Lunedì, 26 giugno 2017
Viviana Scarinci - Annina tragicomica - Formebrevi edizioni,
2017
Mi pareva di conoscere il lavoro di Viviana Scarinci, di avere qualche
chiave per penetrare la sua scrittura. Un lavoro che complessivamente
apprezzo, come apprezzo le qualità intellettuali di Viviana. In altre
occasioni avevo scritto alcune note su di lei e le sue cose, in particolare
su Piccole estensioni, con cui aveva vinto il Montano (v.
QUI
) e su un altro lavoro dal bel titolo L'amore è una bestia cronica
, fatto in collaborazione con il pittore Sergio Padovani (v.
QUI
). Avevo inoltre letto, anche senza poi scriverne, La favola di Lilith, una pièce breve in due atti in collaborazione
con Edo Notarloberti (Ark Records, 2014, con CD), un lavoro ambizioso e
interessante, in cui viene messa in scena, come simbolo protofemminista
della donna che guarda al cielo, aspira a congiungersi con Dio e non vuole
sottomettersi all'uomo, colei che secondo la tradizione cabalistica fu la
prima moglie di Adamo, ma anche, sempre per tradizione, portatrice di
elementi demoniaci. Avevo anche avuto modo di leggere qualche estratto di Il significato secondo del bianco, da qualche parte in rete.
Insomma, mi pareva di avere qualche strumento più o meno adatto all'uopo,
pur nella consapevolezza che quella di Viviana non è una scrittura facile,
che nel tempo è andata connotandosi, mi pare, per una ricerca soprattutto
sul linguaggio e sulle sue pieghe. Ma devo dire che questo Annina tragicomica mi crea qualche difficoltà di "ingresso". Che
la prefazione di Anna Maria Curci non contribuisce a risolvere del tutto,
dato che dopo averla letta mi rimane l'impressione che pur abilmente abbia affrontato il lavoro come un kubrickiano monolite.
Diciamo intanto che non si tratta di un livre de chevet, da
leggere distrattamente. Ha bisogno dei suoi tempi e di riletture
organizzate. Ma provando e riprovando, come gli accademici del Cimento,
alcune cose mi pare siano emerse. La prima riguarda indubitabilmente il
tema di fondo, quello che potremmo chiamare il basso continuo o il
canone ricorrente. Il libro intanto non è una raccolta, termine che sarebbe
fuorviante. Rientra immediatamente in quellla forma lunga che in questi
ultimi anni sembra essersi riproposta, che sta tra il poemetto strutturato
e la legatura (usiamo un altro termine musicale) di brani che per
semplicità diciamo di prosa poetica o prosa in prosa. Lo dico per
intenderci, prendendo comunque atto di quanto scrive Viviana in una nota
finale, rifiutando qualsiasi capziosa catalogazione in questo senso (e mi
pare che sia pacifico - anche - che ogni autore non ami essere catalogato),
quando afferma che "mi è capitato di ritrattare la parola verso
anche dal suo etimo, in favore di una scrittura senza quell'argine,
cercando qualcosa che si adattasse meglio alle complessità in perenne
transito (...), senza sconfinare nella prosa". Qui ci sarebbero da dire un
paio di cose, ma ne parliamo più avanti. Sono due le sezioni del libro, ben
intravate all'interno di ciascuna e tra di loro, Bambole e bambine
e Annina tragicomica, titolo eponimo. entrambe di trentacinque
testi. I titoli, qui, danno i protagonisti, gli attori, e i temi. L'idea e
il pensiero di Viviana, diciamo la missione, continuano, come nei lavori
precedenti ma a diversa profondità, l'indagine non tanto sulla condizione -
che è termine sociologico - quanto sullacostituzione in essere
della donna, del suo divenire ed essere - nel corso della storia e
contemporaneamente - natura generante e catalizzatrice di colpe, educatrice
ed educanda, forza ctonia e elemento celeste, figurante generica e
protagonista, e così via ma sempre nell'ambito di una percezione, certo
tutta maschile, per così dire verticale, che la guarda o in alto o in
basso, a seconda. Ma soprattutto, io credo, la sua capacità (e la capacità
dell'autrice) di interpretare e leggere lo spazio siderale che sta (citando
il Mesa presente in un esergo) tra "lo spreco di minuzie" e "il senso degli
atti", mediante (cito Curci) "altre modalità di accesso alla conoscenza". E
un'indagine che, aggiungerei, si sposta da un ambito più o meno privato ad
un altro più universale. E' un'interpretazione possibile? Forse. Che lo
sguardo sia femminile, e non solo per questioni autoriali, non c'è dubbio.
La bambole e le bambine, Annina e le sue derivazioni (Annie, Anna, Annetta,
eteronimi, alter ego bifronti...) sono lì a dimostrarlo per indizi.
