Martedì, 31 ottobre 2017
Un'occasione in questi giorni per prendere due piccioni, anzi tre, con una
fava. Ricorrono i morti (e lasciamo perdere le barzellette al riguardo), è
il centenario della disfatta di Caporetto e, tertium datur, le due cose si
combinano in un poeta che ha avuto alterne fortune, come gran parte della
poesia dialettale italiana. Parlo di Delio Tessa e della
sua
Caporetto 1917, «L’è el dì di Mort, alegher!», Sonada quasi ona
fantasia,
contenuto in L'è el dì di mort, alegher ; De la del mur e altre liriche, a cura
di Dante Isella, Einaudi 1985, che peraltro è possibile reperire in rete,
anche se privo di apparato critico. Tessa, come afferma P.V. Mengaldo
includendolo nel suo Poeti italiani del Novecento, è "uno dei più
grandi del nostro Novecento senza distinzione di linguaggio", aggiungendo
che "il disinteresse per questo poeta è una vergogna per la critica
italiana" (ma si era nel 1978 e a quel tempo Isella, uno dei massimi
studiosi della letteratura lombarda, stava ancora lavorando sull'opera di
Tessa). Sta di fatto che questi giudizi possono essere ancora in parte
sottoscritti, poiché è certo vero che Tessa è un eccellente poeta, basta
leggerlo anche solo nelle "traduzioni" in lingua italiana per rendersene
conto, ma è anche vero che Tessa, come la poesia dialettale in genere (ma è
categoria però piuttosto generica, basti pensare alla reinvenzione
dialettale di Scataglini e la rilevanza particolare che assume un poeta che
amo, Emilio Rentocchini), rinnova qualche interesse nella critica. Cito a
mero titolo di esempio l'edizione della stessa opera a cura di Mauro
Bignamini, per i tipi delle Edizioni dell'Orso, 2014, che prende in esame
le concordanze dell'opera di Tessa a partire proprio dall'edizione
iselliana; e in ambito più generale, sempre a titolo di esempio, citerei i
volumi
L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e in altre
lingue minoritarie tra Novecento e Duemila
, a cura di Manuel Cohen, Valerio Cuccaroni, Rossella Renzi, Giuseppe Nava
e Christian Sinicco per i tipi di Qwynplaine, 2014; e inoltre (ma qui siamo
decisamente sulla produzione attuale) Guardando per terra. Voci della poesia contemporanea in dialetto
(LietoColle 2011). Il Sud, come sempre, è minoranza nella minoranza, con
buona pace degli "eredi" di Pierro e Buttitta, sebbene non manchino anche
oggi voci molto interessanti (ad esempio gli apprezzabili Giuseppe Samperi
- v.
QUI
, o Marco Scalabrino - v.
QUI
), tanto che per la poesia dialettale sembra quasi inevitabile parlare di
linea settentrionale. Da ricordare infine, facendo un passo indietro,
Franco Brevini, autore dell’antologia Poeti dialettali del Novecento (Einaudi, 1987), coeva dell'impegno
di Isella, e i tributi seppur non esaustivi che a Tessa hanno dedicato
Pasolini, Fortini, Loi, Giuseppe Anceschi, Cases e altri.
Il libro L'è el dì di mort, alegher è l'unico pubblicato in vita
da Tessa, nel 1932, ma la "sonada" risale al 1919, appena un anno dopo la
conclusione della Grande Guerra, e nello stesso anno della dannunziana
"vittoria mutilata" dal Trattato di Versailles che secondo Salvemini
rientrerà a pieno titolo nella mitologia patriottica fascista. E questo è
un fatto già abbastanza singolare, leggendo quanto e come il testo mette in
scena. Non c'è nessuna vittoria da celebrare, per Tessa, c'è semmai da
ricordare l'impatto fortissimo sul sentire popolare della tragedia di
Caporetto, di quella "inutile strage" della Lettera ai capi dei popoli belligeranti di Benedetto XV, un
centenario anche questo (1 agosto 1917), se proprio vogliamo ricordarcelo.
