È bene, però, mettere a fuoco, in antitesi alla leggerezza e alla limpidezza - apparentemente lievi e sottilmente ironiche, in realtà aride, disimpegnate, se non fatue - di certo neoilluminismo e di certa ars combinatoria tardonovecenteschi e postmoderni, lo spazio estetico ed espressivo di una grazia estetico-teologica aperta al mysterium tremendum, lacerata dalle ferite profonde dell'arcano e dell'assurdo, affetta e perturbata dai bagliori oscuri dell'alterità, dell'ignoto, dell'indicibile.
Leggera è l’anima che va incontro a Dio, come lieve è la danza sapiente, la forma saggiamente modellata, l’arte che riflette il genio della natura, i modelli imperituri, le nitide e serene tracce intellettuali, le immagini profonde e insieme limpide (si pensi al Valéry di L'âme et la danse, o al Rilke delle Elegie di Duino) celate sotto la superficie della realtà e delle cose.
E la “grazia” che domina la musica e la danza, che fa scorrere (si pensi a Foscolo) la melodia e l’armonia nel moto delle membra, nella scansione del respiro, nel fluire del sangue, è via di approssimazione, di adaequatio ai cori angelici, agli “eterni giri” dell’universo, al moto delle sfere e degli astri - ai taciti accordi della “musica mundana”, dell’armonioso logos che permea e domina il cosmo.
Ma la grazia può avere anche un volto meno luminoso, meno nitido e ridente, e, anzi, oscuro e perturbante. Essa può assumere la forma della nullificazione, dell’annientamento, dell’avvicinamento al dominio oscuro, alle regioni imperscrutabili di una trascendenza che coincide con il vuoto, con la negazione, con la morte. La grazia della musica sconfinerà allora nel silenzio, quella del corpo e della danza nella disgregazione e nel disfacimento, e quella della parola poetica finirà per infrangersi e disperdersi, come un cristallo prezioso e vano, contro il muro impassibile di ciò che non può essere detto, o che non ha più senso o valore dire.
Si è accennato al Settecento come secolo, in campo estetico, della grazia : eppure, esso non è solo l’epoca di Rameau e di Fragonard, ma anche quella di Sade, che riversa nel suo solitario, frenetico ed insensato (ma pur così rigorosamente consapevole e programmatico) furor scriptorius un pervicace amore del Nulla e del Male, una sensualità feroce ed interdetta, una crudeltà amorosa e disperata; e quella del Diderot di Jacques le Fataliste, che raccoglie e condensa, nell’ilarotragico enigma della bara vuota, la percezione lucida, ferma, beffardamente ridente, del nulla e del vuoto che nessuna levità, nessun diletto, nessuna mondana saggezza sono in grado di rimuovere e di esorcizzare alla radice.
Nei meandri tortuosi, nelle enigmatiche e sfaccettate sfumature della riflessione teologica, la grazia, la charis appare da un lato come la gioiosa illuminazione, la inondante ed entusiasmante pienezza della fruitio Dei, del contatto totalizzante, pervasivo, quasi intimo, con il divino e il trascendente; dall’altro, e proprio per questo, essa reca con sé anche lo sgomento terribile e nientificante del numinoso, l’angoscia che attanaglia e sconvolge la fragile finitudine della creatura nel momento in cui entra in qualche modo in contatto con l’assoluto, l’infinito, l’eterno - con l’abissale, smisurata alterità di Ciò che “nessuno può vedere e restare vivo”.
La grazia divina è, così, ambiguamente, oscuramente legata all’idea della nullificazione, dell’estenuazione, dello svuotamento: la charis (ben lo vedeva Paolo nella lettera ai Filippesi) non può andare scissa dalla kenosis, da un impoverimento, una umiliazione, una morte sacrificale, una estrema rinuncia a se stessi che avvicinano, nel segno della sofferenza, della mortificazione, della oblatio, la creatura al creatore, l’uomo nullificato dalla sofferenza e dalla morte alla gloria umile e mansueta del Dio-uomo che va incontro alla morte, ce cade volutamente e consapevolmente vittima (come insegnava quella teologia protestante da cui sorge Nietzsche) di una fatale e necessaria “misericordiosa uccisione”.
