Giovedì, 25 gennaio 2018
norbert c. kaser - rancore mi cresce nel ventre - Edizioni
alpha beta Verlag, Meran/Merano, 2017
Ci sono coni d'ombra, nella poesia italiana, zone in cui il lettore arriva
con grande difficoltà o per caso, paludi di oblio che spesso corrispondono
ad areali linguistici minoritari ma a cui non sfuggono nemmeno altri, se
non interessano all'accademia o all'editoria, un'ombra che a volte si
illumina per caso. Mi è successo, per fare un esempio, con Roberta Dapunt
(v.
QUI
). Ed ecco, ringrazio per questo Francesca Corrias, un altro poeta che non
conoscevo. norbert c. kaser (sì, proprio così, tutto
minuscolo, come lui preferiva) è un caso del tutto particolare, che trova
in questa ottima pubblicazione (a cura di Toni Colleselli, traduzioni di
Werner Menapace, introduzione di Lorenza Rega) la collocazione antologica
che merita. Poeta e scrittore altoatesino bilingue, nato a Bressanone nel
1947 e morto a Brunico nel 1978, kaser ha avuto una breve
vita travagliata, vissuta in condizioni disagiate e solitarie, con vari
tentativi frustrati di essere e sentirsi parte di qualcosa, fosse la
religione cattolica (un anno in un convento dei Cappuccini), o la politica,
nel sindacato prima e nel partito comunista poi, oppure l'università,
abbandonata nel 1971. E poi vari lavori precari per sbarcare il lunario,
compreso quello di maestro di montagna, e il ricorso all'alcool, che ha
avuto una parte rilevante nella sua salute e nella sua morte. In mezzo una
presenza di polemista, di attivista politico, di feroce critico di un
rigido establishment sociale e letterario di cui soffrivano
indifferentemente artisti tedeschi e italiani (a questo proposito va
ricordato che kaser, al di là delle note vicende
separatiste dell'epoca, ha sempre sottolineato la sua italianità). Come kaser ebbe a dire (citato da Lorenza Rega): “Lentamente
svaniscono i pregiudizi nei nostri confronti. A noi spetta la parola! Qui
dalle nostre parti si aggirano ancora così tante vacche sacre che non si
riesce a vedere niente al di fuori di questa mandria. Ma la festa dopo il
macello sarà imponente. E vi parteciperanno anche gli italiani. Anch’essi
hanno una mandria di vacche sacre. I macellai hanno all’incirca la mia età.
Il Sud tirolo avrà finalmente la sua letteratura e di un valore e
importanza tali che nessuno può oggi immaginarseli.” Il rancore che kaser sentiva crescere nel ventre aveva anche queste
dimensioni, che forse possono apparire tra l'incendiario e il futurista, ma
che danno un'idea di una potente rivolta culturale, e che se
contestualizzate rispetto alla realtà altoatesina del tempo possono fare
affermare, anche a uno studioso attento come Claudio Magris, "atteggiamenti
letterari che in un contesto culturale diverso sarebbero puberali o
patetici, in Alto Adige hanno ancora un valore contestativo” (cit. da Toni
Colleselli). Il che, in un certo qual modo, è un giudizio parziale,
riduttivo, perché rischia di confinare kaser in una
posizione decentrata, locale, o appunto contestativa, mentre stile, temi,
qualità della scrittura e anche ricerca linguistica trascendono le
"occasioni" che hanno generato il suo lavoro.