E proprio il punto di vista popolare che Tessa cerca di interpretare, un
punto di vista forse poco patriottico, di gente comune anche preoccupata
delle sue cose e della sua vita, quella stessa gente che ha fornito i
fantaccini mandati al macello, "quelli che marciscono là... che hanno
finito la guerra e, se Dio vuole, sotto terra, a macero...", e che teme
perfino che i tedeschi arrivino fino a Milano. Da lì viene questa lunga
corale intrecciata di voci, la sua ispirazione e la sua giustificazione
anche morale: "Riconosco ed onoro un solo Maestro: il popolo che parla.
Squisitamente parla ancora un suo mutevole linguaggio sempre ricco, sempre
vario, sempre nuovo come le nuvole del cielo", scriverà Tessa nella
"Dichiarazione" che precede la prima edizione del libro. Da lì, quindi, dal
popolo, per Tessa giunge anche una patente di verità, di realtà, in qualche
modo un mandato, e insieme una forma e una sostanza, un metro e una lingua
adatta allo scopo, ordinaria, disarticolata come un cicaleccio, dialogica,
idiolettale, scenica e fortemente icastica, anche in forza del ritmo
sostenuto e insieme sincopato che la innerva, come una piazza affollata e
inquieta in cui tutti parlano tutti insieme. E' un popolo tutto sommato
senza speranza, che di lì a qualche anno sarà inquadrato nelle adunate
oceaniche del fascismo, del quale Tessa, fondamentalmente anarchico, sarà
un oppositore fino alla morte, avvenuta nel 1939, prima di vedere
l'ulteriore immensa "macelleria" della Seconda Guerra. Considerato da
alcuni un bozzettista, da altri un crepuscolare, tuttavia, come aveva
notato Fortini, il recupero di certi motivi e stilemi e il ricorso ad una
lingua popolare - peraltro, più che sorgiva, secondo me abilmente
manipolata - va considerato, specie nelle opere seguenti, pubblicate tutte
postume, anche come una posizione antiretorica, "quanto più la
contemporaneità gli si presentava con i tratti odiosi del fascismo"
(Mengaldo), venata, sembra chiaro, del "radicale pessimismo antropologico"
che gli attribuisce Fortini. Ma forse, leggendo Tessa, il carattere che più
sembra colpire è l'espressionismo che Pasolini aveva individuato, se non
erro in Poesia dialettale del Novecento, un espressionismo
europeo, per le tinte anche forti (bisognerebbe leggere ad esempio La mort della Gussona) che richiamano Dix, Grosz, Kokoschka; e per
lo stile fonico-ritmico, l'imitazione del parlato, la frattura linguistica
e lessicale fino talvolta a segnare un passaggio "dal semantico
all'asemantico" (Gibellini), la narrazione per frammenti trasposti e
rimontati, e così via (e non bisogna dimenticare che, a quanto sembra, era anche un abile performer delle sue poesie). Non è difficile immaginare, al di là del
confinamento, specie nei primi anni, in una cerchia ristretta e della
questione lingua/dialetto talvolta usata in funzione ghettizzante, quanto
fosse e apparisse moderno Delio Tessa. (g.c.)