Minuzie, frammenti, frammenti di frammenti. Che da questo si possa risalire
al senso, ricostruirlo, è l'ambizione e il miraggio di parte della poesia
italiana contemporanea. Che a volte ci si avvicina abbastanza. E' questa
può darsi la (una delle) "modalità di accesso alla conoscenza" di Curci. E
indizi, dunque, che sta al lettore reperire. Indizi che non è facile
estrapolare se non trascrivendo interi testi, perché intimamente intrisi
come elementi chimici nella fibra testuale, nella poesia (o prosa) stessa.
Sono i testi medesimi che si prestano ad una lettura polifunzionale, per
così dire, che offrono la possibilità al lettore (l' "apertura" del testo)
di sovrapporre un dato ideale o l'altro, una fiction o l'altra,
una immaginazione o l'altra, senza che tuttavia gli sia possibile
dirottare, nell'insieme, dalla visione che è di bambine, bambole, Anne,
Annette, e ovviamente dell'autrice (la corrispondente "chiusura"). Che qui
elabora la riflessione costante e evidente che certo ha animato Viviana
come donna anche al di fuori di un ambito "finzionale". Vedere, come
piccolo esempio abbastanza superficiale, il brano 20 qui riportato, che
agisce per lo meno su un doppio binario, uno puramente narrativo, l'altro
culturale e metaforico, senza contare tutte le evocazioni della
parola/target "malaffare". Penso che questa lettura polifunzionale sia
dovuta a un certo grado di neutralità della lingua adottata, parlo di
neutralità emotiva che non "pilota" necessariamente verso direzioni
specifiche, parlo anche della selezione semantica, della voluta ambiguità
di un tono talvolta verbalizzante, delle tecniche di disallineamento
sintattico o di diacronia, come ad esempio la sospensione delle clausole
(chiusure) in certe catene sintattiche, che tende a rivoluzionare
l'aspettativa ordinaria di chi legge, e così via. Un effetto anche molto
affascinante, come l'osservazione di un frammentato ma continuo pensiero
dominante.
Ci sarebbero di sicuro altre osservazioni da fare. Ma lascio in fondo
alcune considerazioni extra corpus, di carattere generale. Mi pare
di percepire in questo lavoro una certa progressiva distanza rispetto a
quelli precedenti, che non è tematica né concettuale. Distanza che è data,
pare a me come lettore abbastanza empirico, soprattutto dal lavoro sulla
lingua, come ho accennato prima, sul livello comunicativo che questo libro
realizza. E' un discorso di una certa importanza, non solo in relazione
all'opera in sé ma anche all'idea di poesia in genere. Su quanto cioè il
linguaggio influisca sull'oggetto della poesia, sul suo tema, mutandolo; se
la poesia debba essere un'arte mimetizzante, piuttosto che
mimetica; e così via (ma sono solo piccole parti della questione). E
soprattutto se la ricerca poetica, come pare sia, debba essere quasi
esclusivamente sul linguaggio, nella convinzione che da esso le cose si
incarnino, che dalla sua torsione, condensazione, astrazione le cose poi
emergano. Se così fosse mi pare ovvio che l'oggetto in sé diverrebbe secondario rispetto al modus. Tanto per fare un esempio ancora
banale, quello che Lilith portava in sé era un diverso
livello di fruibilità e rappresentazione, intendo proprio dal lato lettore.
Naturalmente Viviana è artista troppo intelligente per fare del linguaggio
un mero totem. Per cui la distanza (una delle distanze) è semmai nel grado
di evidenza del contenuto che la sua scrittura trasporta, basti
pensare a categorie forti come il "tragico" e il "comico", qui parecchio
dissimulate; o nel grado di allusione delle tematiche o meglio,
nel lavoro metaforico ma soprattutto metonimico (usiamo in senso ampio
questo termine) di scambio e sostituzione, e non necessariamente per
contiguità e nemmeno reciprocità, tra "oggetti" e lingua e anche tra
segmenti di entrambi. Un'idea, se questa mia impressione è esatta, già di
per sé intrigante ma di estremo impegno.