Il libro, un corpus di 175 testi in versi e in prosa (le poesie sono 140 di
cui 15 scritte direttamente in italiano), ci restituisce un poeta di
assoluto valore, a cui non è difficile riconoscere la qualifica che gli
assegna Toni Colleselli di "maggior poeta italiano di lingua tedesca",
tutt'altro che un poeta a cui affibbiare quella specie di apolidia che si
associa alla letteratura di "confine". I temi sono molteplici, e certo kaser ha sempre in sé il concetto di heimat,
fondamentale in tutta la letteratura germanofona, portatore di un legame
non necessariamente costrittivo, ma anzi fecondo, con la tradizione; c'è
certamente il continuo rimando alla realtà anche locale, alla cronaca, a un
sentire politico e sociale, al paesaggio della sua terra spesso
interpretato come grande correlativo oggettivo di un inquieto sentimento
dell'esistenza; c'è una visione disincantata e certo pessimista della vita,
c'è l'amore, c'è un sotterraneo dialogo con Dio, c'è la visione poetica
delle città e dei luoghi visitati fuori dal Tirolo, c'è il gioco
linguistico e l'invenzione fiabesca nei testi che scriveva per i bambini a
cui insegnava. Ma quello che più colpisce in queste poesie è un rapporto
con il mondo forse pessimistico come si diceva ma non domo, non difensivo,
non ripiegato su di sé, non autocommiserativo, c'è semmai una pretesa di
risposte a molte domande, l'inesausto tentativo di superare una situazione
di "inceppamento" (Magris) culturale, sociale, generazionale. Anche se,
aggiungo, chiudendo il libro resta un finale drammatico senso di cupio dissolvi. C'è in questa voce, come giustamente nota Roberto
Galaverni in una nota apparsa su La lettura nell'ottobre 2017,
"qualcosa di duro e d'irrisolto, qualcosa come un'indignazione
fondamentale, come un'impossibilità di tregua [che] attraversano
dall'inizio alla fine i versi di questo poeta, tanto da porsi come il suo
carattere più distintivo e qualificante". E' questo carattere ad imporsi
sulla scrittura stessa, che può apparire alla prima con tratti
sperimentali, per aspetti visivi e linguistici, scrittura invece "motivata
da ragioni niente affatto letterarie ma immediatamente storiche ed
esistenziali" (ancora Galaverni). Un libro di così alto valore che, a
differenza di altre mie letture, c'è davvero l'imbarazzo della scelta (comunque sempre arbitraria e ingenerosa) nel
selezionare qualche testo esemplare da proporre qui. (g. cerrai)
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Venerdì, 12 gennaio 2018
Elliott Erwitt, “Personae”: un mondo in immagini (visto ai musei
S.Domenico a Forlì)
“Personae” retrospettiva che rende omaggio con un’ampia scelta fotografica
ai capolavori del fotografo americano Elliott Erwitt presso i musei S.
Domenico di Forlì è una molteplicità ironica, a tratti poetica o
umoristica, sempre tuttavia profondamente umana di ritratti: i volti delle
celebrità o quelli di gente ordinaria, cani che prendono spesso le loro
sembianze e fanno loro il verso, infine i volti delle città viste
attraverso punti di vista d’eccezione che li rendono unici, icone come tali
entrate nella storia della fotografia. Nella prima sezione in bianco e nero
fino alla metà degli anni ’70 Erwitt si sofferma in particolare sulla
distorsione del punto di vista, spesso prediligendo quello degli animali
che affiancano gli esseri umani e guardano quella stessa realtà dalla loro
postura, nelle loro dimensioni e posizionamento sulla terra con un
implicito risvolto ironico o parodico.
“
Le cose che mi divertono nella vita...le persone senza dubbio_i
paesaggi meno_ quello che fanno nella vita e come si comportano. Tutta
la mia fotografia riguarda questo. I cani sono un ottimo soggetto
perché sono universali e li trovi ovunque nel mondo. Non obbiettano ad
essere fotografati e non chiedono mai impronte..
”
“New York city”, 1974 ( Taking the shot from a tiny dog perspective”)
Cosa significa essere o vedere la realtà dal punto di vista del piccolo e
del minoritario, del basso e non dell’alto, del micro e non del
macroscopico, portare l’attenzione ai piedi anziché alla testa, volgere le
prospettive come in questa immagine mettendosi nei panni di un piccolo
chihuahua umanizzato. La realtà percepita da quella prospettiva appare a
lui enorme, disumanizzante negli stivali neri di cuoio lucidi e militari e
in grandi zampe simili a quelle di un cammello che gli cammina accanto.