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Mercoledì, 25 ottobre 2017
Annoverata tra quei confessional poets che negli anni Cinquanta e
Sessanta rivoluzionarono la scrittura poetica coeva con la messa in scena
di drammi personali ed esplorazioni sfrontate di interiorità ora realmente
patologiche, ora performativamente isteriche, Anne Sexton è stata di certo
una poetessa originale e innovativa. In parte, anche più di Sylvia Plath,
di cui fu amica e alla quale viene sempre accostata (anche qui, invero) in
un confronto che in genere la vede perdente. In realtà, la Sexton fu sì
meno colta e meno raffinata dell’altra ma, a rileggerla oggi, ben più
modernamente ambigua, soprattutto nei confronti della cruciale
rappresentazione, per entrambe, del rapporto uomo-donna. Se infatti la
Plath declina il suo immaginario di ribellione al maschile soprattutto
nella diade “padre”-“marito”, la Sexton si confronta con una quaterna
composta da “padre”, “marito”, “amante” e “Dio” e la investe di
un’ambivalenza in cui, per esempio, le figure dell’amante e del divino si
sdoppiano e si moltiplicano di ruolo. Se l’amante può, semplicemente,
essere donna (come fu anche, talora, nella vita della Sexton) o farsi, da
un punto di vista simbolico, figura edipico-paterna, Dio rappresenta sia
l’ipostasi suprema di un patriarcato puritano e repressivo sia un
accogliente rifugio materno verso cui anelare (e del resto la Sexton dirà
che “Dio è donna”). Al di là di questo precoce e antesignano tentativo di
andare oltre il genere, la Sexton scompagina le carte dell’imperante
femminismo ideologico dell’epoca (che invece della Plath fece,
notoriamente, il santino) proprio per la sua feconda irresolutezza nei
confronti del desiderio per l’uomo-amante. La relazione adulterina e i suoi
oggetti libidici rimangono difatti sempre in bilico tra volontà di fusione
e rifiuto doloroso, erotismo estatico e rabbia rivendicativa, liberazione
fisica e intimo senso di colpa, gioia e angoscia.
Propongo dunque qui alcune nuove traduzioni di testi della poetessa
incentrati proprio sul ruolo dell’amato-amante. I primi tre provengono da
una delle raccolte più note e fortunate della Sexton, Love Poems
(1969), dedicata al rapporto extraconiugale da lei intrattenuto con il suo
psicoanalista dell’epoca, Ollie Zweizung, mentre il quarto proviene
dall’opera postuma 45 Mercy Street (1976). Si legge, in queste
poesie della sua maturità, tutta la capacità dell’autrice di trasfigurare
il confessionalismo autobiografico in scenari filtrati da una spiccata,
talora melodrammatica, performatività (non per nulla la Sexton non apprezzò
mai l’etichetta “confessional”, preferendo definirsi una “storyteller”),
come nel caso della famosa The Ballad of the Lonely Masturbator,
audace e ironico canto di riappropriazione del corpo e del piacere
femminile in una società perbenista come quella americana dell’epoca, agli
albori della rivoluzione sessuale. Ma tale riappropriazione, più che
politicamente rivendicativa, discende dalla perdita dell’amante, ed è
quindi frutto di un dolore che in realtà inscena la debolezza e insicurezza
della donna, la quale si sdilinquisce rievocando gli incontri perduti con
il suo uomo e meditando sulle menzogne dell’amore. Anche la splendida Us è percorsa da una forte drammatizzazione poetica, in cui
l’amplesso diviene una sorta di unio mystica dalla quale far
scaturire un oro che è quasi un simbolo alchemico di rinascita corporea e
spirituale. Se l’esaltante esperienza erotica funziona qui da grimaldello
emancipatorio, persino in questo caso la donna risulta volontariamente
agita dall’uomo, da lui liberata dagli orpelli della sua vita borghese e
incoronata principessa. Mentre in Us l’amante è il tramite per
l’estasi, in December 11th – che fa parte di una serie di testi
intitolata Eighteen Days Without You, esito della rottura della
relazione con Zweizung – la sua assenza sprofonda la donna in una solitaria rêverie mnestica improntata, ancora, a
un’appassionata nostalgia per il corpo maschile e i passati incontri
amorosi. Infine, la traboccante sessualità di The Fierceness of the Female si confronta con un Dio-amante al
quale offrire un orgasmo che è insieme grata affermazione vitalistica per
l’eros e proclamazione di una “fierezza femminile” che va oltre il maschile
e sfida persino il divino disincarnato. Perfetta bussola per la ricchezza e
reversibilità dei ruoli amorosi nella poesia della Sexton è, in fondo,
l’epigrafe che, da un saggio di W.B. Yeats, introduce proprio Love Poems: «One should say before sleeping, “I have lived many
lives. I have been a slave and a prince. Many a beloved has sat upon my
knees e I have sat upon the knees of many a beloved. Everything that has
been shall be again.”»[1]. (chiara serani)
[1]
«Ci si dovrebbe dire, prima del sonno: “Ho vissuto molte vite. Sono
stato uno schiavo e un principe. Molti amori ho tenuto sulle
ginocchia e sulle ginocchia mi hanno tenuto molti amori. Tutto ciò
che è stato, di nuovo sarà”» (traduzione C. Serani).
