non c'è sostantivo, se non quello che è posto (esposto) solo per mostrare che non era lì il luogo di un'identità, mentre uno sguardo ha già dimenticato la costellazione dei nomi e dei rami, ed è lanciato in dissolvenza flessuosa sul brulichio di aggettivi e di pronomi che non possono più né giustificare né sostituire. Ma che cosa è voluto, dal momento che è respinta ogni allusione etimologica, e le righe, queste righe, non hanno proprio per la testa di preludere (parole propiziatrici di letture cordiali, parole propedeutiche e anticipatrici) per introdursi in una pagina o svignarsela allarmate in un' altra; e nemmeno di proludere, mettendosi davanti al gioco o operando nello spazio ristretto e autolesionistico del fuorigioco, quando pallone e porta diventano un'ipostasi forsennata e ridicola, e il tempo è quello degli altri, dell'arbitro, del fischietto, del pubblico vociante? Ecco come non è più possibile credere a una richiesta di annunciazione da parte di chi, dietro la pratica dell'umiltà servizievole o del proclama arrogante, nasconde il bisogno di una storia o di una descrizione in funzione di auctores, preso dall'assillo patetico di essere almeno dalla parte giusta, e inaugurando la pioggia prepotente di precedenze rispetto alle quali il testo, diventato ormai un resto, è immaginato come séguito. Ma quando la poesia è nell' attimo di una grazia superflua, e le lingue sono smarrite nella felicità di un cenno o di un richiamo impossibile, allora non se ne può proprio piu di questa chiacchiera parsimoniosa e grigia di "dopo" e di "prima", questa menzogna del linguaggio che pretende di diventare critico (distanziandosi da sé, come un'ombra dalla cosa) per regolare l'impertinenza dell' atto creativo: la poesia è parola colorata, e le lingue sono violate in un gioco futile e comico, lussuoso e eccessivo, irresponsabile e felice, la cui forma leggera (nella durata della memoria) non ha inizi, tappe o mete, ma è in un viaggio illimitato, metafora insieme della sparizione luminosa e del tragitto mancato, dunque non recuperabile dalla storia come stanza della consumazione e dell'integrazione dell'atto amoroso in una legge (cultura) del matrimonio, cioè normativa dello spreco energetico, né dalla critica come progetto di quantificazione (di calcolo) e perciò di ricostituzione del suo processo genetico e dei processi di produzione del testo. Dunque no alla critica storicistica e alle sue diramazioni sociologizzanti, secondo la linea nazionale De Sanctis-Gramsci (con contaminazioni ora crociane, ora lukacsiane) che istituisce un avvicinamento tattico della poesia alla storia e al sociale e quella missione internamente etica e politica dell'arte (valori positivi, esemplarità, contenuto ideologico, rispecchiamento, ecc.) che trova arcaici e grotteschi archi di volta nei pinnacoli dei Quaderni come "la coerenza logica e storico-attuale delle masse di sentimenti rappresentate storicamente". E no all'imperialismo della semiologia, ma con due annotazioni: da una parte l'effetto parodistico che è implicito negli effetti di decostruzione del testo, nella rete parossistica di tabelle, gradini, classifiche, livelli, ecc. che vengono ossessivamente indagati e che costituiscono un vero e proprio arsenale di "sapere separato" dal testo, dall'altra, nei semiologi piu attenti, un' aperta confessione di smarrimento e di oscurità, la coscienza che il testo sfugge, nonostante la tracotanza degli elaboratori, a un approccio che sia di tipo puramente linguistico. Una nuova poesia pretende una nuova maniera di leggere. Fare del testo un pretesto: questa è la parola d'ordine che passa tra quelli che fanno il mestiere. Forse non è piu il tempo della lettura accademica, delle sante alleanze strette con una morale dell' equa distribuzione delle virtu e dei meriti, cioè della buona volontà di chi ha scritto. (Ma i progressisti continuano a fare della parola uno strumento, che può essere consolatorio o propagandistico, ma che è comunque sempre dentro l'idea di una amministrazione della giustizia.) L' ammodernamento non è nel senso (nel senso che si diverte e perciò