Erwitt gioca con i paradossi e si diverte a ribaltare la superficie
traslucida ed edulcorata, troppo educata delle apparenze per decentrare
costantemente con ironia lo sguardo del suo obiettivo, periferico
sull’animale; in particolare assume la misura dei vari prototipi di
cagnetti antropomorfi, abitati di umanità parodiando la medesima per
parlare del mondo che lo circonda.

Nella fotografia divenuta icona erwittiana di New York (1946) per esempio,
la città è vista esclusivamente attraverso un dettaglio fotografico portato
ed espanso in primo piano: i piedi della donna si mostrano enormi,
ingigantiti all’ennesima potenza attraverso i sandali neri sullo sfondo di
un viale alberato e di alti edifici in fuga prospettica verso il fondo. Il
contrasto appare evidente e scherzoso tra la minuscola postura del
Pittsburgh nano che fissa l’obbiettivo e di cui il fotografo assume il
punto di vista e le dimensioni di una realtà estranea, smisurata qui resa a
lui incommensurabile.
I volti delle città allo stesso modo sono filtrati attraverso lo sguardo
erwittiano di questi prototipi canini alter-ego dell’umano. New York è un
viale spazioso nei pressi di Hyde Park democraticamente visto assumendo il
punto di vista del piccolo o del periferico in primo piano. Londra (1966) è
l’interno borghese di un salotto ricoperto di moquette floreale, tappetti
decorati e un sobrio camino vittoriano al centro sul quale troneggia un
orologio a pendolo in suppellettile contornato da minuscole ceramiche e
grandi sontuosi candelabri. Nell’immobilità del luogo un bulldog appare al
centro tra il cinico e il derisorio spossato dal grigiore del lusso
circostante.
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Lunedì, 8 gennaio 2018
Per espresso desiderio dell'autrice, che ringrazio, pubblico con grande piacere, in aggiunta al post del 6 gennaio dedicato a Elia Malagò, il testo completo della plaquette lalange da cui avevo estratto solo due poesie, con la prefazione di Antonio Prete, seguito dall'altra breve raccolta pubblicata sempre da Fuocofuochino nel 2015, dal titolo del disamore, con prefazione di Zena Roncada. Entrambe le plaquettes dovrebbero rientrare, insieme a diversi altri testi, nel prossimo libro a cui Elia sta lavorando con impegno da qualche tempo, un lavoro che personalmente attendo con grande interesse. Con l'occasione ringrazio anche l'editore Afro Somenzari per la sua amichevole disponibilità.
lalange
La poesia di Elia Malagò è resto di una lingua cancellata. Un resto che prende respiro e energia, e sale verso la libertà dell’immagine e verso la parola essenziale e necessaria. In questo movimento, aspro e dolce insieme, la lingua porta con sé un sentire che conosce la ferita, il limite, lo scacco del desiderio. Un sentire che sa sporgersi sul vuoto di senso, sul dolore del mondo, su quel “pianto disseminato” che è poi la storia degli uomini. Con questa nuova lingua – la riconoscibilità del poeta è proprio nell’edificazione di una nuova lingua, quella “langue nouvelle” di cui diceva Rimbaud – la poesia di Elia Malagò può farsi interrogazione del visibile, e allo stesso tempo dialogo con il visibile, con il suo mostrarsi e il suo nascondersi, con il suo distendersi nel paesaggio fluviale e il suo ritrarsi nell’aridità. Un universo stranito, opaco, doloroso prende campo: parvenze di quel che è assente, frammenti di una memoria d’infanzia che non lascia detriti ma corpi e gesti e luoghi vividi nella loro lontananza, sguardo sulle ferite e sulla cenere che il sapere della civiltà ricopre di indifferenza. Il desiderio non cessa di confrontarsi con i suoi orizzonti occlusi o offuscati. Ma in una natura che mostra la sua potenza e talvolta il suo patto con l’apocalissi, si aprono a tratti cieli liberi e fluttuano immagini di forte presenza, di cui “l’estate che correva per mare e scollinava” è quasi emblema. Che sia fosca o limpida la scena, i versi collocano ogni volta il lettore di colpo nel mezzo dell’accadere. Ma tutto accade nella lingua, nel suo prendere luce e vento, suono e respiro, senso e dolore, libertà e vigore. Questo accadere nella lingua è la poesia.