Continua a leggere "Anne Sexton, poesie tradotte da Chiara Serani"
Martedì, 17 ottobre 2017
Davide Castiglione - Non di fortuna - Italic 2017
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Ho già scritto qualcosa su Davide Castiglione (v.
QUI
), a proposito del suo Per ogni frazione, uscito per Campanotto
nel 2010. In quell'occasione terminavo l'articolo con una sospensione,
aspettando di "osservare Davide alle prese con qualcosa di più progettato",
dopo aver sottolineato non pochi elementi di interesse in un libro forse un
po' frammentario ma dotato di "una sorta di raffinato understatement
emotivo di discreto effetto".
Credo che un po' delle cose che scrissi allora debbano essere accantonate,
non necessariamente nel senso di "meglio o peggio di". Semplicemente o le
cose cambiano o si assumono come parte dello stile di un autore, di una sua
maniera di vedere poeticamente la faccenda.
La poetica di fondo mi pare infatti che rimanga immutata. Una inquietudine
a volte irrelata, cioè non esattamente definita nelle sue motivazioni, che
si riflette sulla realtà o da essa proviene, mediante una osservazione
bifronte o bidirezionale, non sempre attivamente esercitata, ma semmai
riverberata in uno spleen il più delle volte solitario, una
cogitazione riguardo all'essere lì e in quel momento,
dove però "giustamente è tardi", "tutto è appena", essendo "fuori tempo
massimo". Si ha in effetti, leggendo questo libro, l'impressione di una
ricerca di collocazione nel reale, in cui però il caso, e non la volontà,
abbia una parte preponderante (anche nella fornitura di "occasioni"), e
dove la scrittura cerchi di mettere ordine, cedendo però talvolta alla
tentazione di mimare il disordine stesso del caso. Se si ottiene così un
effetto di scoppio ritardato, Davide ha però ben presente la necessità di
cogliere, in questi nodi, quanto vi è di poetico o di registrare quelle
piccole manifestazioni epifaniche che nel quotidiano (il tempo è quasi
sempre, anche qui, uno scorrevole presente) si incistano. Il problema (e la
necessità) della poesia di questa ispirazione, o con questa linea, sta nel
dilemma tra trovare e cercare il poetico, con una ricerca
che - rispondendo ad un bisogno di deformazione del tangibile "ordinario" -
è affidabile solo al linguaggio, alla sua capacità di trasformare
l'impoetico in poetico (ovvero, secondo un pensiero leopardiano,
nell'illusione che allontana la visione del nulla). Dico questo perché non
sempre è possibile trovare, nel qui e ora - e scriverne -,
un'illuminazione, un simbolo, una parafrasi dell'esistenza, senza, diciamo
così, lasciar fare un po' anche all'immaginazione, andare a vedere cosa c'è
davvero dietro e sotto, o inventarlo. Castiglione ha un
certo talento, per quanto discontinuo, nel fare questo, nel tentativo cioè
di dare una lettura sovrareale alle cose, e mi ricordo di aver parlato, a
proposito del suo libro precedente, di "corti circuiti poetici addirittura
eccellenti", forse in quest'ultimo lavoro un po' più dispersi. E' una
poetica dell'esistente, e quindi di un habitat, da abitare e forse
adattare alla propria sensibilità, nel quale le memorie non si sono ancora
sedimentate, è tutto ancora in divenire, da farsi, un divenire tuttavia in
cui il tempo ci sorpassa, come dicevamo prima, e questo farsi non sembra
implicare una speranza, un investimento nel futuro. E' tutto molto attuale,
da questo punto di vista, e tutto molto individuale, voglio dire
dietro c'è una generazione e insieme non c'è, c'è qualcosa di
