Mercoledì, 28 settembre 2016
Caterina Davinio - Alieni in safari - Robin edizioni 2016 (con testo inglese a fronte a cura di David W. Seaman e 42 fotografie scattate dall'autrice)
Forse in certi luoghi della Terra dovrebbero averci fatto l'abitudine, ormai. L'abitudine cioè a quegli "alieni" di cui parla Caterina Davinio nel suo
ultimo libro. Fotografie e versi, scatti e impressioni poetiche dal mondo esotico frequentato da occidentali che però non sono più Pierre Loti, né Bruce
Chatwin, ma nemmeno (o almeno si illudono di non essere) i turisti charter frustati dal tempo e "pacchettizzati". Alieni perché, come dice l'autrice in una
nota, perché siamo "stranieri senza radici, che amiamo perderci per imparare qualcosa di noi che non sapevamo, atterrati da un'astronave in paesi ignoti",
ma - aggiunge Francesco Muzzioli nella prefazione - "restando inevitabilmente 'intrusi', 'estranei' e 'illegittimi' in un contesto che non ci prevede e che
la vacanza non basta ad approcciare". E allora a che serve il viaggio, magari ritornando negli stessi posti? Io mi fermerei qui, a questa interessante
contraddizione tra il cercare (forse) qualcosa e l'essere intrusi, estranei e illegittimi (forse anche a sé stessi). Se si pensa a questo, forse allora il
viaggio non diventa altro che un transfert dell'immaginazione, un vedere il mondo come lo si immagina che sia, anche magari dal punto di vista di una
"cultura" di cui ci si è imbevuti; oppure un "divertimento" nell'etimo del termine, cioè un deviare dal percorso usuale, e allora, alla fin fine, ti viene
il sospetto che equivalga a un "voyage autour de ma chambre", cioè a vedere il tuo mondo da un'altra prospettiva, cercare di vedere te stesso meno alieno di quel che ti senti.

Io credo che nel libro di Caterina ci sia anche questa consapevolezza, a conti fatti, di una impossibilità, in un mondo globale, di delocalizzare la
propria identità, di spostare i problemi, di essere diversi da quello che siamo (e del resto Caterina dice ne La mia nascita: "Fin da allora fui
io" e "Dove fui sarò"). L' "altrove" è ovunque e l' "altro", rimbaudiano che sia o meno (cosa più probabile), è sempre più uguale a noi. Il pittoresco
locale porta i Ray Ban, il leghista nonsiammicarazzisti e aiutarlincasaloro te lo ritrovi in Kenya. Viene meno il mondo diverso,
"innocente" e parallelo della cultura alternativa, rimane un sentimento profondo, forse un po' melanconico e nostalgico, rimane il conforto prezioso della
vastità della natura, dell'oceano, del mondo che puoi ancora contemplare popolandolo di pensieri, di dei benevoli e laici, di poesia. O anche un mondo
visto dal di fuori, dall'alto, come farebbe appunto un alieno a bordo di un'astronave, ma non in arrivo bensì che si sta allontanando dopo una fuga
precipitosa da una catastrofe, come avviene in testi come Il pianeta o L'Italia vista dallo spazio. Caterina è brava a rendere questi
sentimenti basici, fondamentali. O quelli di un ritorno, forse non meno "alienato", a casa, ai luoghi natii, alle città nostrane (Roma, Lecco, Heidelberg,
Novoli in Salento), luoghi dell'affetto e della decantazione di un percorso ellittico che poi, in finale, riporta irresistibilmente alle spiagge di Goa e
Bombay, come riflessi abbaglianti di una vita precedente. Come pure è brava ad accendere autentiche visioni del cosmo come nella rutilanteUna finestra e una storia infinita o a rinnovare affettuosamente cadenze beat venate di divertenti echi futuristi e palazzeschiani come in Goa (Goa trance).

