Giovedì, 17 luglio 2008
Pubblico qui una piccola selezione da "Quaderni dell'impostura" di Alessandro Assiri (Lietocolle 2008), accompagnata dall'introduzione di Chiara De Luca
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Oggi ho aria a sufficienza per dubitare di tutto, per desiderare l'inutile e rifiutare un regalo, per stare chiuso tra le mani di mio padre e sorridere dalla sponda di una foto.
Scatto da una sedia vuota detestando gli oggetti per la loro nudità, la controversia solita per parole troppo scarne,alla fine è un presente da confidare e un passato che rimorde.
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Nessun incanto potrà mai essere sincronia, non c'è meraviglia se non nel distacco.
..e quel piccolo disagio che ogni volta m'inquieta se solo ti allontani, confonde le sirene con soavi armonie.
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..estrometto parole, mentre dovrei invece espellere pensieri.
Quel pizzico di estate che si affaccia e poi veloce schiaccia un sorriso con tutto il suo peso
e sono lì ad aspettare il volto di questa vita cannibale, che anche il vento si stanca di portare, come sempre vorrei proteggerti dalla polvere,
ma in mezzo a noi carezze timide restano appese alle mani e ogni devastante diventa permanente, sbriciolando la paura di quel cielo sbagliato.
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Sospeso in una bolla che confondo spesso con un senso di protezione, traffico con alcune malinconie. Mi nutro di storie, di pagine interrotte, parole smozzicate dal significato ambiguo. Ogni scrittore teme l'esplicito come ogni pittore teme il vero, al confine di ogni disperazione dove si alza il velo sul risibile e tutto ritorna buffa farsa e noi saltimbanchi a giocare ai birilli.
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..questa ostinata ricerca dell'approdo , questo contorno di terra che emerge dall'ansia.
Quale arte esiste senza migrazione, se l'immaginario è saturo come distinguere un turista da un profugo? L'essenza del viaggio è lo smarrimento, il procedere sbandando senza portare a casa il ricordo, concedere all'oblio la capacità di liberare spazio. Sono troppo ostile all'arte che trattiene, evidenzia troppa differenza tra l'esperienza e la distanza.
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Da ciò che temo mi distacco per rifugiarmi nei luoghi del consono
gli spazi abitati di cose, di distanze conosciute
e un balcone dove godere il plenilunio
se è vigliaccheria magari me ne frego
di ogni esperienza dove non grava un capriccio, ma solo mare in odor di burrasca.
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credevo nel comprendere nell'abbracciare tutto, lo sbocciare di un fiore , la tristezza di un lutto
..ma capire è un impotenza di fronte alla debolezza dell'agire, un esercizio di stile , un inutile frivolezza..
negli anni veloci manca il tempo per fare, per dedicare il tempo a elogiare l'errore, per svegliarsi al mattino con un cattivo sapore.
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Al di fuori non c'è vita, solo cancelli e finestre sbarrate, solo i segnali dell'incertezza del tuo passaggio, e quell'infamia che ci scuote le spalle, per le notti ubriacate dal pretesto della nostalgia..e quanta viltà trabocca dalle mani, quanta immodestia per razzolare male. Ti nascondi dietro un velo e allora ti sorrido, nel colore diluito un’altra volta ti ritraggo.
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Ogni tentativo di allargare un orizzonte, di dilatare uno spazio è un alibi per rimanere. Io ho un universo circoscritto da passioni brevi, il corto raggio dell'ultimo autobus, che penetra le mura sgretolate di questa città piovosa.
.. e tutte le volte che ho gridato: vado, per non sapere dire andiamo, avrei solo voluto sentirmi dire: resta.
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Ho le mani vuote , ieri ho letto poco, così non ho niente da spiegarti e così si rischia di perdersi, perché vivi nel tempo che contraggo, nel dolore delle sillabe e in quello che non riesco a spandere. Poco più di niente e hai ragione, basterebbe carta e penna e tutte quelle verità, piccole, che raccontavo ad Anna. Non c'è niente di fertile in quelle stelle opache, solo gli istanti che passano come se tu fossi, tu che non sei perduta , ma soltanto imprevista...
“Dove tutto accade in saldo”
di Chiara De Luca
[...] A nulla serve dire questo è il mio vino questo è il mio pane.
Il bacio di Giuda sarà dato. Chi scrive ha una lancia puntata sul cuore.