critico e non c'è, c'è insomma una solitudine. Da un altro punto
di vista, divergente, in Per ogni frazione mi pareva ci fosse una
diversa aderenza alla realtà così com'è, o più flânerie, proprio
nel senso baudelairiano del termine, uno sguardo su una realtà che però era
forse possibile mutare simbolicamente. Ora la proiezione del tempo in
Davide è decisamente cambiata, mi pare più frantumata e disillusa, per
quanto anche allora lo fosse, vi fosse una questione in sospeso, un punto
interrogativo sotto traccia riguardo alla leggibilità degli accadimenti. In
alcuni testi questa sospensione ripiega in una oscurità del dettato non
sempre traducibile, che a volte prende le mosse da un oggetto, evento,
fatto sfumato o criptico, come una conoscenza esoterica che compete a
pochi. E' vero che a questo concorre una padronanza della lingua notevole,
a volte funambolica, con costruzioni a volte precipitanti, paraipotattiche
e seriali subordinate nelle quali il dubbio, l'interrogazione, la domanda
inevasa nuotano a proprio agio, sfociando non di rado in qualche postura
filosofica. E' pure vero che in questa scrittura capita anche di incontrare
qualche ingenuità, qualche forzatura, qualche jeu de mots palese
che non ti aspetteresti: "a brutta posta", "lo propelle una passione
gelida", "fatto sta che / ma il fatto non sta", "iniziare e frinire",
"commutano: nel senso del fare / avanti e indietro", "confessa chi fa gli
orrori di casa", "l'opera di sapone, soap, / sob", "gli animaletti sbadati
eternati nel bitume". Ma anche questo credo che rientri in una ricerca e ne
sia un po' lo scotto da pagare, Davide è un critico troppo raffinato (altra sua
attività che apprezzo molto) per non saperlo e prendersi qualche rischio.
Assumiamolo semmai come specimen di una qualche pressione sul piatto significante della bilancia espressiva. Sbilanciamento che
tuttavia (generalmente parlando, non solo nel caso di Davide) può
contribuire egregiamente a quella "obliquità" o significanza (superiore
alla informatività del significato) della poesia a cui allude M. Riffaterre
("la poesia esprime i concetti e le cose tramite obliquità. In parole
povere, una poesia dice una cosa e ne significa un’altra"). E' solo un
problema, direbbe un pianista, di pedale.
Di che parla la poesia di Castiglione? Be', in parte l'ho accennato, parla
di star solo sul cuor della terra, ma senza una singolarità che rischi di
farsi massa critica, che sia prodromo di tempi diversi, parla di un "io
immerso nel divano", che "non [sa] scegliere né rinunciare". Il giorno, il
presente di cui ho parlato altre volte, non può che avere la sua
ripetizione come condanna. C'è anche una privatezza, che qui ad esempio
trova la sua espressione nella sezione, appunto, "Privati", che peraltro è
a mio avviso la migliore, forse perché mi pare essere quella in cui di più
Davide parla di sé, più direttamente lega l'esperienza al suo sentire anche
lirico, senza troppe intermediazioni, dove anche il paesaggio urbano,
postindustriale, appare dotato di una sua umanità, per quanto residuale,
perfino di una certa affettività. Ma lo sguardo sulle cose, anche sui
rapporti sociali, sembra non solo disilluso ma volutamente privo di
emotività, come se si fosse ulteriormente allontanato quell'io
"immediatamente al di fuori del cerchio degli accadimenti, a volte un
interessato osservatore esterno, a volte uno che attraversa come un
passante l'area poetica per poi lasciarsela accaduta alle spalle" di cui
parlavo a proposito del libro precedente.