Certo Caterina non è come scrittrice un "viaggiatore immobile" o "sedentario", come diceva X. De Maistre, tanto che sono dell'idea che dovrebbe essere
letta in contesto, come un unico libro o diversi libri uno accanto all'altro, trasversalmente o parallelamente, poiché la sua scrittura tende ad essere
così legata all'esperienza diretta (quindi poco simbolica, poco metaforica in senso stretto) che in realtà ha scritto e sta scrivendo un unico libro, nel
quale da una parte si parla d'amore, dall'altra di malattia dell'anima e di esperienze estreme, dall'altra ancora di attraversamenti e riattraversamenti di
confini alla ricerca di chissà cosa o di sé stessa (v. anche, per assonanze e consonanze, Aspettando la fine del mondo, QUI). Ma mi pare che ci sia una patente pacificazione in questa poesia, un appeasement anche
generazionale, un segno della variazione dei tempi e di un clima complessivo o anche di una realizzazione se vogliamo. E' naturale che sia così, direi. La
lontananza dalle lacerazioni drammatiche e coraggiose di libri come Il libro dell'oppio (v. QUI) o anche
come Fenomenologie seriali (v. QUI), è
evidente. Là lo sguardo e la scrittura erano rovesciati in un incolmabile vaso interiore, qui c'è uno sguardo meno affamato, spesso lirico/malinconico, a
volte contemplativo e libero da inquietudini, espresso in testi anche molto belli (v. ad es. qui sotto titolo), uno sguardo rivolto ad un orizzonte lontano
sull'oceano, come se gli alieni in fondo avessero visto quasi tutto quello che c'era da vedere, prendendo coscienza di sé non tanto come soggetti di una
sociologia del turismo, quanto come uomini e donne che, a Goa come sul balcone di casa, devono alla fine fare i conti col tempo ("Oggi che il
tempo / ha reso sagge le membra ma non la pietà"). Ma da Caterina c'è da aspettarsi di tutto. Per fortuna. (g. cerrai).
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Mercoledì, 21 settembre 2016
Emilio Capaccio - Voce del paesaggio – Kolibris, 2016

Alla mia famiglia
, inizia con una dedica il bel libro di poesie di Emilio Capaccio dal titolo Voce del paesaggio, edito da Kolibris, 2016, e l’incipit … Ma la vita, la vita, la vita, la vita è possibile solo reinventata (Cecília Meireles) definisce quanta realtà è insita nei versi
della raccolta. Se il poeta è il tramite tra la poesia e il misterioso reale, allora qui troviamo numerosi suggerimenti per lo spirito e per la società
intera. Il discorso, sin dalle prime poesie, si fa tensione: dalla parola emerge la nostra storia e le sue ragioni. Le continue guerre, le uccisioni per
nome di un Dio che non porta nome, i valori decapitati dall’opportunismo economico e dai compromessi, sono in rapporto vivo con l’animo dell’autore che non
dimentica di sorprendersi e stupire senza esprimere giudizi moralistici, ma, corrispondendo a ciascuna forma di dolore intimo e sociale. Così la voce di
Capaccio si intreccia con quella delle coscienze dell’umanità rivendicando il diritto di pace e di amore, opponendosi con forza alla tragicità della
realtà. In verità il profondo monito è rivolto al senso di responsabilità e di colpa divenuto sempre più minimo dentro di noi; ecco perché interviene la
poesia. Il poeta ha necessità di indicare a se stesso la via possibile da percorrere, attraverso il linguaggio, per comprendere l’esperienza umana e per
lottare contro di essa al fine di salvarsi dall’abbandono, dal fallimento, dalle solitudini. La poesia non viene prima degli accadimenti, ma all’interno di
essi, nell’attraversamento dei dubbi e dei contrasti, come possibilità di purificazione, come operazione di salvamento. Bisogna partire dalla creazione,
dall’inizio, dalla nascita, per raggiungere l’innocenza, la verginità delle cose sensibili e, la prosa, la narrazione degli antefatti, servono
all’autore per raggiungere lo stato di contraddizione dei luoghi della volontà, più intimi, procedendo verso i labirinti della verità. Accostarsi alla
realtà della parola consente di essere in più luoghi, in più paesaggi e lì trovare le risposte semplici, le più audaci e irrinunciabili. Sono gli intrecci
delle tradizioni e la prospettiva intellettuale della bellezza a illuminare l’autore che si accosta e misura il sublime e il terribile del mondo con
intelligenza e saggezza, unica modalità per sentirsi vivi, consapevoli, pronti nella vita. (rita pacilio)
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Venerdì, 16 settembre 2016
Francesco Iannone - Pietra lavica - Nino Aragno Editore, 2016
Abbiamo già incontrato Francesco Iannone su questo blog, in una nota che scrissi in occasione dell'uscita per Ladolfi del suo "Poesie della fame e della
sete" (v.
