Lunedì, 28 gennaio 2008
Un trafiletto di poche righe letto qualche settimana fa su un giornale nazionale ha attirato la mia attenzione. Si trattava della riedizione presso Sellerio della raccolta "Tutti dicono Germania Germania" del siciliano (di Delia, in quel di Caltanissetta) Stefano Vilardo, già pubblicata da Garzanti nel 1975, accompagnata da una nota di Leonardo Sciascia, che pubblico qui in calce. Un poeta a me completamente sconosciuto che, come diceva il giornale, ha raccolto e rielaborato poeticamente (e, suppongo, linguisticamente) una specie di Spoon River dell'emigrazione, del dolore e del sacrificio di quegli anni, mai riconosciuti abbastanza perchè appartengono a una storia "minore". Ieri si parlava di memoria, come giusto. Ma le memorie, piccole e grandi e a volte non paragonabili certamente tra loro, sono plurali...
Tutti dicono Germania Germania
e se ne riempiono la bocca
come fosse la manna del cielo
a me non ha portato che sfortuna
ma io sono cocciuto come un mulo
e andrò in Germania fino a quando crepo
I primi giorni tutto mi va bene
trovo lavoro casa
e guadagno che non mi posso lamentare
poi il diavolo ci mette la coda
e vado a finire in ospedale
come quella volta che mi cadde addosso
un sacco di cemento
e mi ruppi tre costole che ne risento ancora
Parlano della Germania come fosse il paradiso
come se i soldi te li regalassero
invece se non ti sfianchi di lavoro
per dieci dodici ore al giorno
a casa non manderesti che pidocchi
Ultimamente le cose mi andarono bene
e misi da parte un buon gruzzoletto
a Delia mi dissi
che il Natale mi aspetta
Me lo fece fare certo il diavolo
Ero tranquillo
ora sono nei guai
ché sopra il treno litigai con un disgraziato
e sono tutto foruncoli per lo spavento
ché il sangue mi diventò acqua
quando quello voleva spararmi
Non faccio che andare dai medici
e pago le visite di sacchetta mia
perché ho dimenticato in Germania
il grandsciai internazionale
che è come il libretto della mutua
Ho scritto ad un cugino
ché me lo faccia rilasciare dalla ditta dove lavoravo
ma ancora non ho visto niente
intanto i soldi se ne vanno come fave
Avevo una piccola casa
che non potevo abitarla
e stavo in casa d'affitto
Un giorno dissi
voglio andare in Germania
a tentare la sorte
Lì mi trovai malissimo
Lavoravo in una fonderia
che mi sembrava di essere all'inferno
ma costretto dal bisogno mi adattai
Dopo tre mesi
ricevetti un telegramma da Delia
ché mia sorella era molto grave
Lasciai il lavoro e me ne ritornai
Dopo pochi giorni mia sorella moriva
Non avevo più voglia di ripartire
ma il contratto dovevo rispettarlo
Trovare unp, casa a Manaim
era un problema
La ditta mi aveva alloggiato
con altre sei persone
in una piccola baracca
d'inverno morivamo dal freddo
d'estate dal caldo
Nel marzo del sessantadue caddi ammalato
e mi portarono in ospedale
locali belli puliti ordinati
uno specchio
ma non capivo niente di quello che dicevano
a quel mangiare non ero abituato
come un cane
paesani non riuscivano a trovarmi
ché chi non sa parlare è come un cieco
ne la vidi veramente brutta
non capivo gli infermieri
non capivo il dottore che veniva a visitarmi
ni facevano delle punture
ni davano a bere acqua colorata
così dopo quindici giorni fui dimesso
senza aver saputo
c:he male mi avessero curato
Dopo un anno di prigionia in Germania
che avevo visto la morte con gli occhi
ritornai a casa e trovai tutto nero
a Canicattì ancora sul treno
seppi della morte dei miei fratelli
mia madre buon'anima mi accolse a braccia aperte
perché aveva bisogno d'un uomo in casa
che l'aiutasse e la sostentasse
ma io dopo quindici giorni volevo ripartire
andarmene all'estero