Il versante opposto è in qualche caso anche acribico, uno sguardo gettato
su una realtà microscopica, pixellizzata (e quindi scontornata), dalle
stelle agli acari, quasi che il calarsi nella realtà fosse un
attraversamento di strati e livelli, come in certi film dove il satellite
zoomando si cala nel poro della pelle del protagonista. La realtà cambia se
la si guarda da molto vicino? (ma qui bisognerebbe per l'ennesima volta riaprire
il discorso sul divario tra realtà e reale). Temo di no, temo che sia
troppo complessa per poterla sistematizzare in questo modo. Rimane certo il
grido solitario e cocciuto di fronte al vuoto, non potendo comprendere ciò
di cui si fa parte come minuscolo frammento, come la scheggia di uno
specchio immenso, against the fog but part of it, come recita un
esergo di Sean O'Brien. E non posso fare a meno di trovare, oltre agli
esiti letterari, qualcosa di eroico in questa battaglia perdente, che non è solo di Davide e di altri della sua generazione, ma nella
quale Davide è un buon soldato, con le sue armi, con le sue paure, le sue perlustrazioni in terre di nessuno, le
sue ritirate. (g. cerrai)
Continua a leggere "Davide Castiglione - Non di fortuna"
Domenica, 8 ottobre 2017
Fabio Orecchini - Per Os - Sigismundus Editrice, 2016
Conosco Fabio da un po', seppure alla lontana come permettono i mezzi
attuali. Lo conosco almeno dal 2011 (v.
QUI
), da quello che posso considerare, per quello che ne so, l'inizio di un
percorso poetico (ma non solo) attraverso una realtà che per lui non era
possibile accantonare o considerare come elemento illeggibile e buonanotte,
o qualcosa da aggirare "ermeticamente", come intorno a un idolo di pietra
che ci restituisce indietro l'eco dei nostri inutili lai, ancorché alti.
Almeno da Dismissioni la realtà ha una faccia precisa, si
manifesta concretamente come espressione del potere totalizzante, una
feroce sineddoche, una parte che si prende il tutto, in una lotta (di
classe? perché no?) che lascia sul terreno vittime altrettanto reali. Il
punto di caduta si realizza nei luoghi dove si condensano le dinamiche e
gli attriti tra singoli e sistema, dove la chimica e la fisica degli
scontri residuano sul campo scorie significative, e ferite. Dove i nodi
vengono al pettine. E' il lavoro, è l'ambiente, è la vita chiusa in un
cerchio produttivo/riproduttivo regolato quasi sempre da altri. E' il
cataclisma, il disastro , qualcosa cioè che in principio attiene a qualcosa
di destinale, ma che poi ricoagula rapporti asimmetrici tra singoli e
sistemi, tra colpiti e chi è chiamato a fornire una risposta. Dismissioni era, come scrivevo, il libro "di una
tragedia, anzi di una catastrofe industriale, del lavoro, della salute,
della disgregazione sociale e familiare che a quella catastrofe si
accompagna, la chiusura degli stabilimenti, il loro smantellamento e -
prima, contemporaneamente, dopo - lo smantellamento chirurgico di chi ci ha
lavorato rimettendoci i polmoni"; qui invece lo spunto di una riflessione
poetica è il sisma che ha colpito L'Aquila e il territorio circostante, non
tanto nella sua immediatezza quanto nella sua sedimentazione di strati,
fisici e morali, da cui è necessario risalire dolorosamente alla
superficie. In altre parole (quelle di Fabio), una "allegoria della crisi
antropologica e politica del contemporaneo".