divarica) di una lettura, ma in quello (senso unico, buon senso) della decifrazione e dell'analisi, cioè di qualcosa che dimostra l'accidentalità del testo, lo toglie di mezzo per esibire una verità "prima" (precedente e originaria) mentre la lettura non è altro che un cominciare che ha finito di leggersi, e scopre nel movimento della parola la sua separazione (mentre quello che è visto è la giovinezza del linguaggio, e la sua perennità.) Cosi, non è difficile capire perché sia diventato doveroso esibire i meccanismi del linguaggio, ma piu ancora nascondere (tacere) la forza con cui un atto di scrittura si ri-vela, la gratuità del canto che è dono, la verità del canto che è dono. (Allo stesso modo, chi parla degli dèi vuole parlare di questa gratuità che sta all'origine di una parola, di ciò che è ingenuo ma non è innocente, perché niente è piu terribile di un dono non inteso, e niente è piu tremendo di un dono compreso, e perciò svelato.) C'è allora una doppia inadempienza della parola, verso chi ne è tramite e bocca, e verso chi pretende una esemplarità. Ecco come sorge da un cielo un arcobaleno e stringe il patto tra parlante e parlato, ma subito l' acqua ripristina il tradimento, il sole ha smangiato le lingue, vola via lo. spirito della pentecoste, e rimane la sabbtia e l'orrore del buio. La cecità è proprio questo smarrimento crudele, e non Tiresia indovino, che approfitta dell' ap ommaton per diventare custode delle istituzioni, trombettiere delle fedeltà del re. La parola poetica è dunque: -innamorata, e perciò impertinente e beffarda, indifferente ai conclami e ai conclavi della giustizia; -colorata, perché non traccia disegni e percorsi, cioè la linea che va da una verità a un errore come riconoscimento di una verità, ma crea il disorientamento bruciante (e abbagliante) di un distogliersi dal senso che è l'apparenza di quel distogliersi, e la sua dissimulazione; -rapinosa, e per questo è in un movimento di seduzione e di allontanamento nel quale la cosa non è avvicinata o tolta alla-dalla vista, ma immette in un paesaggio dove improvvisamente si è colti da quello spazio e la cosa si è trasformata in altro, nell'altro che è la lingua dell'origine. La poesia usa i lettori, non è usata. Allora occorre intendersi: l'illusione della poesia è la poesia che non crea illusioni (al contrario del mito romantico, e da noi leopardiano). Non si concede ma è donata dall' amore che non cade mai nella disperazione e non è respinto nel buio della solitudine infelice. Chi pretende di studiarla è di là, chi crede di farne argomento da salotto è di qua. Il lettore è smarrito, non può precedere le fasi perché, come in amore, non c'è fase, ma la durata eterna e infinita del testo meraviglioso e inarrestabile. Non c'è manuale né ars legendi, dunque nessuna garanzia di tt momento giusto": bisogna essere tentati per conoscere il demonio, bisogna essere toccati per conoscere il desiderio di un verso. Questa è la lettura amorosa. C'est ma soif si folle! La poesia non può che generare equivoci futili. Il suo richiamo è di sirena, cioè monstrum, mostro e prodigio insieme, crudeltà e meraviglia del canto, esibizione dolcissima e furore orfeico. Ma sembra che ci sia una barriera, non soltanto tra il pubblico che vuole e chi scrive senza pubblico, ma anche tra chi scrive e chi parla delle parole degli altri, i critici. Le pagine letterarie sembrano pullulare di neotomismo, di pratiche della pedagogia, di elogio della comunicatività, di spinta all'illustrazione dei buoni o dei cattivi (che è lo stesso) sentimenti. Eccoci dunque a pretendere le misure e le difese, i metri e le museruole: anche gli Stocchi possono essere poeti, purché si taccia dell'amore e dell'orrore, da cui le parole sono inghiottite e attraversate, rubate e bucate. (Orfeo, Edipo, Omero: da sempre la figura del poeta è soggetta alla crudeltà o alla mutilazione. "Lo ungeremo con la mirra e gli porremo un serto di lana sulla testa, e lo manderemo via, in un'altra città", dice Platone. La parola poetica è pericolosa: è fascino e abisso, non enigma ma paradosso dell'enigma e, qualche volta, sua parodia. L'enigma