Come si legge nell’Imitatio Christi, la Grazia – in ciò decisamente contrapposta alla Natura che, con la sua feroce sensualità, il suo irriducibile istinto di appagamento, di soddisfacimento, di autoconservazione, “invite vult mori” – “studet mortificationi propriae”. La grazia è annullamento, annichilimento, mortificazione in senso etimologico: presuppone che la creatura “muoia al mondo” per rinascere in spirito, si sottoponga all’estrema e totale nullificatio della morte abdicando alla propria esistenza finita per attingere così una sfera superiore, ancorché avvolta dal mistero.
La Grazia, la Bellezza turbano, sconvolgono la percezione e il pensiero, sovrastano e soggiogano l’individuo fino ad annullarlo.
La Grazia, osserva Bonaventura, ha tra i suoi effetti proprio quello di “inclinare animum”, di piegare ed ammansire lo spirito e la mente, suscitando un salutare “divinus timor” (Coll. In Hex., III, 6) – qualcosa di simile al sacro terrore che coglie l’uomo posto di fronte al numinoso, alla ierofania, alla manifestazione intensissima, per quanto balenante e subitanea, del mysterium tremendum. Anche il razionalista Tommaso deve ammettere che la Grazia agisce ed opera, in parte, “supra facultatem naturae, et supra meritum personae” (Summa Theol., I, 2, 111, 1).
Una visione, questa, che si trova, diversamente declinata, nella mistica: basti pensare al secondo sermone di Eckhart, dedicato alla “prossimità del Regno” proclamata dal terzo vangelo, e pervaso dalla consapevolezza che, per avvicinarsi all’Essere sommo ed assoluto, che trascende e nega ogni delimitazione spaziale e temporale, la creatura deve riconoscere se stessa come nulla, deve fare vuoto e silenzio in se stessa per accogliere e far risuonare la pienezza dell’alterità – la voce pura e rarefatta, ma viva e tremenda, della trascendenza.
L’essere finito e quello assoluto si incontrano sub specie aeternitatis e insieme nihilitatis, sul piano dell’eternità come del nulla, cioè nelle regioni vastissime, nelle sconfinate aperture del nihil aeternum, nel terreno e nello spazio di un “Infini-Rien” (come lo chiameranno Pascal e Leopardi) in cui non è più possibile distinguere Essere e Nulla, pienezza e vacuo, concentrazione e autorispecchiamento del pensiero (o meglio di un “pensiero di pensiero”, di una Selbstbewusstsein strenuamente ripiegati e raccolti su se stessi) e annullamento della coscienza, assottigliamento o dissoluzione del principium individuationis.
Appunto sul terreno della lontananza, della “gettatezza”, della distanza, della differenza ontologica (e della conseguente libertà che è propria della creatura e della coscienza, e che le presuppone), la Grazia (appaia essa nella forma dell’”ispirazione”, del platonico enthousiasmós, del ciceroniano “quidam divinus spiritus”, del puro ed originario “respiro” artistico o mistico, nella veste già data e necessaria della bellezza del mondo o della verità rivelata o, invece, in quella mediata, meditata, sottilmente intessuta, del pensiero riflesso) può in certo modo farsi umana, conciliarsi con la determinazione, la consapevolezza, la libera compartecipazione, della creatura.
La libertà umana è, del resto (come intuiva Schelling e come mostrarono gli esistenzialisti), “fondata sul nulla”, basata, paradossalmente, proprio su un’assenza di fondamento, ancorata alla superficie o all’orlo, impalpabili e bui, di un abisso.