Dette così le cose, potrebbe sembrare che il lavoro di Orecchini sia
ascrivibile alla vasta e indefinita categoria della poesia (o altra arte)
civile, categoria che quasi inevitabilmente porta con sé almeno due
connotazioni, una "politica" (nobile quanto rigida), e una "realistica"
(idem come sopra). A me pare, in realtà, che l'espressione artistica di
Fabio (scrittura e non solo) sia sufficientemente moderna (e forse post-)
da sfuggire a certe secche, soprattutto perché i "luoghi" di cui si diceva
sono qui eminentemente metaforici (o metonimici) ma anche - e forse qui in
maniera precipua - luoghi del linguaggio, dove il linguaggio riprende la
sua forza ove si libera da schemi per così dire "economici", legati ad una
produzione di senso di basso livello. Quindi, tuttavia, politica
lo è, ed è certo, se mi si passa un aggettivo un po' desueto, militante,
anche nel senso dello studio della materia e della ricerca "sul campo" che
sta dietro a questo lavoro. Un approccio complessivo a cui Orecchini non
può rinunciare, può solo sottoporlo a critica, rivederlo, saggiare il suo
grado di adattabilità all'oggetto della sua attenzione artistica.
Ci sono diversi livelli in quest'opera, come già nella precedente, un
lavoro non facile da descrivere. Direi che Fabio ha portato a maturazione
espressiva un formato di fruibilità multipla, per canali diversi. Anche
questo libro non è solo un libro. E' un testo, riguardo al quale
occorre tener conto della sua struttura, della sua forma grafica, della sua
lingua; è nello stesso tempo Terraemotus, una
installazione multilivello multimediale (anzi intermediale), che dopo aver
girato varie collocazioni ora è
in rete
(e quindi fruibile senza allontanarsi dal testo ma che col testo
canonicamente inteso ha un rapporto non strumentale nè di mero supporto
iconico, ma apporta semmai una somma di prospettive, la generazione di una
biosfera culturale a sua volta generativa, diversa da quella della seconda
edizione di Dismissioni, per la quale parlavo di "estensione
ipertestuale"). Come libro si affida ovviamente alla parola, anche qui a
diversi livelli. Per os è termine medico, ed è una via a doppio
senso, attraverso cui entra la medicina, esce talvolta il male, qualcosa si
installa e si espelle. "Per os, - scrive Fabio - per bocca e per
la bocca, somministrate siano le parole, le poche che restano". Questa
rarefazione delle parole mi pare che rappresenti diverse cose, tutte
importanti, che Orecchini vuole far risaltare: la perdita di parole è
perdita di potere, anche senza scomodare Foucault, perdita di voce
antagonista, delle "parole per dire"; è perdita di voce, progressiva
estinzione del fiato, lamento che proviene da sotto macerie reali e
simboliche, che si affievolisce e tuttavia non cessa di lanciare il proprio
grido di protesta, di rivendicazione di un diritto (alla vita, ad esistere,
ad essere identità rilevabile) irrinunciabile; il diradarsi delle parole
nel bianco della pagina, rappresentazione grafica, eidetica di questo
"resto" di parole, che diventa manifesto politico proprio perché,
paradossalmente, questa rarefazione non decade - anche retoricamente - a
mero slogan, cioè non si semplifica. Non parla troppo e
tuttavia dice molto, come un cieco che non vede ma vede oltre (ilTiresia di Giuliano Mesa che lo stesso Mesa recita nel Livello -2, Sismografie, della installazione). Siamo, in altre
parole, nel campo dell'epos degli sconfitti, un epos moderno.