ché a Delia non mi ci potevo più vedere
Vero è che non mi mancava niente
e avevo qualche cento lire in tasca
Mia madre poveretta per non farmi scappare
voleva che mi sposassi
hai trent'anni mi diceva
e ti ci vuole una famiglia
Mi sposai
per fortuna capitai una buona moglie
ma le cose cominciarono ad andare male
le malannate una dopo l'altra
non si raccoglieva che qualche pugno di scaglio
qui non può continuare dissi a mia moglie
me ne vado in Venezuela
chissà che la sorte non cambia
In Venezuela non trovai lavoro
facevo giornate intere di cammino
i piedi pieni di piaghe
c'è travaho
ma quale travaho niente travaho
allora mi misi a vendere gelati per le strade
la campanella in mano
facevo più rumore di una chiesa
Poi finalmente trovai lavoro ii un cantiere
e comincia a guadagnare qualche pesos
dopo cinque anni mi stancai
ché non era vita da potersi fare
dalla mattina alla sera col piccone in mano
e mia moglie che non finiva mai di scrivermi perché tornassi
Aveva ragione poveretta
ché l'avevo lasciata dopo cinque mesi di matrimonio
e ogni santo vuole la sua festa
siamo tutti fatti di sangue
e dormire soli non è bene
Mi feci liquidare dalla ditta il mio avere
e me ne ritornai
stetti a Delia tre anni
ma non potevo tirare avanti la vita
intesi della Germania
e ritornai ad emigrare
A Manaim mi imbocciai in un baostello
lavoro quarantatré ore la settimana
e me la passo bene
manco il paragone con il Venezuela
La gente mi rispetta
Se uno si fa i fatti suoi
e non va in cerca di donnacce
non frequenta le cantine non si ubriaca
non gli capita niente di male
sano va e sano torna salvo qualche disgrazia
che può capitare ad ogni figlio di mamma
Abito in una stanzetta con quattro paesani
siamo una famiglia
mai una parola
facciamo la spesa un giorno ciascuno
e viviamo d'amore e d'accordo
Ma una cosa ho da dire
ho quarantasei anni
una buona metà l'ho passati all'estero
privo della famiglia e di ogni conforto
che i figli manco mi conoscono
E' cosa giusta domando ai nostri governanti
questa vita di cani randagi
ché se loro dovessero campare
lontani dalle mogli dai figli
disperati
in cerca di un pezzo di pane in terre straniere
non avrebbero una faccia così soddisfatta
quando appaiono alla televisione
a raccontarci minchiate
Prima della Rivoluzione francese - annotava Gramsci - prima cioè che si costituisse organicamente una classe dirigente nazionale, c'era un'emigrazione di elementi italiani rappresentanti la tecnica e la capacità direttiva, elementi che hanno arricchito gli Stati europei col loro contributo. Dopo la formazione di una borghesia nazionale e dopo l'avvento del capitalismo si è iniziata l'emigrazione del popolo lavoratore, che è andato ad aumentare il plus-valore dei capitalismi stranieri: la debolezza nazionale della classe dirigente ha così sempre operato negativamente. Essa non ha dato la disciplina nazionale al popolo, non l'ha fatto uscire dal municipalismo per una unità superiore, non ha creato una situazione economica che riassorbisse le forze di lavoro emigrate, in modo che questi elementi sono andati perduti in grandissima parte, incorporandosi nelle nazionalità straniere in funzione subalterna. Sempre così negativamente operando, la classe dirigente italiana si è data, dopo l'Unità, a un recupero di tipo sciovinistico delle glorie italiane in terra straniera, cioè di quegli elementi che nel campo delle invenzioni, delle scoperte, dell'arte militare avevano contribuito alla grandezza e ricchezza di altri Stati: e resta esemplare la questione sull'italianità di Colombo, che ha dato luogo a tutta una letteratura che Gramsci definisce «completamente inutile e oziosa. Ma un tale chauvinisme, praticato