Lunedì, 1 settembre 2008
Recupero dal mio ammasso di ritagli di giornale, con un pò di aiuto tecnologico,questo interessante articolo che Adriano Sofri ha dedicato a un particolare aspetto del poemetto eliotiano "La Terra desolata"
Adriano Sofri - La sofferenza di Eliot
L' opera poetica più importante del Novecento The Waste Land pretende i superlativi, e l' irriverente Christopher Hitchens (che obietta: quando mai si può pensare all' aprile come il mese più crudele?...) deve dichiararla «il poema più sopravvalutato del canone angloamericano». T. S. Eliot lo scrisse a Losanna, dove curava un esaurimento nervoso, nell' inverno 1921-22. Una versione italiana, curata da Angiolo Bandinelli, sostituisce alla consolidata traduzione del titolo - La terra desolata - la citazione dantesca Il paese guasto. (Inferno XIV, 94: In mezzo mar siede un paese guasto). L' ipotesi (compresa la corrispondenza e l' assonanza waste-guasto) è seducente, benché vada contro una nota di T. S. Eliot, che dichiara di aver tolto il titolo dall' opera di Jessie L. Weston sulla leggenda del Graal, From Ritual to Romance (1920). La trafila del rimando dantesco è ricostruita da Carlo Ossola, Dante nel Novecento europeo (2005): dalla Terra guasta di Giorgio Caproni (1960) al Paese guasto di Giovanni Giudici (1982), e analogamente per la versione francese La terre gaste, che era già nel Perceval di Chrétien de Troyes, antecedente dello stesso Dante. Già Renato Poggioli aveva segnalato nel 1955 il parallelo fra il Waste Land e il paese guasto, ma per concludere che, data la testimonianza di Eliot, doveva trattarsi di una mera coincidenza. Più sospettamente, una poesia intitolata Waste Land, di Madison Cawein, era uscita nel 1913 su una rivista che Eliot doveva aver visto.
Insomma, sono andato dietro alla vicenda del titolo, e poi finalmente mi sono messo a rileggere il poemetto. Fino al verso 243, dove un participio passato mi ha fatto sobbalzare. Sono i celebri versi in cui parla Tiresia, cieco e veggente, vecchio che è stato uomo e donna: «la figura più importante del poemetto - annota Eliot - colui che salda in unità il tutto...». I vv. 243-246 dicono dunque: «And I Tiresias have foresuffered all / Enacted on this same divan or bed; / I who have sat by Thebes below the wall / And walked among the lowest of the dead». È il foresuffered che mi ha fatto sobbalzare. Qualche verso prima Tiresia ha detto: «I... perceived the scene, and foretold the rest». Osservai la scena, e predissi il resto. Foresuffered è dunque calcato su Foretold. Ma mentre foretell è un normale composto, esattamente come predire, foresuffer non lo è, esattamente come presoffrire. Se non sbaglio, non troverete in un vocabolario inglese foresuffer, così come non trovate in un vocabolario italiano presoffrire. Più singolare è che non troviate nei vocabolari italiani (ancora) neanche il lemma presofferto, nonostante la sua vasta ricorrenza nella neolingua giudiziaria e penitenziaria. È questo il movente della mia curiosità: ci torno fra poco. Sta di fatto, intanto, che le traduzioni italiane di Eliot impiegavano già quel participio di nuovo conio: «E io, Tiresia, ho presofferto tutto, / quanto accaduto su questo letto - o divano; / io, che sedetti sotto le mura, a Tebe, / e camminai tra i più miseri dei morti». Fuori dalla neolingua penale, il paio di usi di presofferto che ho incontrato grazie a Google sono citazioni di Eliot, dirette («se tutto, come per il Tiresia eliotiano, era già stato presofferto», Luca Guerneri) o indirette (Rimbaud «aveva precompreso tutto questo. Aveva presofferto questa loro, e nostra, condizione», Davide Rondoni). La sequenza foretold-foresuffered è molto bella. Fissa, benché il lessico non l' abbia finora riconosciuta, l' associazione fra predire e presoffrire - veder prima e soffrire prima. Antivedere il futuro è soffrire - non solo per Cassandra. Ancora, il beniamino (o il dannato) degli dèi capace di prevedere il futuro proprio e altrui è destinato a essere solo fra i suoi simili, e dunque a soffrire in anticipo e solitudine. Solo come Gesù nell' orto dei Getsemani. Preveggenza, sofferenza e solitudine si saldano insieme. Condizione che non appartiene solo al profeta, ma anche all' eroe che avverta il proprio destino, o che ne abbia avuto la rivelazione. Cercando altre occorrenze di foresuffered ho trovato un breve saggio di Dorothea Martens sui problemi della traduzione (Transverse, Toronto 2007) imperniato su alcuni versi dell' Eneide tradotti dal poeta irlandese, e Nobel per la letteratura 1995, Seamus Heaney. Sono i vv. 103-5 del libro VI, è Enea che parla, e risponde alla Sibilla cumana, che gli ha predetto le pene e gli spaventevoli enigmi prima dell' arrivo fatale al Lazio: «Non ulla laborum, / o virgo, nova mi facies inopinave surgit; / omnia praecepi atque animo mecum ante peregi». Userò la traduzione, odorosa di stampa, di Vittorio Sermonti (Rizzoli): «Non c' è pena al mondo, / vergine, che mi si profili nuova o imprevedibile: / a tutto mi vedi disposto, e nel pensiero ho visto già tutto». (Però voglio citare anche l' antica versione di Annibal Caro, non solo per fedeltà di scolaro: «Vergine, a me nulla si mostra omai / faccia né di fatica né d' affanno, / che mi sia nuova, o non pensata in prima. / Tutto ho previsto, tutto ho presentito, / che da te m' è predetto; e tutto