Antonio Prete
lalange
1
ho dimenticato la lingua del pianto
e non so più i sapori che a cascata stanziano sotto il naso insalano le labbra guazzano il mento sbriciolano il silenzio e idioti mescolano muco e arcani vergognandosi
mi vergogno di queste parole liberate sconosciute forsanche blasfeme
2
dico te ma sento me
non ho lingua e preghiera tua che trapassi scorticata e venga fuori a brani gutturi inson miei
3
so che non c’è lingua
cantilena forse di passi d’altri contati in sonni non sognati in notti di prima che il tempo ha sottratto
so che di quella lingua cancellata
da qualche parte resta un chiodo una polvere bluastro il barlume
Nota. lalange è un refuso della memoria di lalangue con cui ciascuno si parla
soglie
ma quante ce ne sono prima che l’oltraggio basti
limiti che la verità buca con una sfrombolata e viaggiano e viaggiano viaggiano findove si spacca la terra si sfalda il muro di tufo precipitano gambe e braccia
i piedi ancora nella sabbia gli occhi già inghiottiti dal sale
quando tutta quest’acqua finirà di sole e vento, comincerà la conta
il margine
non lo aggiusti come ti pare la mattina che s’è placata la tramontana
non è la siepe che togli il dissuasore si apre nonostante le spine
il margine è maestro che si prende corrente garbino piene e rottami conta i passi e le infamità confida nei due gradoni del sottobanca raccoglie confidenze e segreti mulina l’aria di colma e si gonfia di collere indicibili
ma non lo aggiusti non si aggiusta
ti ci devi mettere davanti senza socchiudere gli occhi spegnere
libera
solleva questo piombo di cielo
contro la quarta parete che cade fitta di nubi a frastorno d’aria fogliame e rabbiume
- diciotto anni prima che ancora la luna s’avvicini tanto misure e percentuali calibrate il faccione di matto fisso lì che ci guarda
da qui a diciotto fanno un mazzo di steli l’erica svasata l’estate appena scorsa
l’estate che correva per mare e scollinava senza campo a cercare menta e rosmarino avvitata lì a una menzogna che rabbiosa e cattiva si urlava dentro la sete
la fame
che ha traversato il deserto e succhia le ossa che trova
ogni desiderio spento
te la figuri la notte che non s’accende quando lo scuro incappa il cielo in un sacco di plastica e lo tiene stretto tra stelle scariche e antichi lallalli spersi nel deserto?
che calenda di tempo e sperpero che splendore d’occhi
tutto questo pianto disseminato
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Sabato, 6 gennaio 2018
Elia Malagò - Lalange - Ed. Fuocofuochino, 2017
Eccolo qua, un altro libriccino artigianale, quasi fatto a mano, un'esile
creatura di cinque fogli A4 piegati in due e spillati, stampati dalla "più
povera casa editrice del mondo", messa su da Afro Somenzari in quel di
Viadana ( www.fuocofuochino.it ), con un catalogo che, insomma, mica male. Se nel caso di Viola Amarelli
la tiratura si attestava su 120 esemplari numerati (v. post precedente),
qui siamo all'edizione speciale numerata in venti copie, tutte autenticate
da "un bollo IGE annullato da giduglia stellata che ne comprova
l’originalità". Ma non siamo al minimalismo, né allo snobismo, né al
samizdat. Sono "solo" entità poetiche che amano manifestarsi così ai nostri occhi.
