Lunedì, 27 febbraio 2017
Dieci inediti di Emilio Capaccio, già presente su
questo blog con una nota di Ri ta Pacilio dedicata al suo "Voce del paesaggio" e con sue traduzioni di poeti francesi e inglesi (v. QUI). Poesie diverse da quelle che si possono leggere in
quel libro; forse, nella loro scarna presenza sulla pagina, nella
sintesi che realizzano, anche migliori, più risolte. Una poesia
essenziale, in cui agisce una lirica senza egotismi, ridotta a brevi
lacerti pittorici, nella quale i protagonisti (io/tu) si stagliano su un
corto scenario simbolico, privo di una reale concretezza, di oggetti
che con la loro presenza possano rischiare di "abbassare" il testo,
l'effetto quasi epigrammatico che vuole ottenere. Se ci sono oggetti,
essi rimandano subito a una natura, come dicevo, simbolica, traslata:
una pietra bianca "che rotola e cade nell'acqua", l'alzarsi finale del
vento, la bocca che è strumento di una "parola finale", stelle e luna
che sono testimoni di un metaforico firmamento che crolla (un dis-astro,
appunto), un'ala del tutto simbolica che cade e si rialza dall'ortica,
parole (casa, pietra, amore) che pur nella loro finita concretezza (o
forse grazie a quella) danno nome a delle eternità. E poi porte chiuse
che hanno una loro impenetrabile qualità "nera", la notte che è un
imbuto, è "stretta", e quindi non è spazio, luogo, tempo sufficienti,
"non ha salvezza", il bacio, che sarebbe comunione amorosa, è "fallito" o
addirittura è "di medusa", il corpo che è luogo metaforico "dei nostri
intenti" ma dove tuttavia agisce "l'inutile". Tutto sembra scivolare,
con molta leggerezza, verso una malinconica e consapevole dissipazione
di certezze, affettive, sentimentali, esistenziali, un processo in cui
il tempo, passato o attuale, è la macina maestra che prima frange (anche
strutturalmente nell'ambito cioè del testo) e poi raffina (nei finali)
la materia poetica. Non il tempo crudele e vampiresco di un orologio
baudelairiano, semmai quello sfumato e venato di qualche rimpianto di
Léo Ferré, il tempo con il quale "tout s'évanouit". Ricordando tuttavia,
avverte Emilio, che "anche l’assenza è una presenza / condannata ad
esistere", qualcosa cioè con cui bisogna fare i conti. (g.c.)
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Sabato, 18 febbraio 2017
Il Padre innamorato di Marco Onofrio
«Si aprì il varco del piano metafisico… Fu uno scoppio silenzioso di
luce azzurra che gli occhi di carne non potevano vedere».
«I genitori non sono creatori di niente; sono soltanto tramite della
creazione di cui portano il seme…»
Può suonare strano affermare che i settanta paragrafi di cui “Diario di un
padre innamorato” (Città Nuova, 2016, pp. 88, Euro 8) si compone, possano
essere riassunti nelle due frasi con le poche parole qui citate. Ma la
sostanza dell’evento espressivo e comunicativo è quasi tutta qui, se intesa
come premessa, come promessa e come causa. Il resto è quasi tutto negli
effetti e nelle conseguenze che sono “accidenti”, le cose che accadono ai
vivi.
A mia memoria non trovo nelle letterature occidentali un livello di
coscienza paterno, verso una figlia, paragonabile a quello delle frasi ora
prese in esame. Se poi dalle frasi distilliamo le parole, possiamo andare
avanti a chiederci: da dove viene quello scoppio silenzioso di luce
azzurra? Non è l’ossimoro che qui determina il significato, ma il colore:
azzurro appunto; perché non un giallo, un rosa o un altro?
In realtà non l’azzurro, non il rosa né il giallo caratterizzano
metafisicamente il concepimento di un essere umano. Ce ne informa il “Bardo
Tedhol”, l’antico libro tibetano rivelatore della realtà invisibile: se sei
destinato a rinascere in un corpo umano, vedrai la luce verde degli uomini.
La luce azzurra è degli dei, che hanno un grado di coscienza evolutiva
superiore. E allora qui c’è un felice lapsus perché la figlia è, per il
padre, una piccola dea. Il padre infatti pensa la figlia, non ancora
visibile, come una superiore Idea genitoriale che si sostanzia di una fede
trascendentale, di una nuova speranza esistenziale, di una carità
universale: «ti aiuteremo ad essere te stessa, a diventare appieno quel che
sei». A “quel” noi possiamo solo collaborare per favorire la coscienza
della vera identità.
Il passaggio dall’io al noi è un omaggio al genere femminile nel risvolto
materno, che successivi riferimenti preciseranno nel corso della storia di
questa infanzia che si afferma nella nascita. Ma il lieto evento potrà,
potrebbe, non essere lieto?
