Inizia oggi, con l'articolo dedicato a Scipione (Gino Bonichi 1904-1933) il percorso di Francesco De Girolamo attraverso la cosiddetta "scuola poetica romana", un progetto che mi sembrava interessante intraprendere e che Francesco ha accolto con entusiasmo, assumendosene l'onere non indifferente. Il percorso, che parte appunto da Scipione e arriverà, salvo intoppi, ai giorni nostri, avrà una cadenza irregolare, per ragioni legate ovviamente alla disponibilità di tempo di chi ci si impegna in prima persona per pura passione. Di questo ringrazio fin da adesso De Girolamo. Vorrei solo aggiungere che la scuola romana è stata anche una straordinaria esperienza nel campo delle arti figurative, spesso strettamente intrecciata con quella letteraria, sia per le frequentazioni (Ungaretti, Bontempelli, Cardarelli e altri), sia per i protagonisti, che a volte spaziavano in diversi ambiti artistici. L'illustrazione qui accanto, appunto l'autoritratto di Scipione (1928), ne è un esempio.
Percorsi nella Poesia Romana: Gino Bonichi, detto Scipione
Non era neanche veramente romano, Gino Bonichi, figura tanto “sommessamente” fondamentale nella linea poetica capitolina, che prendeva le mosse proprio negli anni della sua brevissima (e tanto avversata dalla malattia) giovinezza, gli anni trenta, quando Aldo Palazzeschi (alias Aldo Giurlani), ormai uomo di mezza età, aveva già attraversato ed abbandonato le esperienze letterarie cruciali della sua formazione di inizio secolo, il crepuscolarismo ed il futurismo. Ma Scipione era troppo giovane per quei due appuntamenti tanto emblematicamente contrastanti e complementari della poesia italiana di quella irripetibile fase storica. Era nato a Macerata nel 1904; ed aveva cominciato, giovanissimo, a dipingere, rivelando la sua vicinanza, marcata, ma rivissuta con personalissimo tocco, con gli espressionisti tedeschi. Trasferitosi a Roma nel 1929, frequentò gli artisti e i letterati romani, con alcuni dei quali strinse fraterna amicizia, prima di finire in Sanatorio, nel 1931, ad Arco, in Trentino, dove morì nel 1933. Ebbe il tempo di lasciare un’embrionale raccolta poetica, in parte pubblicata in vita da Angioletti sulla “Fiera letteraria”; poi raccolta in un’antologia organica da Enrico Falqui, che la fece pubblicare, parzialmente, nel 1938 con il titolo “Le civette gridano”, e nella sua interezza nel 1942, nel volume “Carte segrete”, con una sua prefazione, in cui di lui diceva: “Una vita a capofitto. Un’arte che fece presto a serrarsi nella sua pungente perfezione.”
Tutto, nei suoi versi, appare, infatti, febbrile, “furibondo”, come bruciato dalla fretta di afferrare ed esprimere un segreto senso delle cose che, forse, il presagio della fine imminente rendeva tanto urgente da dire, da comunicare, con quel suo timbro tenero e oracolare, ad un tempo, quella sua timida ansia di rivelazione che annuncia la sua scoperta, personale, del mistero sfuggente della bellezza. Ecco un esempio, per me, quanto mai folgorante:
“Sento gli strilli degli angioli
che vogliono la mia salvezza,
ma la saliva è dolce
e il sangue corre a peccare.
L’aria è ferma,
tutto è rosa come la carne;
se pervade beatitudine
bisogna rompere e cadere.
Il sole entra nel mio petto
come in una canestra
e io mi sento voto.
La mano si stacca da terra,
tocca l’aria, la luce, la carne.
La lancia si sprofonda nelle reni della cavalla
che corre – e urla con la testa nel cielo.”
(da “Carte segrete”. Ed. Vallecchi – Firenze, 1942 )
Per questi primi testi, Enrico Falqui parla di versi in cui non è difficile rintracciare “lo scheggiato ‘soggetto’ di quadri più tardi eseguiti o dalla morte sottratti”.
In una lettera al suo amico critico, poi curatore delle sue opere postume, scritta dal sanatorio di Arco, Scipione stesso scriveva:
“Il mio occhio diventa limpido come il cielo, lo vedo schiarire ogni giorno, e cadere quei veli che lo allontanano. Mi sveglio con le montagne davanti a me illuminate dal sole ed esse accendono il mio cuore che s’era addormentato con me nella notte. Non so da che dipenda, ma io ringrazio Dio di questo dono. – Tutto il parco che c’è davanti alle verande si è tramutato in un’immensa uccelliera e l’aria è dolce e profumata.”
Pietro Bigongiari parla, per Scipione, di “reviviscenza dell’ardore campaniano, […] coacervo di parole da accendere in musica, la poesia, per spezzare l’incantesimo del sogno con la luce che l’essere sprigiona nel suo bruciare.”