Erede dotto e consapevole dei simbolisti francesi, compagno di strada, forse troppo ignorato, degli ermetici, Arturo Onofri si interrogava, nelle pagine teoriche lucide ed appassionate, potenti e melodiose, anzi nel vero e proprio “poema critico”, nel “piccolo epos teoretico”, di Nuovo rinascimento come arte dell’io, sulla natura e sull’essenza del verbe poétique, del quale già Rimbaud e Mallarmé avevano esplorato sensi, riflessi, risonanze: una illuminata, arcanamente armoniosa, “parola d’uomo” che doveva divenire “l’immagine più alta del Verbo divino”, un “Verbo creatore” tutto raccolto su se stesso, ripiegato sulla propria stessa purezza, sulla propria stessa primigenia assolutezza, e che accolga ed abbracci, nelle sue pieghe segrete e nelle sue racchiuse risonanze, le curve sinuose e labirintiche, i ritorti meandri, le oscure cavità, della Natura e del cosmo.
Anche in questa sua forma (o trasfigurazione) poetica, verbale e musicale insieme, la Grazia abbraccia Essere e Nulla, morte ineluttabile e ciclica, inesauribile rinascita, tutti uniti e scanditi (come dice una lirica delle Trombe d’argento) da un universale e solidale “ritmo di morte e di destino”. Il corpo destinato a morire e risorgere è, fin dall’inizio, “già cielo”, già toccato e predestinato dalla grazia – dal “ciclo”, si legge in Suoni del Graal, “d’una grazia una e plenaria”.
“Sei nata grazia dolce, semichiusa / in vaste curve d’oro in movimento, / per poterne affiorare: angelo, musa”, canta il poeta in Zolla ritorna cosmo. Ma la parola poetica, nel momento stesso in cui esprime o presagisce l’afflato, il fluido, l’effluvio, l’ineffabile tocco (il “tactus virtualis” direbbe un teologo) della Grazia, in pari tempo scorpora, smaterializza, disincarna la realtà e l’esperienza, avvicinandoli allo statuto ontologico di una musicale, incantatoria nullità, al mallarmeano “creux néant musicien”. “Inconsistenza labile di fiori / è il tuo magico volto, che traspare / d’una luce d’arcangelo, in colori / temperati da un’estasi lunare”.
Viene in mente il primo Luzi, decorativo, allusivo, araldico, di Avorio: “La sua voce nell’aria era una roccia / deserta e incolmabile di fiori” (fiori che sono, evidentemente, morti alla natura e alla vita, vivi solo nell’idealizzazione verbale, quasi come le mallarmeane “fleurs absentes de tout bouquet”).
Nella stessa raccolta, Avvento notturno, si trova una poesia che (come ha notato Barberi Squarotti) nel titolo, Se musica è la donna amata, riprende, trasformando l’aggettivo in sostantivo, un’espressione del Cortegiano di Baldassarre Castiglione, e nella quale la realtà è, ancora una volta, scorporata e stemperata dal dire poetico, fin quasi a dissolversi in un nulla di immagini labili, di parole melodiose, pur se appena sussurrate: “E tu continua e perditi, mia vita, / per le rosse città dei cani afosi / convessi sopra i fiumi arsi dal vento”.
Ed è interessante rileggere le pagine or ora richiamate del quarto libro del Cortegiano (opera su cui, tra l’altro, si sofferma ampiamente, nel libro Un’illusione platonica, anche il Luzi critico), tutte pervase dalla visione, tipica del platonismo rinascimentale, dell’amore come sublime e idealizzata passione intellettuale, che eleva l’anima oltre i confini della materia e del senso.
L’amante, scrive Castiglione, “rimovasi adunque dal cieco giudicio del senso e godasi con gli occhi quello splendore, quella grazia, quelle faville amorose, i risi, i modi e tutti gli altri piacevoli ornamenti della bellezza; medesimamente con l'audito la suavità della voce, il concento delle parole, l'armonia della musica (se musica è la donna amata); e cosí pascerà di dolcissimo cibo l'anima”.
Ma anche questo amore intellettuale e idealizzato, questa quasi celeste e sovrumana “grazia” diviene (sempre in accordo con la visione platonica) meditatio mortis, anticipazione della morte, separazione dell’anima dal corpo, naufragio del pensiero e dello spirito nelle tenebre del mistero: “Il bascio si po piú presto dir congiungimento d'anima che di corpo, perché in quella ha tanta forza che la tira a sé e quasi la separa dal corpo”. È una grazia inquietante, ombrosa, dolceamara, segretamente e sottilmente intrisa di morte.
