Venerdì, 14 marzo 2008
Per quanto abbia qualche perplessità circa certi "sondaggi di opinione" che per la loro brevità rischiano di dare un'idea molto ristretta del pensiero di qualcuno, un paio di mesi fa ho risposto a una mini intervista propostami da Stefano Lorefice per il suo blog. Per qualche ragione, magari per semplice dimenticanza, non è stata poi pubblicata. Poco male. Comunque ormai l'ho scritta e, per quanto può valere, la ripropongo qui. Aggiungo che Lorefice aveva posto le stesse domande anche a Paolo Ruffilli, Gian Ruggero Manzoni, Fabiano Alborghetti, Sebastiano Aglieco e Andrea Temporelli. Le loro risposte possono essere reperite su stefanolorefice.wordpress.com (post del 20/01/2008). Di Stefano avevo parlato, a proposito del suo libro "L'esperienza della pioggia", qui.
Se a qualcuno interessa aggiungere le sue tre risposte può farlo tranquillamente nei commenti.
1) Poesia=arte marziale? C'è una disciplina di fondo di cui necessita la poesia?
Con questa domanda inviti a nozze un vecchio marzialista. Qui si tocca una questione che è una mia vecchia fissazione. Intanto dovremmo generalizzare la domanda a tutta l'arte, anzi a tutto l'artigianato. Bisognerebbe poi porre un'altra domanda: quando è che una poesia (o un'opera d'arte) non funziona? In genere, secondo la mia esperienza, quando ci si fida troppo di noi stessi, intendendo in questo la nostra "ispirazione", la nostra "sensibilità", il nostro "impulso" o la nostra fede nel potere taumaturgico della poesia. Ci si potrebbe anche affidare al puro e semplice talento, ammesso che esso sia davvero definibile. Ma è sempre stata mia convinzione che, parafrasando una vecchia pubblicità, la potenza è niente senza controllo. In altre parole quello che serve è quel genere di disciplina comune a tutte le attività artistiche, cioè la capacità di "lavorare" artisticamente, con una serie di "attrezzi" che possono essere anche tecnici oltre che culturali, i "materiali" (qualsiasi essi siano) che si affacciano alla poesia. Da questo punto di vista anche il talento è da considerare un materiale. Inoltre c'è un malinteso di fondo nella poesia di molti, specialmente se lirica, e cioè che se esprime tutto o quasi il mio sentire, la mia ispirazione, allora per forza di cose è "vero". Bene, anche questo secondo me è un concetto da sottoporre a verifica, nel senso che questo "vero" devi saperlo comunicare, devi renderlo convincente, e anche qui c'è un bel pò di lavoro da fare, l'ispirazione non basta. Ma se per disciplina intendi una corrente di pensiero, una materia, io credo che quello che serve alla poesia sia l'ecologia, una ecologia della parola e del linguaggio, sotto molti aspetti consunto e sputtanato, ma questo è un discorso più complesso.
2) Verso libero, nel tuo percorso/processo poetico quale è la sua valenza? rispetto anche a metriche più regolari
Le forme chiuse non mi hanno mai attratto particolarmente, per un problema di vaccinazione scolastica o di lieve sentore di muffa, anche se il metro come il buon vecchio endecasillabo esce fuori ogni tanto, sia per la musica che riesce a dare anche nelle situazioni peggiori sia perchè fa parte della nostra natura quanto il "blank verse" per gli anglosassoni. Il verso libero per la mia generazione ha segnato la differenza tra i poeti che studiavi a scuola e quelli che sceglievi liberamente di leggere, e questo ha marcato un forte imprinting. Tuttavia mi sembra che il verso libero (diverso, ricordiamolo, dal verso sciolto del Foscolo e del mio amatissimo Leopardi) non sia più quello vitale e innovativo di Rimbaud e dei simbolisti e neanche quello articolato, fortemente connotativo, denso di rimandi culturali e semantici del grande Novecento italiano. Oggi qualche volta il verso libero mimetizza una "mise en prose" dettata nella migliore delle ipotesi da una messa in crisi del verso e dalla ricerca di un linguaggio più moderno e nella peggiore da una urgenza di dire un pò sregolata (e qui si torna alla disciplina) che ogni tanto va a capo e diventa tristemente denotativa. Insomma, c'è un certo manierismo del verso libero, che andrebbe un pò rimeditato, magari prendendo qualche spunto dalle esperienze performative (corpo, respiro), da riflessioni come quelle che fece a suo tempo la Rosselli in "Spazi metrici" o, viceversa, dallo scarto potente di un ipersonetto zanzottiano.
3) Raccolta di poesia del 2007 che ti ha lasciato l'amaro in bocca?
Quest'anno ho letto per lo più raccolte di editori minori, di emergenti che ho trovato in genere interessanti o con "lieviti" promettenti (non sto a fare i nomi) oppure riletto vecchi giganti che uso come medicina nei momenti neri. In genere le cose più deludenti sono le antologie o gli almanacchi, ma se per te è lo stesso citerei una raccolta del 2006, "La casa di Olgiate" di Eugenio Montale, edita dallo Specchio di Mondadori, di cui ho parlato brevissimamente anche sul mio blog. Non tanto per Montale, la cui collocazione nel Novecento andrebbe comunque rivista, almeno per neutralizzare una parte del "montalismo" a favore invece del recupero di originalità di alcuni che sono stati sospettati di averne subito l'influenza, come Sereni. Il fatto è che questo libro risponde a una logica, più commerciale che filologica, che andrebbe rigettata, la stessa logica del rigattiere o dello svuota soffitte. Un libro di cui sostanzialmente avremmo potuto fare a meno, a parte forse la poesia che gli dà il titolo che è notevole, un libro che sostanzialmente non aggiunge niente al livello di Montale e forse toglie qualcosa, se si guarda a certi balbettamenti poetici, omissioni, vuoti di creatività. Mi rendo conto, rileggendolo, che il post che avevo scritto non era poi così negativo. In esso rilevavo, ad esempio, il fascino di leggere questa raccolta come "ipotesto", come si suggerisce anche nell'introduzione, cioe' qualcosa suscettibile di "sviluppi talora imprevedibili" o abbozzi che nel gioco infinito delle varianti montaliane ha forse potuto (o avrebbe potuto) condurre a esiti tanto distanti da essere irriconoscibili. Forse è fantapoesia, o forse è la poesia che non finisce mai di aggiungere altri livelli di senso. C'è da dire comunque che certi "scoop" letterari, a meno che non rivedano seriamente l'approccio critico a un autore, si scontrano inevitabilmente, uscendone con le ossa rotte, con l'immagine che ti sei fatto di un poeta leggendolo e rileggendolo, e spesso amandolo.
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