Manuel Alegre
Quaderni dell’impostura è titolo già di per sé molto eloquente, e condensa gran parte del significato di questo libro, che si presenta come una successione di frammenti a tratti aforistici, ma è in realtà retto da un forte principio di coerenza, che lo informa dalla prima all’ultima pagina. I Quaderni tracciano un percorso, un andare, per paradossi, slanci e arretramenti, al cuore dell’impostura, al cuore della scrittura. Non si tratta però soltanto di un testo metaletterario, bensì di un tentativo di svelare l’inganno celato dietro la presunzione del dire, del fare letteratura, piuttosto che lasciar parlare gli oggetti, le percezioni, i sentimenti e le contraddizioni che ne scaturiscono.
Il linguaggio di Assiri è secco ed essenziale, ma ognuno di questi testi condensa in sé numerosi significati, numerose possibili letture e suggestioni. Ognuno di questi testi è concluso in sé eppure strettamente connesso agli altri, in un incedere dialogico di domande, risposte e smentite da cui nascono nuove domande. Assiri si pone in ascolto delle cose, “senza pretese con l’umiltà d’imparare, incuriosito da una trama senza riscatto, da un’apparenza di vita.” Non si attende cioè che gli si schiuda uno spiraglio, uno scorcio su una realtà nascosta o superiore, né che gli si spalanchi un varco verso una possibile conoscenza, né che gli vengano fornite risposte plausibili e definitive. Piuttosto stralci d’illusione, brandelli di senso, passibili di essere smentiti alla successiva piega in cui s’insinua il discorso, alla successiva curva in cui sbanda il ragionamento. Assiri non guarda a un segreto nascosto al di là dell’apparenza immediata, né a un’isola salvifica che traspaia dietro il velo del consueto quotidiano. Piuttosto tende a riconoscere nelle cose, nella loro immobilità, nel soffio che genera una parvenza di vita, la propria stessa irresolutezza, il proprio stesso attendere, che si alimenta di sé, senza aspirare ad alcun compimento. Quello dell’impossibile finitezza è tema centrale dei Quaderni, che, paradossalmente, muovono da una dichiarata sfiducia nella scrittura e nelle sue potenzialità comunicative, eppure se ne servono nel tentativo di veicolare brandelli di senso, stralci di esperienza. Nella sua staticità, l’io che osserva e assorbe, disperando di poter restituire, è dibattuto senza tregua tra un sentimento di disillusione nei confronti delle potenzialità della parola usurata del dire quotidiano, e la necessità di colmarla nuovamente di senso. Pur nella apparente chiusura, che tende a individuare nel silenzio l’unica alternativa possibile alla vanità dell’eloquio; pur indulgendo al ripiegamento nell’interiorità, Assiri si rivolge sempre a un tu, come se la sua scrittura si negasse sperando al tempo stesso di essere ascoltata, come se disperasse attendendo, pur conscia dell’inutile inerzia dell’attesa stessa. Alla base di questo atteggiamento ambivalente nei confronti della scrittura, di questo ambiguo sentimento d’amore/odio che pervade Assiri, c’è forse proprio la disposizione alla cauta apertura, quell’”umiltà” cui si aspira “per dire ogni cosa che sfioro” e una fiducia nelle parole originarie, nelle parole non soppesate ma lasciate libere, lasciate fluire, perché “sempre immaginate libere”. Tale consapevolezza si oppone all’atteggiamento di chi dichiara di fare letteratura, “perché in realtà nessuno fa nulla che non sia tentare di desistere, di mollare frignando e consegnarsi all’abbandono.” La scrittura non ha per Assiri alcuna valenza catartica o potenzialità salvifica, non può costruire trame e finali, né correggere la realtà, non può davvero descrivere e circoscrivere, ma soltanto lasciar affiorare frammenti, tracce di una realtà che non si sottrae del tutto, ma nemmeno può essere detta, perché a disposizione abbiamo soltanto “parole altrui”, che “martellano con il loro abbandono”, parole imprigionate, già appartenute, spezzate. Per questo non è possibile scorgere che “frammenti, forse un po’ troppo appassionati”.