Qui la paura del padre incontra la complice paura della madre; a lei
affidava metafisicamente e fisicamente il compimento del progetto comune di
una nuova vita. Il parto non dà alla luce solo una mente, un’anima, una
psiche; ma soprattutto una forma corporea terrestre soggetta alla gravità
di questo nostro pianeta, col suo peso carnale, sensoriale, sensibile nella
sua evidenza fisiologica. Quando la luce fisica sostituisce la luce mentale
del padre, l’apparenza della Natura “naturata” sostituisce nella sua
evidenza la superiore Legge “naturante”. E sì, perché la prima luce della
figlia è il padre, come la luce sanscrita PiTRi, da cui Pitti, Pitta, Pater. La madre dunque dà la
figlia alla luce del padre: sembra giusto quindi che sia orgogliosa di una
figlia perfetta come una piccola dea; o si affligga per una figlia
eventualmente problematica. Una buona madre evoluta comprende, nel profondo
inconscio, questa realtà senza bisogno di ricorrere alle spiegazioni dei Rishì. Ciò implica per lei la moltiplicazione dei sacrifici nelle
cure parentali, spesso trepidanti, non solo negl’interminabili
duecentottanta giorni di gravidanza, ma spesso anche oltre i primi
duecentottanta mesi della dimora della nuova anima incarnata nel nostro
mondo, nel disagio culturale della nostra civiltà.
Comunque, di fronte al lieto evento storico felicemente concluso – che il
padre insieme alla madre nelle pagine registra – il sentimento e la ragione
di chi legge celebrano questo libro come un brindisi, poetico e meditativo,
a un nuovo equilibrio umano, sempre meno frequente
nella società odierna, nobilmente impersonato dai tre protagonisti
innamorati ritratti nel diario. (Raffaello Utzeri)
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Domenica, 12 febbraio 2017
Alcune poesie di Juan Larrea (1895-1980), tratte dal libro "Versione
celeste", pubblicato in Italia da Einaudi nel 1969, con la traduzione e
cura di Vittorio Bodini (1914-1970), forse il massimo interprete della
letteratura spagnola, soprattutto barocca e surrealista. Serve
sottolineare innanzitutto che questa edizione costituisce la prima
mondiale della pubblicazione dell'opera poetica di Larrea. Il poeta è
stato uno dei nomi più nascosti (tanto che per un po' è stato creduto un
eteronimo dell'amico poeta Gerardo Diego) della poesia del Novecento,
non solo iberica, che Bodini aveva già preso in esame nel suo importante
testo "I poeti surrealisti spagnoli", pubblicato nel 1957 sempre per
Einaudi, definendolo "il padre misconosciuto del surrealismo
spagnolo". In realtà Larrea è un surrealista sui generis, perché pur appartenendo alla cosiddetta generazione del '27.
di cui l'avanguardia è componente rilevante, se ne è tenuto appartato,
ed è semmai con la sua permanenza a Parigi (dove insieme all'amico César
Vallejo conosce e frequenta Eluard, Tzara, Aragon, Desnos ed altri)
che entra in contatto con il surrealismo militante. E tuttavia, come
scrive lui stesso, "del movimento ho utilizzato solo quelle tendenze che
mi erano affini, ma non mi compromisi mai con esso. Anelavo anch'io a
trasferirmi in un'altra realtà, ma in maniera differente". In realtà,
mentre altri lo annettono ai cosiddetti "creazionisti" o agli
"ultraisti", è proprio Bodini a volerlo includere nella categoria del
surrealismo, pur ammettendo implicitamente che quello di Larrea è un
linguaggio tipico e personale, tanto che "il suo generico debito verso
Tzara non è maggiore di quello di ogni altro surrealista francese e
europeo". L'acquisto principale di Larrea in Francia è invece la lingua
in cui sono scritte molte delle poesie originali del libro, il francese
"che è la lingua franca della rivolta, il segno linguistico della
categoria del surreale che si fa linguaggio internazionale della
comunità dei poeti, data la sottonazionalità dell'inconscio collettivo.
Ciò che egli cerca è l'estensione dell'io sino ad includere i più remoti
angoli dell'universo, l'annessione dell'altra faccia della vita, sogno e
inconscio, la dislocazione di sé, la moltiplicazione del reale in
ipotesi" (Bodini). Ed è lo stesso Larrea ad affermare: "Non invano avevo
iniziato a svincolarmi dalla Spagna degli anni '20, fino ad arrivare a
comporre i miei testi poetici in francese. Mi ero estraniato dalla
poetica peninsulare, come fecero ugualmente nel loro campo i pittori".
