venne l’ora delle scelte difficili:
quelle dei denti addentati alle giacche,
di giorni fucilati dall’oppressione dei vivi.
che le gambe diventarono zampe,
i baci sputi, i cazzotti pugnalate
tignose all’andatura delle cose;
e le cose, che molte volte hanno
un nome, restarono sommerse
nella storia, smarrite nei bauli
epocali di silenzi da dopoguerra,
nelle fiamme alte degli stenti,
nelle albe approssimative
di giorni spauriti
finiti dritti dentro l’acquaio.
*****
1945 festa al castello
c’eravamo cascati dentro. c’eravamo cascati tutti.
come se fino allora non fosse esistita la notte.
c’eravamo dentro fino al collo. e ballavamo,
come in mezzo ad un banco di nebbia,
senza musica, ad occhi chiusi. sospesi, quasi.
difesi dalla nebbia, lontano dagli spari,
dalla guerra, dalla fame dei protocolli.
*****
è che eravamo nel panorama
come cose statiche
e spesso ci scordavamo di avere
vent’ anni e un mondo da tornare
a vestire quando avremmo potuto.
*****
così, c’incamminammo come parole nuove
nella gola scarnificata del mattino,
fragili, “fra caelo et terra”,
come ragazzi frenetici,
pronti a voltare pagine
inciampate,
nella corsa zoppa del secolo
*****
da Collezione privata
mi chiedo:
in quale fermata ti sarai fermata,
in quale sezione del giorno sarai sparita.
se sono ancora appeso al tuo fazzoletto
spiegato,
a sventolare.
accade allora di vederti sul divano,
oggetto tra gli oggetti della casa.
proiettata verso spazi interni
a grattare solitudini interiori.
poi, ti mordi un labbro, silenziosa
strappi la crosta del pane come se fosse
pelle e non vedi carrellare le nostre figure,
addestrate ad andare lontano, a segnare
tutto il confine.
*****
in casa le cose attendono, fluttuano.
dalla mia vita tu entri ed esci,
intermittenza lontana.
lontana la polvere, in posa su cose
che chiacchierano di come al buio
eravamo persi nelle stazioni desolate
(delle nostre taciturne partecipazioni).
lontana la luce nel soggiorno,
lontani i nostri reduci frammenti
spauriti, che nuotano verso terra.
non c’è ragione di restare
incollati al pavimento,
come anni indistinguibili:
fuori l’alba ha un colore
morbido, accogliente.
*****
da Consuntivazioni (interni)
ora che non penso. che tutto è lasciato al caso.
che il corpo non vibra al rumore della strada,
dei piani inferiori, superiori, delle sezioni.
che tutto è singolo. che tutto capita, sotterraneo.
ora che non ti vedo. che non vi vedo.
che l’opera sfalda, sborda davanti, dietro.
che l’appartamento si divide, i mobili si dimettono.
che ogni cosa è seduta, da rimontare, rinominare.
la musica cade a caso, come la pioggia:
sottile, fitta, sporca e dove cade fa una pozza.
ora che fuori il portone, il nome è cancellato,
tua madre come se nulla fosse, sembra salutare
le giornate s’ allungano, neutre, come bisce sull’asfalto.
*****
è di questo che ti volevo parlare:
di come il tempo serri le fila,
cataloghi i tempi morti,
li metta ad essiccare sul davanzale
materno, mentre tu stendi memorie
ad asciugare e bambini
lievitano come soli estivi,
allargati sul bagnasciuga. e sentire
gli anni, sentirli tutti:
il fruscio, il salto più in basso,
la voce rauca che scèma,
chi trema dietro la porta
e che importa se tutto tace,
quando viene sera
e il sole affoga
e nessuno accorre.
Se dovessimo cedere alla suggestione del titolo di questo libro dovremmo chiederci di quali giorni manomessi si parla. In questa manomissione, in cui ci si immaginano ingranaggi che saltano o producono effetti inaspettati, c'è il presupposto che prima un ordine regnasse sovrano, regolando i giorni. O almeno vi regnasse un disordine feroce eppure leggibile. Ma il mondo, come sappiamo, non è più né volontà né rappresentazione, ma semmai qualcosa che "avviene", qualcosa di complessivamente incomprensibile e disordinato, al punto tale che non solo la filosofia ma anche le arti si limitano a congelare, fermandoli nel tempo, solo frammenti, schegge, suggestioni sociologiche, nella speranza di riuscire prima o poi a ricomporre un'immagine latente. Il pensiero è debole, il tempo presente è sempre post-qualcosa, il futuro incerto e relativo. Ma la poesia, in quanto arte stupendamente inutile, non cessa di sublimare il mondo attraverso la vita di chi scrive. In questa considerazione di fondo sta la ratio della sostanziale duplicità del lavoro di Ceccarini. Se il substrato è sempre comunque privato, le due grandi aree in cui si divide idealmente il libro sono contraddistinte da un prima e un dopo, da un ieri e un oggi, da una Storia a cui ci si rivolge quasi con nostalgia e con umiltà e da altre storie rispetto alle quali l'autore si pone come spartiacque. Di là c'è l'eco del dolore e della tragedia della guerra, di qua c'è il disagio e il dramma indubitabilmente minore ma non irrilevante del quotidiano e delle sue contaminazioni. In queste situazioni che, seppure con i distinguo d'obbligo, sembrano in qualche modo assomigliarsi, Ceccarini cerca delle risposte o delle ragioni, si interroga se esista una “resistenza” ancora percorribile, attraverso un libro fitto, tematicamente variato ma "offerto", generoso e, per quanto banale possa essere il dirlo, ampiamente giustificato nelle sue motivazioni di scrittura.