Siamo insomma testimoni di un percorso abbastanza evidente, di cui Viviana
ha perfetta consapevolezza e padronanza, dagli esiti ancora aperti. E
questo percorso, ripeto, ha un valore e un fascino. Ma anche io credo (e
ora più che mai parlo in termini generali, e forse anche per me stesso) un
limite per così dire "fisico" della scrittura (almeno quella lineare e
semica). Come la conduttività del silicio, la cui riduzione pone una
barriera oltre la quale è difficile andare. (g. cerrai)
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Lunedì, 12 giugno 2017
Alcuni testi tratti dalla bella pubblicazione curata e edita dal gruppo di [dia°foria nel 2015 (v. QUI), un libro bifronte come Giano, con due autori ma completamente dedicato a Nanni Balestrini. Si tratta (il recto) di " Nanni Balestrini - Contromano", otto testi, di cui uno eponimo, e sei opere visuali, più (il verso) "Fausto Curi - Un’ordinata progettazione del disordine", un interessante saggio dello studioso delle avanguardie italiane sul lavoro di Balestrini, il cui titolo - almeno a me vecchio compulsatore di Gadda - rimanda alla "disarmonia prestabilita" di roscioniana memoria (e credo che l'accostamento sia onorevole, e forse non del tutto peregrino). Vale la pena ricordare che nel 2016, sempre per [dia°foria, Fausto Curi ha pubblicato una raccolta di saggi su Balestrini, compreso il succitato, dal titolo "Nanni Balestrini e la poesia come questione" (v. QUI).
Dice Curi nel suo saggio: "Nella letteratura italiana d'oggi, presa, con qualche eccezione, fra ordine banale e disordine incolto, Balestrini è uno dei pochi che hanno capito che il nuovo nasce da un'ordinata progettazione del disordine (...). Per Balestrini comporre un testo poetico non significa soddisfare un'esigenza espressiva personale, soggettiva. Significa costruire un pezzo di realtà. Ciò non implica, né d'altro canto potrebbe, una totale esclusione del soggetto dall'operazione poetica. Tanto più che questa si avvale sempre di strutture verbali prelevate da altri testi, per lo più giornalistici, e consente quindi spesso un accorto gioco di allusioni e di riferimenti che, per essere indiretti, non sono per questo meno significativi. Che Balestrini parli con parole altrui è diventato quasi un luogo comune delle cronache. Ci si dimentica di solito di precisare che la straordinaria abilità e la non meno straordinaria efficacia con cui l'autore compie le sue scelte ed esegue i prelievi verbali e la costruzione di nuovi testi conferisce al discorso poetico una sorta di impersonalità linguistica che è efficace soprattutto nella misura in cui talvolta assomiglia alla asseverazione indiscutibile di certe epigrafi o di certi detti memorabili. Con questo però di particolare, che alla serietà dell'operazione l'autore non manca mai di congiungere un intento ludico, così da creare un singolare contrasto e da attenuare ma non da spegnere eventuali effetti di solennità, o da provocare un imprevedibile grottesco o un'ironia del tutto oggettiva: "che un'altra storia è possibile", "si propone di migliorare il mondo", "trentanni di storia italiana tagliati a pezzi / posò la gallina per terra", "l'abiura. Spesso preghiamo che Dio ci dia una mano / (un cilindro di carta d'amaretto, dateci fuoco in cima...)", "Un uccello / bianco ogni tanto lacera aquiloni nel sole. TEOREMA: / Francesco Petrarca era forse infelice di non avere il caffè?". Balestrini, insomma, parla di sé e di molte altre cose usando non memorabili parole altrui. Ma quelle parole diventano incontestabilmente sue e acquistano una dissacrata memorabilità per il nuovo assetto che egli conferisce loro. Si noti: quando non è essa stessa il senso, è spesso la struttura a decidere del senso. (...) Quelli che convenzionalmente chiamiamo versi sono delle cellule verbali ossia dei sintagmi che quasi certamente Balestrini preleva dai testi di altri autori, testi non poetici ma giornalistici o scientifici. Ciò non significa che egli si precluda ogni intervento, sia pur minimo, e che pertanto un sintagma - al di là di quanto di soggettivo è già presente nella scelta e nel prelievo - non possa essere modificato a piacere dal nuovo autore. Il punto essenziale è quindi in quale modo un sintagma, o se si preferisce un verso, viene congiunto con il sintagma o verso successivo. Senza affatto escludere possibili errori di interpretazione dell'esegeta, Balestrini sembra procedere alternando due diversi modi: 1) per consecutività o per similarità, fornitegli dal prototesto, o inventate da lui stesso; 2) per contrasto o per alterità, ossia per assenza di connessioni proprie della logica comune". Insomma, continua Curi, "la realtà com'è non piace a Balestrini. Ma non gli piacciono nemmeno i progetti variamente elaborati per la realtà come potrebbe essere, non lo soddisfano, non lo persuadono, perché, nonostante la buona volontà di coloro che li hanno disegnati, corrispondono a idee e immagini della realtà com'è. Come non è un naturalista, così Balestrini non è un utopista. Come non penserebbe mai a riprodurre la realtà com'è, così non lo sollecita fantasticare, immaginare mondi possibili. È un realista deluso, inquieto, eretico, e disperato. Ma è un realista. E un realista deluso dalla realtà e che si rifiuta di rifugiarsi nella fantasia non ha altre risorse che usare la stessa realtà per costruire una realtà diversa. Costruire, si badi, edificare, dare forma, non immaginare, se non per quel tanto di immaginazione che è necessario per dare forma a qualunque oggetto. Quello che cerca Balestrini non lo immagina, lo costruisce".