Di Elia Malagò ho già parlato qualche volta (v. QUI), sebbene non quanto avrei voluto e dovuto sia per il suo valore sia per
l'amicizia che mi ha sempre dimostrato. Valore che questo libretto non
smentisce, nella estrema sintesi delle sue sette poesie, nella raffinatezza
del versificare, nella trasparenza della scrittura, sempre costante da
molti libri a questa parte. "Lalange è un refuso della memoria di lalangue con cui ciascuno si parla", scrive Elia in una nota. Sappiamo a cosa
allude: in primis, al di là del rimando culturale, a quel "resto di una
lingua cancellata" di cui parla Antonio Prete nella brevissima
introduzione. Cioè qualcosa che va (come solo poeticamente è possibile
fare) oltre il neologismo di conio lacaniano che, come altre idee dello
psicanalista francese, si presta a interpretazioni ed equivoci che qui non
ci interessano. Il refuso/lapsus in questo contesto prende la sua
rivincita, guarda caso freudianamente verrebbe da dire, sulla "tecnica"
lacaniana (cioè qualcosa che è interno alla disciplina), perché viene da
qualcosa di più profondo e personale che nemmeno avrebbe bisogno di
definizioni, dalla memoria. Niente è per caso. Se lalangue è la lingua preverbale, quella abitata dal corpo e con cui il corpo si
parla, se è l'aspetto primevo e materno della comunicazione, il refuso ci
dice che la poesia ha già agito su di essa, raddolcendola e riportandola al
livello simbolico che è proprio del linguaggio. Qui lallazioni, incertezze,
regressioni non ce ne sono, o almeno non servono come idoli sperimentali. Ci sono eventualmente invenzioni/restauro di parole dai molti echi (frastorno, rabbiume, sfrombolata, calenda, garbino, verbi come guazzano, insalano), cioè - mi pare - recuperi di "antichi lallalli spersi nel deserto". C'è
ancora quello che avevo scritto a proposito di Golena, "è certo che in quanto a parole Elia lascia poco o nulla al caso, la sua
è una scrittura esatta", senza nessun tipo di compiacimento. C'è ancora la
limpidezza dello sguardo con cui Elia osserva le cose, la sua pianura,
sempre presente anche quando non espressamente evocata, e le idee. E
tuttavia la riflessione sulla lingua c'è ed è l'oggetto principale di
questi versi. Ma, a differenza di altri esempi rinvenibili nella poesia
contemporanea, Elia non ne fa metapoesia, cioè non pensa alla sua lingua
concettualmente. È semmai una riflessione radicale, proprio nel senso di
una "liberazione" alla radice della parola, di un suo "etimo" implicito,
perfino di una sua "blasfemia", ovvero di una rottura violenta del canone.
Il punto è che Elia sa, o si domanda, se da qualche parte c'è una lingua
cancellata, un idioma di cui rimane qualche segno, qualche "chiodo". Se
scrive "ho dimenticato la lingua del pianto" non vuole dire che non sa più
descrivere il dolore col linguaggio ma che il linguaggio del pianto non
risuona più a dovere in lei, e c'è necessità di qualcosa che potremmo
definire empatia del sé. La lalangue lacaniana? Forse, ma qui si tratta se permettete del primato della poesia,
come linguaggio specifico. Non si tratta di sciogliere un nodo psicoanalitico, si tratta di
attingere a profondità diverse da quelle meramente psichiche, scendere al
di sotto di certe superfici, recuperare un livello di comunicazione senza
orpelli salvandone nel contempo la carica poetica. La ricreazione di una
nuova lingua "esatta", ciò che ha tutta l'aria di essere un'evoluzione. (g. cerrai)
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