Analogamente, il platonismo verbale e stilistico sotteso alle poetiche simboliste ed ermetiche si apre ad una grazia perpetuamente insidiata dalle tenebre del nulla, dalla possibilità (infine sempre realizzata, e tutt’al più procrastinata) dell’annientamento, della perdita, della dissipazione – o, forse, del sacrificale incenerimento sugli altari della bellezza eterna.
“Né più / Le grazie acerbe andrà nudando / E forme favolose esalterà / Folle la fantasia”, dice Ungaretti in Ricordo d’Affrica, emblematicamente collocato, entro il meditato disegno di Sentimento del tempo, a brevissima distanza, e quasi a farvi da preludio, dall’Inno alla morte (“Immemore sorella, morte, / L’uguale mi farai del sogno / baciandomi”: ove la trasparente suggestione francescana si sposa ad una imagery funeraria fra neoplatonica e barocca).
E Quasimodo canta la “grazia amara del viver senza foce”, di una vicenda esistenziale (direbbe Heidegger) sempre proiettata e protesa verso l’Aperto, gettata nella “radura dell’Essere” che lascia inaccessa ed inviolata, in lontananza, la selva tenebrosa del mistero e dell’origine (e, si noti, anche in Heidegger questo sospeso ed irrisolto dimorare in prossimità dell’Essere è Huld, Grazia, pur se intrisa di angoscia, di Cura, di profonda e sofferta tragedia conoscitiva). “E ancora sono il prodigo che ascolta / dal silenzio il suo nome, / quando chiamano i morti. // Ed è morte / uno spazio nel cuore”. La kenosis è ferita profonda ed insanabile, iato incolmabile, lacuna (béance direbbe Lacan) scavata fino all’abisso del fondamento.
“La nostra anima è morte / interna, e solitudine infinita”, si legge appunto – tornando ad Onofri – in Suoni del Graal. Ma proprio e soltanto attraverso questa mortificatio è possibile trascendere, platonicamente, la pesantezza della “terrestrità”.
Il poeta canta “il dolcissimo viso della Grazia / che si promise in sillabe di canto / al mio cercarla in tenebre soltanto”. Come lungo la via tenebrarum, attraverso la noche oscura della mistica negativa, sono le tenebre del nulla, in qualche modo diradate o purificate dalla melodia della parola poetica, a dischiudere la possibile, forse solo virtuale, visione della grazia.
Del resto, già una lunga tradizione mistica, dal Medioevo al Barocco, trovava la Grazia nel Nulla, la luce gloriosa nella caligine dell’accecamento. “Questo celo è fabrecato, / enn un nichil è fundato”, dice Jacopone. “O glorïoso stare en nihil quïetato / lo ‘ntelletto pusato e l’affetto dormire”. E nel Seicento Pier Matteo Petrucci, vescovo in odore di eresia, illustrava i Mistici enigmi, identificando lo stato mistico indotto dalla “divina Grazia” con una “caligine spirituale” in cui dimora, segretamente avvolta, una “luce di verità mirabile”. “Dov’è ‘l mio vacuo, ivi è la mia pienezza: / Nel Tutto ho nulla, e in un gran Nulla ho Dio”.
Forse proprio in Jacopone affonda le proprie radici una linea della mistica poetica novecentesca (almeno italiana) antitetica a quella rarefatta, vagamente evocativa, simbolista ed ermetica, a cui si è fatto sopra riferimento.
Così, il vecchio Rebora canterà la carnale, atroce “Grazia di patir, morire oscuro, / polverizzato nell’amor di Cristo”; lo Sbarbaro di Pianissimo la grazia della Terra-Madre, datrice di vita e insieme ricettacolo di morte, umido e quieto repositorio di spoglie, alveo e tramite della ciclicità di disfacimento e rinascita che abbraccia il creato; e il Luzi maturo di Nell’opera del mondo, superate (ma non rinnegate) le idealizzazioni e le rarefazioni della stagione ermetica, si abbandonerà alla pura gioia dell’esserci, alla pienezza di un ritrovato contatto con la realtà e la vita, con le cose e l’umano, con l’evidenza quasi fenomenologica degli enti e dell’Erlebnis: “sia grazia essere qui, / grazia anche l’implorare a mani giunte, / stare a labbra serrate, ad occhi bassi / come chi aspetta la sentenza. / Sia grazia essere qui, / nel giusto della vita, / nell’opera del mondo. Sia così”.