“Vivo di un socchiudersi per timore di spalancarmi”, scrive Assiri, sintetizzando, in un’immagine efficace il suo eterno essere sul punto di partire senza mai riuscire a farlo, lo stare senza restare, come se si fosse condannati a vivere in un luogo al di fuori dello spazio e del tempo, un luogo di eterno passaggio, dominato da un’attesa priva di reale oggetto, da un’attesa che non attende, fine a se stessa e al proprio impossibile dipanarsi. Come se si stesse seduti su una panchina alla stazione, guardando la vita passare senza riuscire a salire, attendendo un treno senza sapere quale, senza conoscerne né l’orario d’arrivo né quello di partenza, senza volerlo scoprire, eppure forse sperando di poterci riuscire un giorno; accartocciando “i bisogni per poterli gettare”, ripiegando “ su quelle necessità che non fanno progredire”, poiché “è nell’essenza dei progetti morire un poco prima”. È come se in questa dimensione atemporale la vita si svolgesse nello spazio intermedio tra il prima e il dopo, tra ricordi cancellati e sogni che si ha paura di nominare, nel timore della “strana imperfezione che dimora in ogni atto compiuto, lo sbiadire di ogni progetto che ha nella dissolvenza la sua apoteosi.”
Allo stesso modo, il senso del viaggio sta nella progettualità, che lo prefigura senza mai realmente prepararlo, che lo organizza senza mai realmente porlo in essere. Il fatto stesso del restare in un luogo che pure non appartiene, l’attrazione per una immobilità carica di tensione verso un movimento negato “crea una sorta di permanenza e l’attenuarsi della distanza passa in ogni istante, dove il crederci è il primo pensiero.” L’assenza diviene in tal modo presenza concreta, la distanza “che si è già presa il cuore”, separatezza colmata dall’attesa, luogo di chi desidera “un recapito che non diventi soggiorno”, una identità che non consenta l’identificazione, ma preservi la frattura in un “auto esilio” “così lontano dai rumori di ogni festa”.
La dimensione della soglia, dell’intermezzo in cui si svolgono i preparativi per la partenza, scongiura l’approssimarsi della fine del viaggio, l’ansia del ritorno implicita nell’andare: “Chi progetta un viaggio ne immagina il ritorno, io vivo circoscritto da ansie di partenze e per placarmi l’anima, allargo l’orizzonte con briciole della mia intimità.” All’orizzonte del viaggio reale si sostituisce pertanto quello mentale, che può essere dilatato all’infinito, ma mai lasciato alle spalle. Perché la meta è sempre di fronte, mai raggiunta, dunque sempre possibile. Se “Ogni tentativo di allargare un orizzonte, di dilatare uno spazio è un alibi per rimanere”, è perché in realtà non si vuole varcare la linea, tormentosa e rassicurante, di un orizzonte interiore che, per quanto labile e instabile, non sparisce mai. Proprio in quanto invalicabile, infatti, il limite non esaurisce il movimento, non mette in dubbio il senso dell’andare con la necessità di un ritorno. Perché se non c’è partenza, non c’è ritorno, ovvero, i due punti coincidono, solcati da infinite direttrici di movimento.
Come l’ansia mai soddisfatta della partenza e l’immobilità apparente e auto imposta dell’attesa, il distacco ha il sapore dolce amaro di una scelta sofferta e consapevole, di una rinuncia al compimento: “Quando le cose si allontanano c’è una strana grazia nel loro sbiadire, una sorta di morbidezza della dimenticanza, come lo spalancarsi dell’infinito prima dell’oblio.” Non si tratta qui tanto di un auto compiacimento del proprio soffrire, quanto piuttosto di una accettazione della propria singolarità, che si realizza nell’incompiuto, nella tensione dell’attendere in vano. “Spezzare i legami è volersi imprigionati. Schiavizzarsi al tentativo di dimenticare la violenza del recidere. Non due dita di distanza, ma essere le proprie lacune”. Per Assiri, l’alternativa non sembra tanto risiedere nel tentativo di rinsaldare i legami, conservarli o crearne di nuovi, quanto piuttosto nell’evocarli, chiamarli, sfiorando le catene senza mai lasciarsene imprigionare, mantenendosi sempre nella zona franca tra distanza e presenza, assaporando entrambe, senza consentire che si compiano, pur nella consapevolezza che l’amore è “l’unico sentimento ancora capace di scorgere l’anima”, così come la scrittura, per quanto debole e imperfetta, è l’unico mezzo per darle voce.
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