io sono a soffrir preparato». Il manierismo del Caro non si perita di triplicare il tutto, né di quadruplicare il prae: previsto... presentito... predetto... preparato. Tuttavia l' endecasillabo Tutto ho previsto, tutto ho presentito ha una bella forza, e l' ultimo verso, abusivo, introduce comunque la parola soffrire, che qui ci interessa). Che cosa fa, in una raccolta uscita nel 1991, Seamus Heaney? Un vero colpo di teatro: «Heroic Aeneas began: "No ordeal, O Priestess, / That you can imagine would ever surprise me / For already I have foreseen and foresuffered all"». Heaney dunque estrae l' invenzione che Eliot ha messo in bocca a Tiresia, e la presta all' eroico Enea. Così facendo conia un verso bellissimo, riproduce - nella f - l' allitterazione della p nell' originale virgiliano, e condensa in una stessa riga i due verbi affini, che in Eliot erano staccati di alcuni versi: foresee (in Eliot era foretell) e foresuffer. La Martens (con altri) indica un' ulteriore affinità fra Tiresia ed Enea: nel libro XI dell' Odissea Ulisse incontra agli inferi Tiresia, che gli profetizza le sciagure che ancora lo attendono prima del ritorno a Itaca e la vendetta sui pretendenti. La discesa agli inferi di Enea corrisponde a quella di Ulisse. Dunque Heaney annoda con un unico filo i tre episodi, il Tiresia di Omero, l' Enea virgiliano, e il Tiresia di Eliot. Così il modernissimo foresuffered viene retrodatato fino al secolo di Virgilio, che pure non disponeva di un composto, e aveva staccato ante e peregi. Vedo che alcuni studiosi autorevoli hanno ragionevolmente evitato di prendere alla lettera le note esplicative di Eliot (aggiunte nell' edizione in volume 1922: la prima pubblicazione era venuta su due riviste) e hanno per esempio insistito sulla parentela fra il Tiresia eliotiano ed Enea, e in generale sull' influenza dell' Eneide, oltre che del Virgilio dantesco, sul poemetto. (Eliot aveva dichiarato fin da studente di sentirsi «con Virgilio più a suo agio che con Omero»). Non ho letto questi studi, e dunque non so se vi si sia osservato un altro forte legame fra Eliot e Virgilio, che mette assieme l' appendice esplicativa di Eliot con la deduzione degli studiosi. Eliot scrive infatti: «Un debito di carattere generale ho anche nei confronti di un' altra opera di antropologia, un' opera che ha profondamente influenzato la nostra generazione, voglio dire The Golden Bough...». Il ramo d' oro di J. G. Frazer (1890), di cui uscì nel 1922 l' edizione abbreviata (tradotta in italiano da Lauro De Bosis, Boringhieri, in tre volumi), si ispira proprio all' Eneide. Più esattamente, a un commento di Servio all' Eneide che assimila il ramo d' oro al vischio: e proprio nel libro VI avviene il ritrovamento profetizzato del ramo d' oro, che varrà a Enea l' accompagnamento della Sibilla all' Averno. Dunque Eliot ha incontrato l' eroe Enea in quel libro VI, e l' ha reincontrato nella colossale opera di Frazer. Si può immaginare che il verso del suo Tiresia, And I Tiresias have foresuffered all, abbia già adattato l' Enea del omnia praecepi atque animo mecum ante peregi, come potrebbe confermare la prima persona e la corrispondenza omnia-all. Naturalmente, rendere ante peregi con foresuffered è un' iniziativa risoluta, ma non impensabile, come mostra la traduzione di Heaney. Traduzione di ritorno? Cioè: Eliot sarebbe andato da Virgilio a Tiresia per fare di Tiresia l' eterno Enea e il proprio alter ego del 1921, e Seamus Heaney sarebbe tornato nel 1991 da Eliot all' eterno Enea e a Virgilio? Filippo Maria Pontani mi spiega che l' idea del foresuffering ha un precedente in greco, la famiglia che ruota attorno al verbo propaxein, «soffrire prima», o in senso meramente materiale temporale (così per es. in Paolo, epist. Thess., propathontes, che la vulgata stacca in ante passi), o in senso di «sintomi» (anche di malattia), di «anticipazioni», di «sofferenza preventiva» (per es. in Tucidide). C' è anche una «pregioia», bella in particolare nella definizione della speranza di Filone Alessandrino (I sec.): elpis esti propatheia tis, xara pro xaras, agathon ousa prosdokia, «la speranza è una forma di pre-patia, gioia prima della gioia, in quanto è attesa di bene». Quanto a me, so che questo foresuffered, ignorato dai vocabolari ma diventato frequente nel discorso letterario anglosassone (nei poeti e nei critici ma anche nelle canzoni: She has foresuffered it all, Pruf/rock progressive metal aus Aachen...), esatto corrispondente del nostro presofferto, vale a riscattarne lo squallore. Anni fa avevo ironizzato sulla neolingua: «C' è un' altra espressione di conio riformatore così pazzesca che quando la sento la prima volta non credo alle mie orecchie: poi scopro che è lessico ministeriale e legale. La pronuncia un mio compagno di passeggiata, illustrandomi la sua storia carceraria: "Ho un presofferto di nove anni...". Scusa...? Che cos' è un presofferto? È la pena già scontata. Il presofferto; come il pregresso, o il precotto. Anche la sofferenza - nove anni di sofferenza, 365 giorni all' anno - è diventata impronunciabile. Potrebbe essere un tempo del verbo; l' imperfetto, il passato prossimo, il presofferto, il trapassato». Ecco: ora la parola è riscattata, e con lei tutto il tempo passato.
da La Repubblica dell'8 giugno 2007
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