Nell’orizzonte discontinuo, lacerato e franto della temporalità, dell’immanenza, del divenire storico, la Grazia non si dà che per bagliori, frammenti, illuminazioni gratuite ed imponderabili. “La Grazia” – scrive Pasolini nella Ricerca del relativo, un testo raccolto in appendice a Trasumanar e organizzar – “è negli Indizi / la Storia nelle Funzioni / nelle catalisi c’è la grazia impura e l’indecifrabilità della storia”. Così nel regno della poesia come in quello dell’accadere e del pensiero che intorno a quell’accadere indugia e indaga, la Grazia si sottrae, con i suoi lampi improvvisi ed oscuri, ad ogni prevedibilità, ad ogni calcolo, ad ogni precostituito schema ideologico, ad ogni metodologica pretesa di oggettività e razionalizzazione dogmatiche.
E, in Pasolini, la Grazia è Madre e insieme Morte, matrice oscura ed abissale da cui si proviene e a cui si è inesorabilmente destinati a tornare. Nelle Poesie incivili, che non a caso includono anche lo splendido Frammento alla morte, dominato appunto dalla circolarità di nascita e annullamento, luce e tenebre, vita e disfacimento, legati in eguale misura alla sorte e alla condizione dell’uomo (“Vengo da te e torno a te, / sentimento nato con la luce, col caldo, / battezzato quando il vagito era gioia”), e dal motivo evangelico e mistico della kenosis, dello svuotamento che prelude all’autentica pienezza (“svuotato, / eccoti lì, dentro di me, che empi / il mio tempo e i tempi”), Pasolini così si rivolge alla madre: “Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere: / è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia”. Come in Paolo di Tarso e in Kierkegaard, la percezione della nascita e della vita, la grazia primordiale ed ambigua del venire-alla-luce, dell’essere-nel-mondo, non sono scindibili dal nesso tragico di phobos e tromos, timore e tremore.
Era proprio il Pasolini critico di Descrizioni di descrizioni a dire, in uno scritto del '53, che "disegnare l'operazione poetica di Betocchi è fare il ritratto di una 'grazia'". Ma anche quella di Betocchi è, pur se in un'ottica cristiana, anzi espressamente cattolica (peraltro resa più complessa e problematica dall'irriducibile mistero della sofferenza innocente), una reboriana "grazia / di patire e morire oscuramente". La vera grazia è nell'istante concreto e transitorio dell'Erlebnis, dell'"esperienza vissuta" in cui però si declinano e si rivelano una sfera, un anelito superiori e perenni: "Momento eterno dell'essere / che ti stabilisci nell'attimo, / sei tu la mia grazia, decidi". Ma la soglia, la porta della grazia piena è, anche in Betocchi, lo svuotamento, l'umiliazione, la morte: "attendi, accetta d'esser colmo / del tuo nulla"; "annullati / per tornar vivo dove non sei / più te, ma l'altro che di te si nutra". Di fronte all'"opera comune" dell'essere e dell'umanità, noi siamo "nulla, l'abolito seme", "ex voto che favellano al mistero". Alla poetica della grazia è sotteso un paradossale e scandaloso, ma solo apparentemente assurdo e contraddittorio, nichilismo cristiano. E non è certo estranea, a questa visione, la cosmologia di Teilhard de Chardin, la tensione verso un Omega che realizzi, nella compiuta ed universale autocoscienza della Noosfera, la "pienezza dei tempi", la compiuta epifania dell'Uomo-Dio.