è sacro, è rituale e dovere di decifrazione. La poesia non ha svelamenti, non ha un vero da esibire: la sua verità è questa assenza di piani, è questo canto che, tagliato, continua a cantare, e si fa beffe degli spadoni del potere, o delle bocche metronome di chi chiede o implora moderazione.) Che cosa teme chi pretende una trasparenza? Ecco la paura di smarrirsi dentro le righe dei versi, di entrare nel fuoco della follia senza ritorno, di abbandonarsi ai sogni e al desiderio che agitano la pagina diventata zero e ogni cosa. Allora chiedono che cosa vuol dire. Perché dentro il nero delle lingue si è soli con il linguaggio, si è nella profondità di una distesa che non ha approdi, si è nella verticalità di un orizzonte enorme, nella dismisura di uno spazio che non ha /ragione/. (A meno di rinviare la gioia, il verso, l'amore. O di chiedere la protezione di una strofa chiusa, candita, confettata: poesia del "già detto" e del "già fatto", luogo delle forme che non possono più tradire.) Il desiderio è infinito, crudele, mentre il letterato è cattivo, prigioniero di un resoconto e di un dovere. Allora pretendono il patto, le garanzie che il sogno, il sonno, il fiume, il fuoco non li sconvolgano e non li rovinino. La lingua del fiume travolge, è impietosa. Che cos' è dunque la parola "chiara"? È il sogno immobile del giardinetto pulito e immune, della camera d'ospedale sterilizzata, dell'acquario dalle pareti blindate; è il sogno di morte che ha orrore di tutto ciò che rimanda alla liquidità, alla disseminazione, alla fuga, cioè alla vita. È l'universo tautologico del niente, in cui un silenzio può, da un momento all'altro precipitare orrendamente il sistema ordinato e controllato. È il già detto, che coltiva la speranza che tutto vegeti al proprio posto, ogni significato nel suo significante (con qualche rilevabile slittamento), e quanto non può essere trattenuto smotti finalmente nell'ordine di una simmetria nella quale la casella vuota deve essere necessariamente riempita. Come quando sboccia una primavera, e si è nell' amore dei semi e dei giovani rami, e l'amore porta quello che l'oblio aveva trascurato durante i giorni dell'inverno, ecco si spalancano le righe gonfie di risa e di taciuto,
perché prenderci sul serio? -esclamano -perché credere al nostro richiamo? Chi chiama (chi ama) non vuole più essere ascoltato per essere decifrato,
non vogliamo nascondere per essere svelati,
(la profondità dov'è? com' è possibile pensarci in un punto più dentro di un altro, raccolti in un luogo più luogo di un altro, protetti dalle cortecce della retorica per difendere l'albero delle mele?), l'albero delle mele è un albero di mele, le immagini hanno già la profondità della luce, e i luoghi dove siamo sono estranei alle rivelazioni, quanto alla mistica delle conoscenze terribili, (le conoscenze terribili sono aldilà del linguaggio,
perché credere al nostro chiedere un significato più lungo di un altro?). Ecco la fiaba frivola e spaventosa della pelle, che trascura il sangue che non ha, le ossa che non ha, e ha occhi solo per guardare l'occhio, e non più in là. Voici les mots enfin de l'aube et de la pluie! Ciò che è desiderato è una distrazione, un ritrarsi dal luogo in cui "nessuno" chiede un volto, forma o figura, uno stile nel quale nascondere ciò che non deve essere visto e che proprio per questo viene intra-visto. Cosi si entra nello spazio di una sottigliezza elegante, di un' astuzia molle e ammiccante, che sottintende ciò che non c'è, o finge un raccoglimento estraneo al visibile (e in realtà lo concede). È in genere il movimento sinuoso della poesia francese da Baudelaire in poi e che, du coté de chez nous, trova in Verlaine il suo retore raffinato e invincibile. Ma Rimbaud no, Rimbaud ha la forza di cracher les belles plumes del suo pasto letterario, Rimbaud è il poeta della leggerezza visionaria, che non ha proprio niente da mostrare e vedere. La poesia infatti non è rivolta, non si rivolge a qualcuno. La rivolta è nell'idea di un vedere che mette a fuoco un nemico e concentra su di lui ogni altro vedere. Invece la poesia è il segno che