Perchè intanto Roberto scopre e descrive qui una "genealogia", e con essa una ragione per dire, che è molto più di quanto tanti possano vantare. Una vicenda privata che attraverso il sangue, quello versato e quello trasmesso, interseca la Storia, ne discende, e riemerge. In questa prima sezione, "La guerra sparita", non si tratta solo della necessità di consegnare alla scrittura un fatto che tocca l'autore parentalmente (ovvero la vicenda, peraltro trattata con molto pudore, del padre che fu partigiano) e che per questo potrebbe apparire un debito da pagare alla memoria. Ma anche di fare di questo evento un emblema e un simbolo di qualcosa che poi, inevitabilmente, preconizza altre sparizioni, o sconfitte, lanciando un'ombra sul futuro, ovvero su questo presente, su quest'altro versante del libro. In quei giorni tragici la manomissione era anche, letteralmente, metterci le mani, sporcarsele con “un lavoro / tragicamente a cottimo”, prendersi una bella fetta di responsabilità, interrogarsi “con una freddezza / scritta col cuore”, affrontare “l’ora delle scelte difficili: / quella dei denti addentati alle giacche”. In questo non c’è tuttavia compiacimento, non c’è un “padre totemico”, come ebbe a dire un critico a proposito di “Guerra” di Franco Buffoni, in cui individuava, come connotati del “nuovo” deleterio minimalismo, un transfert di esperienza, un impadronirsi da parte del poeta del vissuto di un altro. Intanto perché il dato biografico è qui un “a priori” che conosciamo, un’occasione di cui potremmo tranquillamente dimenticarci, tanto essa è posta pudicamente sullo sfondo. E poi anche perché questo dato è correttamente spersonalizzato, in questi testi si parla spesso di “noi” (un “noi” in cui l’autore empaticamente si comprende, di cui si fa portavoce ma che appartiene alla storia) o di un “tu” che però è quello che si dà ai morti quando visitiamo le loro tombe, impastato di rimpianto e amarezza. Non c’è, in altre parole, appropriazione indebita. del vissuto. C’è viceversa una specie di spoliazione, di notevole resa stilistica, dell’io dell’autore al servizio della materia poetica.
In quei giorni, dice Ceccarini, “ci scordavamo che avevamo / vent’anni e un mondo da tornare / a vestire quando avremmo potuto”. C’erano in altre parole, al di là della morte di molti, una speranza e un domani, verso cui incamminarsi, quando avremmo potuto, “come parole nuove…come ragazzi frenetici, / pronti a voltare pagine / inciampate, / nella corsa zoppa del secolo”, un mondo da ridisegnare, da riprendere sulle proprie spalle. C’era insomma una seppur tragica chiarezza, una leggibilità, come dicevo all’inizio, delle scelte da fare. Visto dalla prospettiva odierna, dalla prospettiva di chi come Ceccarini ha trovato nella riscoperta di un passato che in qualche modo è suo una modalità per ripensare anche il presente, questo investimento di sangue e di speranza risulta essere drammaticamente deficitario. Perché la guerra è scomparsa in quanto non solo ha patito la manomissione della memoria (quella memoria a cui richiama l’epigrafe di Santayana) ma anche quella della delusione o disillusione, la sconfitta alla distanza di una lotta che era scommessa sul futuro.