Già Baudelaire, del resto, intravedeva – sia pur negli abissi del cuore, nella morsa delle tenebre interiori – “un spectre fait de grâce et de splendeur” (Un fantôme), ed era tormentato (nell’assiduo, sadico travaglio della “conscience dans le Mal”, di una ossessiva autocoscienza morale ed intellettuale) da “Un phare ironique et infernal, / Flambeau des grâces sataniques”.
Proprio per questo, per questa terribilità della Grazia e della Bellezza, le quali possono arrivare (si ricordi ancora il Baudelaire dell’Hymne à la Beauté) a pretendere dai loro devoti una dedizione assoluta, pronta a spingersi fino all’estremo sacrificio, ad esse è forse meglio accostarsi con una sorta di giovanile, pagana inconsapevolezza: “gli sarà grazia e fortuna” (dice il Cardarelli di Adolescente, riecheggiato dal Montale di Falsetto) “il non averti cercata / e non sapere chi sei, e non poterti godere / con la sottile coscienza / che offende il / geloso Iddio”.
“Comment, sinon parmi d’oscures / Épouvantes, songer plus implacable encor / Et comme suppliant le dieu que le trésor / De votre grâce attend”, aveva scritto Mallarmé in Hérodiade: un riscontro, questo, che può suonare sorprendente, se si considera la distanza che divideva il limpido e severo classicismo rondesco da ogni forma di obscurisme, di arcanismo, di orfismo vagamente e volutamente arduo.
Il legame di Grazia e Coscienza (la violazione deliberata, accompagnata da una post-edenica “scientia boni ed mali”, della sacralità della bellezza – mentre, si ricorderà, gli amanti di Mimnermo potevano ancora beatamente cogliere i fiori della giovinezza “dagli dei non sapendo il bene, il male”) reca con sé la minaccia e il destino di un terribile castigo, di una inesorabile Ate. La vera grazia, la sola charis certa ed immune è data, forse, dal poter cogliere (in un orizzonte integralmente, radicalmente mondano, temporale, terreno) la grazia e la bellezza stesse senza rendersene conto fino in fondo, senza avere la perturbante e dolorosa consapevolezza della propria sacrilega infrazione.
Viceversa, Maria che riceve l’Annunciazione è checharitoméne (Lc 1, 26-38), invasa e colmata dalla Grazia e, nello stesso tempo, sconvolta, trasumanata, quasi dissolta nella sua umanità, dal contatto diretto, quasi carnale (pur se di una sovrumana e mistica “carne senza carne”), con il divino.
“Trasumanar significar per verba“ – dirà Dante al culmine dell’ascesa, di fronte alla visio Dei – “non si poria; però l’essemplo basti / a cui l’esperïenza grazia serba”. La grazia, dall’alto della sua infinita, preveggente saggezza, non si mostra e non si concede del tutto, non investe l’uomo e il linguaggio terreni con tutta l’intensità e tutto il fulgore di una grandezza e di una lucentezza da cui resterebbero annichiliti; essa si lascia solo intravedere o intuire per vestigia, tracce, segnacoli, riservando alla sfera oltremondana la sua piena epifania.
"In all external grace you have some part / But you like none, none you, for constant heart", dice Shakespeare nel sonetto LIII. Nessuna grazia, nessuna venustà terrena, sempre particolare e limitata, può arrivare ad esprimere quella, assoluta ed incomparabile, dell'essere amato, ma solo avvicinarvisi imperfettamente, per compartecipazione analogica. Semmai - soggiunge il componimento successivo - solo la morte, e la successiva sublimazione poetica dell'esistenza, potranno compiere ed eternare la bellezza caduca, allo stesso modo che le rose spremono ed esalano solo con la loro "dolce morte" la propria soave essenza.
Lo stato (davvero uno "stato di grazia" nel senso più pieno) in cui Dante viene infine a trovarsi non è poi lontano da quella sorta di metafisico, sovratemporale nirvana rappresentata da Eliot in Burnt Norton, il primo dei Four quartets: "a grace of sense, a white light still and moving". Ma - quasi ad ulteriore conferma del legame che congiunge charis e kenosis, apertura alla grazia e rinuncia a se stessi - il presupposto per questa assoluta, oltreumana quiete è una condizione di "Internal darkness, deprivation / And destitution of all property, / (...) Evacuation of the world of fancy". L'esistenza, il tempo, il moto, la parola stessa tendono al vuoto, all'annullamento, al silenzio, intravedendo in essi una sorta di loro suprema redenzione.