si cerca, e si scopre allontanato in un viaggio straniero, dilatato nel gioco (non nel giochino, non nella trovatina cabarettistica) di un paradosso limpido e effimero, fuori dalla logica e dal potere di una dimostrazione squillante. (Smontiamo i meccanismi della lingua, si diceva una volta, mostriamo su cosa si regge l'occultamento, la mistificazione del significante, il suo vero rapporto con la cosa. Ma c'è davvero qualcosa dietro una maschera che non sia un' altra maschera? C'è una fine e un fine allo svelamento che ci porti, magari su un vassoio biblico, l'orrore o la meraviglia della verità? Aldilà del deserto c'è già il mito, la leggenda. Catullo e i Novissimi, il sessantotto e Alessandro Magno, ogni priorità balza nel luogo di una lontananza meravigliosa o infida, ma già fuori dalle tagliole insidiose di una cronologia, che predispone trappole ragionate, storie rigorosamente lineari. Cosi non c'è scampo per chi fa della poesia la pagina delle incazzature. La poesia del Movimento è la poesia dei settimanali femminili di qualche anno fa: la credenza in un' emozione nobilitante è diventata la credenza in un materiale "alternativo", dal quale ci si aspetta un passaporto contro le insidie del linguaggio -e della storia.) Toglietemi la storia, se no / come ricomincio? Con che voracità Rimbaud, nelle "Feste della fame", o prima, nella "Commedia della sete", pretende nuovi paesaggi, azzurri squillanti, arie di carboni di ferro di roccia. Chi non ha niente da dire può parlare del nulla, del vuoto assoluto che spalanca i becchi del linguaggio, e fa di una lingua una parola, senza bisogno di istituire nemici, di stilare comparazioni o graduatorie. Ma chi ha molto da raccontare si appella alle immagini del potere, e trova molteplici fantasmi per inaugurare lo spazio legittimo (cioè legittimato) dove l'altro diventa volta a volta il perfido lutin del suo vaniloquio servile (utile) o il malvagio demonio che interrompe il filo del suo dire. (Cosi, chi crede nelle opposizioni dei contenuti, nel vissuto, in un "da dire" e un "da fare", nel soggetto organico a un tempo e a un luogo, magari anche sornione e sgusciante, ecco che organizza dibattiti, "pratiche" di poesia, seminari, vuole "capire", "chiarire", neutralizza la pagina irsuta e ramosa, comunque ariosa sempre, con i fiocchi di neve mortuari, asettici, della sociologia e del pubblico, delle chiese e delle omologazioni, delle indignazioni e delle verifiche rassicuranti, pretendendo in questo modo un'uscita tranquilla dal labirinto, non pia viscere e desiderio fin nella morte, ma di morte, tomba della conservazione delle feci, mentre non ascolta i passi della danza, le dita dell' amore con cui chi gettava il filo rendeva, contemporaneamente, invisibile il Palazzo, e invitava l'amante alla gioia di un verso non descrivibile.) I malvagi felici, ecco una specie sottaciuta dai moralisti. "Ego mulier, ego adulescens, ego ephebus, ego puer..." Qual è la parola di un' antologia se non quella interrotta, strappata, dimenticata, forma di un'impossibile antologia e di tutte le possibili antologie, che accoglie e distoglie, giocata e ferita, nel luogo di una solitudine senza complicità e senza lamenti, nell'enormità di una finzione senza autore, dove nessuno è disposto ad elevarsi aldisopra della credenza nelle verità della grammatica, e a riconoscere il destino di un'ironia o di una tragedia? L'arte non è necessaria, e i poeti vivono perennemente in una stanza di coriandoli velenosi: non hanno che statue vuote, une profonde statue en rien, e se la loro morte non diventa mai una morte, benché sia incrudelita dalle viltà dell' apoteosi, è qui e ora che pavoneggiano le loro ruote invisibili, e, come ogni re che non si rispetti, hanno milioni di ragazzine pronte allo smascheramento, mentre indicano le loro nudità grottesche, le loro bocche silenziose dove fluttua la neve del taciuto, perché sanno che la poesia non guarda i fanciulli, ignora la purezza (l'immediatezza) mentre finge di poterla possedere una volta per tutte. Giancarlo Pontiggia Enzo Di Mauro
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