Naturalmente il linguaggio, specie per un esploratore come Fabio, non basta
più, anzi tende a somigliare mimeticamente ad altro con cui entra in
simbiosi, che sia esso ciò che tenta di descrivere, la maceria, le scorie,
oppure i mezzi di espressione comprimari con i quali peraltro è difficile
competere, per ovvie differenze di codici. E' un'altra delle ragioni,
credo, di questa frantumazione linguistica. Tuttavia queste poche ma buone
parole, a volte lacerti, esclamazioni, ma comunque ben pesate, bastano ad
articolare un discorso efficiente ed efficace, un testo strutturato in sei
sezioni intimamente correlate: Ananke | I due mondi, ovvero
l'elemento destinale ma anche la "necessità di riconnettere", come dice
Fabio, i frammenti di un dolore profondo siano essi psichici, fisici o
mnemonici; de generare | la casa dentro, con un esergo che recita
"la verità rende ciechi, la cecità tutto più vero" (che vedremo poi a che
rimanda), una visione "esplosa", come si direbbe in termini tecnici, come
di interni visti dall'esterno, anche qui fisici e psichici, similmente a
case sventrate dal sisma, in cui da fuori si vedono suppellettili, oggetti,
intimità; per os | somministrare parole, è "il fuoco di parole che
devasta / mentre tutto d'intorno si tace", i perché senza risposta, "il
fallimento dell'immortalià / domestica di morire non senza aver pulito" e
insieme la parola gettata come una rete di salvataggio, " una vocec'è qualcuno? / che crepa nel muro / crepa"; OO | la memoria della crisi - SS | la crisi della memoria, ove -
ipotizzo - si recita il dramma degli equivoci di una memoria che da una
parte registra (la crisi, il dolore, la morte ed è - ipotizzo ancora -
memoria dei singoli, delle vittime, dei superstiti) e dall'altra è pronta,
a-criticamente, a ripercorrere i consueti circoli viziosi o errori ed è la
memoria corta collettiva (singoli compresi), istituzionale, è in ultima
analisi "[ l'assedio della Storia // sedimenta ] si dimentica";
segue Ifigenia | sequenza mancante, che sembra affrontare
l'incomprensibilità, quasi decimatoria, del sacrificio, del caso che uccide
i giovani e risparmia i vecchi, come l'anziana signora quasi centenaria di
cui raccontano le cronache, che sotto le macerie attende i soccorsi
sferruzzando il suo uncinetto e tuttavia, col recupero, avviene una "assunzione" al cielo, una rinascita, una dilazione del tempo (ed è la sezione in cui più la scrittura si
dirada, diventa pura fonazione, lamento, annotando qui che il linguaggio
continua a rarefarsi, poiché, come giusto, fa le spese del suo emittente,
il corpo medesimo, la sua crisi di elemento sempre più periferico del mondo
e della natura, perfino quando vittima che non capisce. Il linguaggio
allora diventa articolazione, gemito. Magari dovrebbe farsi bestemmia, ma
questo è un altro discorso, ci vorrebbe una dimensione del sacro che non ci
appartiene più. Del resto, come dice Giuliano Mesa in un esergo, "Non c'è
che questo andarsene dal dire"); infine a chiudere la sezione iato | apertura delle ore, che immagino il tempo sospeso, e che
pure c'è, tra la fine dell'evento e la ricomposizione di una realtà del
"dopo", "tra rimozione e rigenerazione", come fosse la contemplazione
immota della polvere che silenziosa si riposa sulle macerie.
Varrebbe la pena di accennare a quanto avviene sul versante installativo,
come è possibile vedere al link riportato. Ma credo che sia un'
esperienza
da fare direttamente, dedicandoci il tempo che ci vuole, immaginando
l'installazione come uno spazio da attraversare, dove il percorso è
verticale, ma contrario, è un diverso scavo, va verso l'alto (da Livello -2
a Livello 2), verso una uscita, l'aria, il cielo, del corpo, attraverso le
barriere fisiche, e della voce, che urta i denti quasi a spezzarli, forse
anche della ricerca di una verità non necessariamente raggiungibile, ma
sempre necessariamente perseguita. Immaginandola come un luogo fluido, a
suo modo sismico - come le sismografie (v. ancora il Livello -2
dell'installazione) di Fabio, "trascrizioni continue, che avvengono in
disgrafia autoindotta, su rulli di carta", di alcuni versi sempre di Mesa -
ma potente produttore di senso. Immaginandola insomma come un luogo del
pensiero, da cui forse proviene il testo, o a cui forse approda. (g. cerrai)
Continua a leggere "Fabio Orecchini - PER OS"
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