Non a caso, nel sospeso ed enigmatico clima penitenziale di Burnt Norton, il poeta evocherà la suprema Madre come "Lady of silences / Calm and distressed / (...) End of the endless / Journey to no end / (...) Speech without a word and / word of no speech"; "Grace to the mother / For the Garden / Where all love ends". La grazia è, precisamente, l'heideggeriano kepos, il "giardino" remoto e segreto dell'essere autentico, alle cui soglie ogni discorso ammutolisce, ogni parola si dissolve, cedendo al silenzio di una luce assoluta ed insostenibile.
La nascita porta con sé la grazia estrema e suprema della morte: l'esistenza è protesa, di per se stessa, verso l'annullamento, l'esperienza e la memoria sono già votate, per così dire date in pegno, al vuoto, alla privazione, al deserto. "We die with the dying: / See, they depart, and we go with them. / We are born with the dead: / See, they return, and bring us with them". Già Eraclito parlava degli athanatoi thnetoi, thnetoi athanatoi, e dell'unità irriducibile (nella dialettica e contraddittoria identità dell'eterno Logos) di luce e tenebre, vita e morte.
In questo senso, la vera grazia, la sola Charis certa ed inalterabile, è la morte. Lo insegnava già la sapienza dei Tragici (si può vedere, ad esempio, Eschilo, Agamennone, 538 sgg., ove charis e thanatos convergono, significativamente, verso la comune dissoluzione nel "farmaco del silenzio"; o Euripide, Baccanti, 233 sgg., ove le "grazie di Afrodite" recano con sé la minaccia cupa ed oscura di uno sguardo che rapisce, avvince e trascina alla catastrofe). Anche il mito di Elena (rivisitato da Euripide con tanta dialettica e contrastata problematicità) mostrava, fin dall'Iliade, da Saffo, da Gorgia, che le Cariti possono essere celatamente armate, foriere di colpa (per quanto inconsapevole o fatale), di maledizione, di rovina, e recare con sé, segrete sorelle, le pallide e sinistre larve delle Moire e delle Erinni.
Foscolo e Leopardi avvertiranno nel modo più vivo questo contrasto e questa contraddizione, profondamente inscritti nella natura del Tragico.
"Il vivere è sventura, / grazia il morir" (Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, vv. 83-84). E si legge nello Zibaldone (270) che "l'arcana natura e gli effetti della grazia" si spiegano con l'essere questa simile alla natura, mentre la "bellezza" (nel suo aspetto artificiale, intellettuale, studiato, mediato dalla coscienza) è avvicinabile alla "ragione". È, forse, proprio questa tragicamente ambigua "natura della grazia" e "grazia della natura" che può aiutare a spiegare l'apparentemente contraddittorio e paradossale coesistere, in Leopardi (sotto il segno di uno stesso "arcano mirabile e spaventoso"), della struggente bellezza della natura con la sua crudeltà, la sua gelida, sfingea indifferenza di "Madre matrigna".
Già nel Foscolo delle Ultime lettere, la bellezza è sì l'unica "sorgente di vita", ma "fatale". La platonica "beltà che partecipa del celeste" deve essere temuta. Ma la grazia è sorella della morte nella stessa ambigua ed inquietante misura in cui è figlia della natura. Sarà la passione per la bellezza a condurre Jacopo Ortis alla tomba. E la morte apparirà come ultima ed eterna pacificazione nel grembo non, agostinianamente, della divinità, ma della stessa natura - o meglio, forse, di uno spinoziano Deus sive Natura. Nella chiusa del romanzo, i natantia lumina, gli occhi di Jacopo "nuotanti nella morte" richiamano, ciclicamente, quelli, "nuotanti nel piacere", di Teresa intenta all'armonia dell'arpa nell'ora sublime e letale del primo incontro. E la luce liquida e pura di una stessa luna bagnerà tanto le chiome dell'amata, quanto la bianca pietra del sepolcro. La Grazia e la Morte, figlie l'una e l'altra della Natura, si ricongiungono, infine, nel grembo della Grande Madre.