Come scrive ancora Bodini, "Larrea attinge dal subliminale materiali
psichici junghiani carichi di retroscena, di vicende stregate e amabili,
che ci seducono senza conoscerle, ma fra cui nondimeno s'affaccia con
una qualche costanza una serie di cieli capovolti, di un cosmo
ribaltato, ma senza degradazione, con pazienza, nel fondo
dell'individuo, intrecciato ai suoi fili, alle sue relazioni più
personali". Da questi materiali Larrea trae una scrittura che affascina e
stimola, nella quale "i sostantivi nascono simultaneamente coi loro
sorprendenti predicati, e questo è già il segno d'un poeta di razza. Ma i
predicati sono azioni o relazioni fra le cose: la fittissima rete che
vengono a istituire fra di esse fa sì che l'universo di Larrea, unitario
e sensibile, si risponda da una parte all'altra, pronto a registrare
fino alle più insospettate lontananze il più piccolo evento o la più
piccola coincidenza che si verifichi in qualsiasi punto di esso", dice
inoltre Bodini. Che aggiunge: "ribadiamo la convinzione che ciò che
conta nella sua fabbrica poetica non siano gli oggetti ma le relazioni
che si vengono a creare fra di essi e fra essi e il poeta, la
equidistanza che egli riesce a mantenere, il suo andare e venire fra il
cuore e il cosmo nella loro più rigorosa oggettivazione". Se il testo
può apparire difficile (ma mai artefatto o "falso") quindi è perché, mi
sento di aggiungere, il poeta osa operare "tale prodigiosa dislocazione"
di sé, delle relazioni, del linguaggio. Basterebbe questo per
restituirgli il posto che merita nella poesia del Novecento, non solo
spagnola. (g.c)
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Domenica, 5 febbraio 2017
Avevo già scritto qualcosa sul lavoro poetico di Ivano Mugnaini qualche anno fa (v. QUI)
e in quelle note mi pareva di aver individuato alcuni tratti salienti
del suo modo di vedere il mondo e la poesia. Ora mi manda qualche
inedito che troverà collocazione in un suo prossimo lavoro dal titolo,
penso definitivo, di "La creta indocile", e in questi testi io lo
ritrovo. Ivano è un poeta solido, anche nel senso di una fedeltà a sé
stesso e ad una tradizione però assimilata e "riscritta" in maniera del
tutto personale, molto poco crepuscolare. E' fedele ad un mondo, alle
sue manifestazioni sensibili, anche minime, e al significato che esse
riverberano sulla vita, e nelle quali il tempo vissuto o "salvato"
agisce da attore principale, anche in queste poesie. Un mondo niente
affatto ristretto, per quanto Mugnaini sia con tutta evidenza un uomo di
grande riservatezza, uno che tu immagini vivere e scrivere (non solo
poesia ma anche bella prosa) al suo tavolo da lavoro in un piccolo paese
della provincia lucchese. Non ristretto perché certamente cultura e
immaginazione, capacità di lettura dei "segnali" e reinterpretazione
dei medesimi, permettono a Ivano di addivenire ad una stesura del testo
complessa e articolata di sfumature, ma assolutamente leggibile, anzi
godibile perché parla con un linguaggio poco ellittico, che tende a
portare il lettore, senza alcuna sentenziosità, dritto al centro della
questione, a quella domanda esistenziale che è di tutti. Non c'è ragione
di dubitare che la creta di cui dispone Ivano sia indocile, presenti
qualche opposizione a lasciarsi modellare, poiché si tratta dell'essenza
stessa della poesia, linguaggio espressivo quanto mai "costoso" (per
dirla con Barthes) o dispendioso, se preferite, proprio in termini di
comunicazione. Ma si percepisce nelle poesie di Ivano come una
gratitudine verso questa indocilità, nei confronti della sfida che
questo materiale poetico gli propone quotidianamente. Una gratitudine
che alla fin fine è per la vita stessa, per gli incroci che essa
presenta al poeta di giorno in giorno, tanto che sembra di percepire in
questi testi addirittura, in una certa misura, un sentimento sottilmente
religioso, il sentimento di un uomo che si trova in mezzo al creato ma
non lo domina, forse non lo considera un dono su cui l'uomo ha una
biblica primazia, cerca solo di capirlo. Un cielo trascorso da nuvole
che diventa innesco e fondale di ricordi; il ritrarsi, anche con un
certo orgoglio, dal "sentire comune" proprio per abbracciare idealmente
il mondo, per comprenderlo; il gettare uno sguardo anche ironico sugli
altri, sui compagni di un viaggio che è anche metaforico, su una realtà
che può apparire periferica, e che non è solo fisica ma costituisce
anche un'enclave psicologica e un ethos. Sono alcuni dei temi di queste
poesie, che nel loro insieme delineano un'area ideale in cui Ivano si
riconosce e si muove come autore agevolmente, in cui il tempo, quello
salvato, quello dei ricordi o quello delle parcelle di vita che Ivano si
annota, sembra benevolmente rallentare, indugiare quel tanto che basta a
farsi cogliere, a farsi vivere pienamente. (g.c.)
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