Sentite, a tal proposito, questo “Coro d’estate”, (ancora da “Carte segrete”):
“Io sono la voce dell’albero che cade,
la mia corteccia sarà accarezzata
quando si vedrà che dentro sono bianco.
Le mia radici sono d’avorio e sono
Nascoste – la terra fina le ricopre,
il mio corpo è rotondo,
l’aria sola mi toccava.
Gli uccelli hanno nidificato nei miei rami,
i loro occhi vedevano tutte le mie braccia,
le foglie li nascondevano.
Sotto di me l’uomo si è riposato.
Io sono la voce del fanciullo,
le mie ossa sono tenere e possono cadere
e non si romperanno.
Le mie gambe corrono, i miei piedi
non lasciano impronta,
il timbro della mia voce somiglia
alla campana del mattino,
al bronzo leggero.”
Un giovanissimo Alfonso Gatto su “Il Bargello”, nel maggio 1938, all’uscita di “Le civette gridano”, considerava, in un suo articolo-recensione: “E’ stato detto, e forse può sembrare ovvio, che queste poesie non vanno giudicate in sé sole, ma in relazione a tutta l’opera espressa e appuntata dal pittore, quasi tracce di quadri che Scipione non ebbe il tempo di iniziare, di disegni non tentati, immagini ed illusioni di un creato lasciato deserto dal suo unico abitatore. […] Di questo, proprio, Scipione aveva bisogno per ricostruire in disegni, e non in schemi, il suo creato puro… Questo significano e significheranno sempre le poesie di Scipione, che accentrò in sé forze avverse e propizie per provarne sgomento e solitudine, per liberare profili analitici e liberi di attenzione forte come un rimorso.”
Come subordinare, allora, quasi propedeuticamente, la poesia di Scipione alla sua attività di pittore, e non vedere, invece, una prodigiosa vena lirica autonoma, di straziante cantore di una fugacità ineluttabile, feroce, di una rapinosa sensualità cosmica, di un panteismo stupefatto, di una cifra personalissima, lievemente tardo-crepuscolare, esente, però, da qualsiasi epigonismo, cui restituire, finalmente, una sua salda centralità nell’evoluzione di questa linea romana che troverà poi voci, forse, più scaltre e consapevoli, ma non necessariamente altrettanto essenziali, nel susseguirsi dei decenni della nostra storia letteraria?
Basterebbe, forse, per fugare ogni dubbio, una sua poesia tanto avulsa da ogni influenza passata, e forse più estrema nel vigore di un’ansia , di un impulso di innovazione, di libertà stilistica, coerentemente con la sua ansia esistenziale e metafisica, di quella dei primi poeti ermetici, quasi suoi coevi:
“Il giorno è andato lontano”
Il giorno è andato lontano
e io mi sento un uomo di grande statura:
non c’è ombra attorno al mio corpo,
io vedo i monti, io sento il fiume.
I colori si sono spenti,
le radici degli alberi frugano la terra.
Nel mondo opaco i desideri prendono corpo,
i rospi si strofinano contro la corteccia dei grossi tronchi
la terra ha tutti nascondigli,
gli scarabei ronzano nell’aria.
Se una femmina cantasse…
Gli odori colpiscono le narici,
le mani s’alzano a cercare
per toccare le cose create:
la pietra è fredda – la carne è calda
e trascina intorno un fiato
che confonde la terra con il cielo.
Dio, poni il tuo braccio sopra la mia testa
E fa’ che io veda il giorno di domani.
(“Carte segrete” -Vallecchi, 1942)
Non aveva che ventinove anni, Gino Bonichi, detto Scipione, quando la tubercolosi lo stroncò. Le sue opere figurative, quantitativamente più cospicue, gli attirarono una notevole attenzione critica;
quelle poetiche, sulle prime, soltanto quella del suo amico Enrico Falqui, e di pochi altri critici che videro nei suoi testi la traccia di una personalità letteraria, comunque, compiuta e significativa.
Poi, l’oblio è nuovamente sceso sulla sua poesia, tanto estranea agli schemi del successivo sviluppo della nostra poesia novecentesca, del secondo dopoguerra, dei movimenti, delle correnti, dei filoni, dei vari “ismi” che via via si andavano diffondendo ed affermando, e del loro corredo teorico, e talvolta ideologico. Teorie e ideologie troppo lontane dall’orizzonte di quel gracile, smarrito pittore-poeta in erba, inurbato per spensierata curiosità di apprendista, che sentiva chiaramente “gli strilli degli angioli”; le cui povere ossa di fanciullo “erano tenere”; e il cui timbro di voce somigliava così tanto “alla campana del mattino / al bronzo leggero.”
Francesco De Girolamo