"Abbiate pace, o nude reliquie; la materia è tornata alla materia; nulla scema, nulla cresce, nulla si perde quaggiù". Foscolo può parlare dell'eternità della morte, del "nulla eterno" della materia pacificata, negli stessi termini in cui Agostino (riecheggiato dal Petrarca del Triumphus Eternitatis, che Foscolo ha forse in mente: "or nasce, or more et ora scema, or cresce") parlava dell'eternità divina, della stabilità e dell'imperturbabilità della beata visio (De vera religione, III).
Anche le Grazie dell'omonimo, incompiuto poemetto sono, al di là dell'apparente olimpica e consolatoria serenità canoviana che pervade i loro volti e le loro membra, insidiate dalle ombre lunghe ed incombenti dell'eclisse, del tramonto, dell'annullamento. Francesco Flora parlava, nella sua monografia foscoliana, di una grazietà intesa come "aere astrale che si ritrova nelle minime sillabe", come "virginea nascita nella fonte dei suoni primi". Eppure, questa stessa "grazietà" finisce per dissolversi nel buio e nel silenzio. "Percote a spessi tócchi / antico un plettro il Tempo; e la danzante / discende un clivo onde nessun risale"; i fiori che le Grazie fanno sbocciare (come nella danza dantesca di Matelda, o nell'incedere lucreziano e claudianeo di Venere e di Persefone) ai suoi piedi andranno ad ornare il sepolcro, "intorno / l'urna funerea spireranno odore". La Grazia stessa, l'"armoniosa melodia pittrice", l'armonia - pur "mesta" - che "vince di mille secoli il silenzio" sono, come il "lieve incarnato" delle ninfe agli occhi del Fauno di Mallarmé, indicibili ed inafferrabili nella loro danza evanescente: ".... e s'invola / sorvolando su' fiori; appena veggio / il vel fuggente biancheggiar fra' mirti".
Il Tasso del Mondo creato (un Tasso singolarmente vicino all'epos cosmico e teologico di un Blake e di un Milton, e che fa presagire già certo Leopardi) immagina che, appena creato, il mondo preghi il suo Creatore con queste parole accorate: "E che posso bramar se 'l tutto e nulla, / Signor, senza tua grazia? A te di novo / sovra me stesso pur rifuggo, e prego / teco sovra me stesso unirmi amando". La grazia può essere attinta solo nell'annullamento; la sfera creaturale (quasi per una sorta di Aufhebung) può sollevarsi al di sopra di se stessa solo annientandosi, solo cancellandosi in quanto esistenza, solo bruciando la propria immanenza nel rogo tragico di un amore assoluto, di una metafisica charitas. Raggiunte le frontiere del nulla poco importa, in fondo, se il divino e la grazia (l'uno e l'altra ineffabili, inconoscibili, ulteriori ad ogni segno e ad ogni enunciazione) vengano cercati nel tutto o nel nulla, nel fulgore o nel disfacimento, nell'eternità della materia o in quella della trascendenza, negli abissi della terra e del corpo o in quelli delle volte celesti.
Si può concludere, allora (o piuttosto suggerire una possibile linea di prosecuzione per un discorso del resto inesauribile), con certi versi di Zanzotto (una primizia apparsa nel 2000 su "Nuova Corrente"), che illuminano (nelle sue profondità e nelle sue stratificazioni inconsapevoli, impersonali, minerali, così come nelle sue imprevedibili, illuminanti aperture conoscitive ed ontologiche) tutta la segreta e indicibile grazia del nulla.
Attraverso quale e quanto prostrarsi di prati
mi assesto, e restando, trovo
la valle che per sacra fissura di roccia
porta al più profondo, mai sepolto,
avvento.
(...)
Da quale muta caparbietà, grazia,
da quale insistenza di mai nati
o mai morti (...)
osammo cose minime e fatali, CI osammo!
Matteo Veronesi