a livello di un certo giornalismo, di una certa erudizione, aveva in effetti una funzione: la classe dirigente nazionale lo dava come una specie di viatico - il solo che fosse capace di dare - al popolo lavoratore che massiccia mente emigrava. Già Cesare Balbo aveva auspicato «una storia intiera e magnifica e peculiare all'Italia» degli italiani, dei grandi italiani, fuori d'Italia; e proprio nel momento in cui una delle più grosse ondate di emigrazione dall'Italia si riversava sulle Americhe, sugli Stati Uniti e sull' Argentina in prevalenza, usciva un Dizionario degli italiani all'estero che partiva dall'anno 1000. Con lo stesso criterio, negli anni del fascismo si inaugurava - suggerita da Gioacchino Volpe - una pubblicazione in più volumi su. L'opera del Genio italiano all'estero: ufficiale, governativa. La classe dirigente italiana, e la cultura che la rappresentava, era talmente occupata a cercare le orme del genio (Genio) italiano in terra straniera, dall'anno 1000 alla Rivoluzione francese, che non si accorgeva delle centinaia di migliaia di italiani che, bestialmente stivate, continuavano a lasciare le Itale sponde. Non voleva accorgersene, cioè non voleva curarsene. Erano italiani senza genio (Genio): sapevano soltanto lavorare con le braccia, e duramente. In altro luogo Gramsci osserverà: e perché questa classe dirigente, la sua cultura, la sua letteratura, dovrebbe occuparsene quando sono all'estero, dei lavoratori italiani, se nemmeno se ne occupa quando sono in Italia?
Ma in Italia, bene o male, paternalisticamente o meno, tra scapigliatura e verismo, il popolo lavoratore era entrato nella letteratt!ra. Riguardo all'emigrazione, era però tutt'altro affare. E valga l'ironica osservazione che Dominique Fernandez fa a proposito dei Malavoglia: «Il maggiore dei Malavoglia, sin dal tempo in cui è ancora un bravo ragazzino e sta alla larga dalle osterie, si mette in testa di lasciare Acitrezza e tentare fortuna altrove. L'autore, lungi dall'incoragglarlo in questa sana decisione, l'accusa di voler abbreviare i giorni di sua madre, di abbandonare alla deriva i suoi fratellini, di infischiarsi del focolare domestico, e infine d'essere un ambizioso, un pretenzioso, che sarà punito per aver disprezzato l'onorevole miseria di cui i Malavoglia si sono sempre accontentati... I Malavoglia apparvero nel 1881. Ebbene, in quello stesso anno, l'Europa mandava 85.000 emigranti in America; tre anni dopo 200.000; nel 1900 l'Italia, da sola, 200.000, di cui circa una metà siciliani... Fernandez chiama quella di Verga «une bévue historique de taille», una grossa cantonata storica. E non il solo Verga l'ha presa. Non c'è nella letteratura italiana, infatti, un solo libro che rappresenti la condizione degli emigranti per come è stata, per come è. Solo in questi ultimi anni abbiamo avuto dei documenti diciamo ricreati: le lettere di un emigrante pubblicate da Antonio Castelli in Entromondo; queste storie messe in versi da Stefano Vilardo.
Vilardo è nato a Delia, in provincia di Caltanissetta, e a Delia è vissuto per tanti anni, insegnando nelle scuole elementari. Poeta, per così dire, in proprio (un paio divolumetti pubblicati in edizione limitata: poesie di idillio, poesie d'amore), ad un certo punto si è dato a raccogliere e ricreare queste storie (alcune ne ha pubblicate sul numero 15, luglio-settembre 1969, di Nuovi argomenti). E non è stata un'operazione facile. Per quanto, leggendole, non sembri, la mediazione del poeta c'è stata. La ricreazione, appunto. E che non sembri, è il maggior merito di questo libretto.
Leonardo Sciascia
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