Qui si giunge all’oggi. Un quotidiano antieroico, l’appiattimento dei giorni in conflitti esistenziali di cui non abbiamo tutte le chiavi di lettura, la presenza impalpabile di un “nemico” di cui non riusciamo a definire le sembianze. Nel salto di potenziale tra passato e presente sembra impossibile, credo, che Ceccarini non stabilisca un confronto impietoso, si ponga cioè una domanda per lui capitale. Ovvero, com’è che quei giorni manomessi, in cui il provvisorio era prodromo di una svolta, si sono trasformati in questi, in cui l’incertezza sembra infinita? E anche: nella nostra modesta “resistenza” alla corrente di tutti i giorni, al flusso che determina le nostre vite, che possiamo fare? Poetica del provvisorio, dirà qualcuno, e a volte sembra esistere la difficoltà di sfuggire ad essa, a quanto sembra ormai un topos radicato nell’oggi poetico. Può essere altrimenti? Nel confronto impietoso di cui dicevo risalta infatti anche un dato indiscutibile, e cioè il radicale spostamento dell’esperienza dell’uomo moderno da un piano di concretezza, anche tragica, in cui la lotta aveva un ruolo essenziale e plausibilmente manicheo (bene / male) ad uno di lacerazione psicologica, un terrain vague instabile da cui appare arduo uscire. O peggio, la percezione di una banalità del “normale” (“una mattina qualunque / di un’esistenza qualunque”), di una pace regalata di cui a volte non comprendiamo la reale portata, dispersa com’è in gesti, coazioni, ripetizioni, circoli viziosi, tanto che il poeta la sente come “questa pace statica di oggetti trascurati”. Se l’impossibilità di trovare risposte a quelle domande, di capitalizzare questa “normalità”, innesca il circolo vizioso del provvisorio, Ceccarini vuole almeno vivere con qualche consapevolezza questa medietas con cui tutti noi conviviamo, misurare per quanto possibile il mondo, organizzarlo quel tanto che basta a renderlo percorribile, identificare “nel vuoto provvisorio di giorni manomessi” uno spazio o un territorio, fisico o mentale, dentro o fuori di noi.
E perciò anche in queste sezioni del libro che compongono l’area tematica che abbiamo definito “dell’oggi”, la dimensione di Ceccarini sembra avere due versanti principali: uno esterno, rivolto al mondo e all’osservazione di certi rituali (“Esterni”, “Liturgiae”), l’altro interno (“Collezione privata”,”Consuntivazioni”), che è più dell’io e del noi, del dentro e del privato, nel quale si traggono consuntivi cui la vita ci costringe a far fronte. Il mondo a cui allude Ceccarini è, in un certo senso, davvero esterno, per quanto possa esserlo un ambiente da indagare poeticamente: intanto c’è subito, forte, un’opposizione anche etica dell’io, come se l’osservazione rendesse necessaria una distanza adeguata; e questa distanza è rafforzata da alcuni segnali semantici inconfondibili, a cui l’io (o il noi) si contrappone: si parla di “quelli” che manovrano luci sotterranee, di lavoro degli “altri” presi in una serie di attività omologate, di un paesaggio altero segnato da “discariche di nomi e cognomi” (e cioè da perdita di senso e/o identità), un ambiente in qualche modo grigio, battuto dalla pioggia come una scena di “Blade runner” (“milioni di freccette di pioggia”), in cui persone affette da una compulsiva indifferenza sostano “nella campana notturna, a fecondare” o “si spostano come mandrie / da un luogo all’altro”. Sempre, in questi testi, il soggetto poetico (l’io, il noi, Ceccarini) reagisce con un suo peculiare modello di resistenza in questa contrapposizione di cui dicevamo, interpretativa del reale, ma anche assertiva di una identità a volte perplessa, a volte impotente (“io non ho testa per pensare né per ispezionare / tutti i santi suoni”), a volte con la mente cautelativamente all’indietro, come ogni corridore che getta lo sguardo alle spalle per controllare l’avversario (“ora il passo aumenta, [...] ,si lascia dietro storie”, o ancora “questo è il dolore: / percepire il mondo all’indietro”), ma che sempre il poeta dichiara orgogliosamente sua.
Sul versante privato, quello di “Consuntivazioni” e di “Collezione”, si esercita la vena più lirica di Roberto e anche, a mio avviso, la migliore, ad esempio in belle poesie come “ora che non penso…” e “in casa le cose attendono…”. Su questa sponda il poeta parla di sé uomo, magari su quell’indispensabile territorio del vivere che sono le relazioni affettive con gli altri individui, uomini o donne che siano. Certo, anche qui le cose non sono facili, e certe difficoltà tendono a riproporre il privato come metafora del mondo di cui parlavamo, quello esterno, un’entità di “reduci frammenti” e di difficile lettura, in cui “tutto capita”, “l’opera sfalda”, “le giornate si allungano neutre”, in cui “dalla mia vita tu esci ed entri” e ogni cosa “è seduta, da rimontare, rinominare”. Una realtà la cui interpretazione è affidata al linguaggio, a quelle ali (poetiche suppongo) senza le quali ci si riduce “all’esercizio assordante del silenzio”, tramite l’espressione di un verso per lo più lungo, a tratti prosastico e colloquiale, a volte un po’ teso alla ricerca dell’immagine “giusta”, spesso capace di felici intuizioni poetiche (“il nostro star fermo nelle domeniche / … / vedere tutto il cenare d’occhi scettici / nella curva del caffè…” o anche tutta la chiusa di “è di questo che ti volevo parlare…”). E se questo mondo è complesso, doloroso, difficile, è proprio la lingua della poesia a dare un nome alle cose, rimontandole, con un atto di speranza e di fiducia che i giorni manomessi non siano infiniti. E là dove essa non arriva, Roberto getta almeno lo sguardo di chi alza la testa e osserva fiducioso che “l’alba ha un colore / morbido, accogliente”. Che sembra tanto la speranza di una illuminazione.
Giacomo Cerrai