Continua a leggere "Nanni Balestrini - da Contromano"
Martedì, 6 giugno 2017
Ewa Lipska
è una delle voci che più spiccano nel panorama contemporaneo della poesia
polacca, europea ed internazionale. Tradotta in oltre venti lingue (tra le
quali inglese, francese, russo, tedesco, spagnolo e italiano), è autrice
anche di opere teatrali, poesie in prosa e prose poetiche per cui ha
ottenuto numerosi riconoscimenti e diversi premi.
Questa raccolta, “Il lettore di impronte digitali” (titolo originale Czytnik linii papilarnych), pubblicata quest’anno in traduzione
italiana da Donzelli Poesia a cura di Marina Ciccarini, indaga un tema caro alla poetessa, come
si deduce dalla poesia introduttiva “Rebus” (ma anche da altre liriche
della raccolta come “Il Big Bang” e “Il mondo”): ovvero il grido di
sofferenza dell’uomo che non riesce a decodificare il rompicapo cifrato ed enigmatico del mondo in cui è immerso
(“Il mondo / in cui vivevamo / si chiamava Rebus / e se ne infischiava
delle nostre domande”). Eppure quello dell’enigmaticità del mondo è solo
uno dei temi toccati da Ewa Lipska che si sofferma anche sul valore
terapeutico della folla e sull’intimo richiamo del ricordo (“Il banchetto”:
“Nella clinica della folla / ci sentiamo più sicuri. / Innocenti inezie di
ricordi. / Ostriche. Vino. Risate. / Per fortuna / c’è sempre più rumore. /
Un chiasso pulsante di vita), per poi puntare dritto sull’individuo, che
viene colto sia in quanto singolo sia nella relazione interindividuale.
L’individuo unico e irripetibile, come le sue personalissime impronte
digitali, e afflitto da una solitudine che “volteggia…come un aereo da
ricognizione” (La solitudine), si trova alla congiunzione tra il reale e il
virtuale. Il web infatti entra prepotentemente nelle liriche di Ewa Lipska:
da un lato, il profilo virtuale del singolo alleggerisce e anestetizza la
vita reale sublimandola in un una convulsa e compulsiva congerie di “nuovi
eventi”, “nuovi mi piace”, “contatti”, “notifiche”; dall’altro lato, ogni
atto condiviso sul web si moltiplica a dismisura negli altri profili degli
utenti dei social network, con l’amplificato risultato finale di “baciarsi
con miliardi di bocche” (“I nostri file virtuali di corpi / in album / blog
/ in taccuini di conoscenti. / Nuovi eventi. / Nuovi mi piace. / Piacciamo
alla Coca-Cola / a Ronaldo e al Papa / Siamo già / nei contatti / e nelle
notifiche. / Il nostro letto nel diario. / Toccami / e tieni premuto / Ci
baciamo con miliardi di bocche”).
Come il web è visto da Ewa Lipska come un’anestetizzazione della vita
reale, così l’ amore avviene sotto “la tenera narcosi del cielo”, che
libera l’anima dal dolore e induce al sonno e al distaccamento dalla realtà
(“Innamoramento”). Tale distaccamento dal reale può essere solo momentaneo
perché l’amore è fragile e friabile come ghiaccio al sole che alle prime
luci di marzo si scioglie e di esso rimane solo un acquoso collirio (Il
collirio), oppure può durare più a lungo, ma a costo di diventare una
guerra di compromesso perenne (“Nozze d’oro”: “Nel loro matrimonio / alcuni
colpi di Stato. / L’esercito / nelle strade del letto. / Arresti di amanti.
/ Esecuzioni. / Ora / anni dopo / dormono con le spalle alla parete. / Con
una paura analgesica”).
Il discorso poetico di Ewa Lipska, che ha in comune con la poetessa Wisława
Szymborska (che conobbe quando era ancora in vita) le immagini surreali, il
gusto del paradosso e il sapiente uso dell’ironia, si arricchisce inoltre,
nella raccolta, di riflessioni metapoetiche sullo status della poesia. La
poesia è, nell’immaginario di Ewa Lipska, la preda che si insegue, orma a
dopo orma, per tutta la vita (“La caccia”) ma che è e rimane sempre
sfuggente e inafferrabile contro cui i versi abbai ano, guaiscono, latrano senza raggiungerla però
mai completamente: “Un verso randagio vagabonda / nella materia oscura della
carta. / Non ha padroni. L’autore l’ha lasciato / in balìa del destino. Orfano
di parole. /A volte / I versi sono come cani abbandonati / che abbaiano alla
poesia”. (Claudia Mirrione)
Continua a leggere "Ewa Lipska - Il lettore di impronte digitali, nota di Claudia Mirrione"
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