QUI
). Rimando volentieri a quella piccola nota perché mi pare che molte delle cose che allora sottolineai sinteticamente siano in sostanza rimaste lì, pur con
qualche evoluzione soprattutto sul terreno della scrittura. Dico subito che qualsiasi cosa scriva Iannone la scrive bene (e infatti riceve consensi), ha inventiva linguistica, ha
una perfetta padronanza sul come dire quello che vuole dire, in che tonalità eseguire la sua musica, su questo non c'è dubbio, con un certo coraggio e con
poche riserve mentali, poche soggezioni, stilistiche, concettuali o "correntizie" che siano. E', da questo punto di vista, un autore privo di dubbi e
insieme una tabula rasa, come se nessuna eco di esperienza poetiche precedenti alla sua emergesse, anche se certamente ve ne sono (a partire certo dal
Pascoli "fanciullino") ma senza - apparentemente - nessuna tradizione da difendere. In tutto ciò sta un certo fascino, diciamo anche questo, una purezza
che certo è anche "religiosa", assumendo il termine in senso ampio, ma è comunque fideistica, di una immensa fede nella vita, nell'uomo e nella natura, di
una francescana disposizione ad ascoltare i segnali che provengono dal mondo sensibile, da una realtà visibile e invisibile, un mondo che però, come
scrissi, sembra appena creato. Segnali che raramente sono problematici, fenomeni che difficilmente appaiono indecifrabili o incombenti (come in Leopardi,
ad esempio) perché con ogni evidenza sono lì come dono o forse perché nella visione dell'autore, fresca e confidente, sono ancora incontaminati, e come
sospesi fuori della Storia. Se gli uccelli e tutte le altre cose che lo sguardo di Iannone prende in considerazione sono correlativi oggettivi lo sono di
uno stare al mondo, di un essere parte ("altissimi testimoni del mistero") di una creazione superiore della cui logica anche gli affetti, i sentimenti, le
relazioni sono espressione. Ma senza particolari intendimenti metaforici o simbolici, pur essendoci in questi testi molto del simbolismo e pure una certa
vena metafisica. C'è in questi versi un'umanità indefessa, "originale", ancora capace di una qualche innocenza, insomma "denudata" e "primitiva" (sia detto
senza accezione negativa), naive. A volte mi appare come un Rebora un po' più laico, spogliato da tutte le angosce, ma più portato a costruire
piccole parabole, spesso assertive. Quel che sorprende di più, in fondo, che disarma, è questa sensazione antica, prenovecentesca, anzi volterriana da
"migliore dei mondi possibili", nel quale l'autore non sta dalla parte di Voltaire, perché non prende in considerazione il cataclisma, l'evento critico, il
male che alberga il mondo. I punti in cui c'è maggiore frizione, un maggior salto di potenziale poetico, un pacato tono di angustia malinconica che infine
emerge sono in effetti le poesie (generalmente belle, come l'ultima qui presente) dedicate all'amore, al sentimento che in qualsivoglia mondo possibile è meno gestibile, perché non si
lascia semplicemente osservare come una zolla o un uccello.
Iannone, tra i molti che ho letto, è comunque singolare, pur essendo diciamo un lirico puro (anzi "euforico", come scrive Giovanna Rosadini nella
postfazione), e insieme un esponente di quella "identità sfilacciata e solitaria , debole e poco battagliera, una potenziale 'nuova generazione in ombra' "
che Matteo Fantuzzi aveva acutamente individuato nella sua antologia "La generazione entrante" ove lo stesso Iannone appariva (come rammenta Giovanna
Rosadini). Singolare per stile, certo, ma soprattutto per la sua visione "fanciullesca" (parola mia e di altri) che salta a pie' pari, ignorandola
bellamente, tutta la questione forse un po' abusata del chi e cosa siamo qui e ora, in questo mondo, nella complicata modernità, uno dei mondi
"impossibili" da decifrare, in cui l'uomo - certo colpevolmente - è sempre meno il destinatario "centrico" del dono di Dio e sempre più un prodotto. E lo
fa convinto com'è, sono parole sue, che "tutto è alla portata della mia comprensione". Aspettiamo con curiosità il terzo libro. (g. cerrai)
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Venerdì, 9 settembre 2016
Francesco Filia - La zona rossa - Il laboratorio/le edizioni, 2015

Cos'è la zona rossa? Ne abbiamo più o meno un'idea: anni di "eventi", a partire dalla fine degli anni '90 (Seattle, 1999), ci hanno abituati a questa area
fisica e giuridica "esclusiva" in cui i detentori di un potere si rinchiudono per parlare dei fatti loro (e nostri), difesi da un apparato militare e
repressivo vero e proprio, proprio quella zona in cui per una ragione si sospende un diritto di esserci, di starci ecc., una libertà di movimento, una
"circolazione", non solo delle persone ma anche e soprattutto della manifestazione delle idee. Ma anche - storia di questi giorni - quella in cui si segna
il perimetro di una instabilità, del rischio del crollo, della maceria inabitabile - in questo caso il relitto di una lotta, di una speranza ideale o
semplicemente, come ha notato qualcuno, di un rito di passaggio. E' questo il nocciolo della questione, nel libro di Francesco Filia, che partendo da una
memoria per così dire "storica" e collettiva - cioè le manifestazioni e gli scontri avvenuti a Napoli il 17 marzo 2001 in occasione del Global Forum, un
triste prodromo di quanto più grave sarebbe accaduto a Genova di lì a qualche mese - delinea un percorso esistenziale, sociale e inevitabilmente politico,
una parabola discendente. Libro autobiografico, poema epico/lirico strutturato su piani temporali diversi (ora/allora, ma il tempo narrativo è tutto in un
giorno, da alba a tramonto), registri diversi (narrativo, lirico/elegiaco) e voci intersecate, incentrato sulle presenze di tre ragazzi e una ragazza di allora, qui non
esclusivamente come persone in carne ed ossa o "personaggi" ma anche e forse in maniera precipua come emblemi generazionali, almeno di quella generazione
che all'inizio del terzo millennio non aveva ancora voglia di smobilitare l'impegno politico, ma forse, come dice Viola Amarelli, "epigona del fallimento
dei padri". Pur senza colpa, perché, come avverte Masullo nella prefazione, "l'ideale infatti è intrinsecamente necessario ma altrettanto intrinsecamente
impossibile". E' questa necessità a statuire il rito di iniziazione narrato in questo libro, con la relativa parabola conseguente. Passaggio verso dove? Se
questo è, nella sua compattezza, un bildungsroman, come ha osservato qualcuno, lo è alla rovescia, nel senso che forma ad un sentimento irrelato
di sconfitta, forse di inadeguatezza ai tempi che verranno (sono venuti). In questo è degnamente contemporaneo, essendo impossibile un riscatto, un'ascesa
o una catarsi. Le magnifiche sorti e progressive sulle quali, anch'egli all'ombra dello sterminator Vesevo, già Leopardi ironizzava, sono finite.
E tuttavia - poiché la poesia serve anche a questo - ripercorrere quelle vicende da un punto di vista plurisoggettivo (per dirla in termini
cinematografici) non è una archiviazione. Se in esergo tra le altre cose Filia sente di dover porre le parole del PM Marco Del Gaudio al processo
del 2009 contro gli abusi dei poliziotti ("Succederà di nuovo, prima o poi. Se non si mette bene a fuoco cosa è accaduto quel diciassette marzo, il rischio
è che tutto ciò accada un’altra volta") è perché credo che abbia sentito questa necessità, cercando di darne poeticamente un senso attraverso una
registrazione per così dire sinestesica di quegli sguardi diversamente soggettivi di cui si diceva prima. Del Gaudio preconizzava, facile sibilla,
qualcosa che nel 2009 in realtà era già tragicamente avvenuto, lo sappiamo. Il libro invece parla di una lezione irripetibile, perché si cresce, si cambia,
si tradisce (ideali e, come racconta il libro, compagni), si diventa forse pompieri, si supera forse quella pulsione di morte un po' romantica che
serpeggia nel racconto ("Trent’anni sono la soglia oltre la quale / non andrò, spesso mi son detto / brucerò quello che rimane in fretta"), si dimentica la stretta relazione tra pubblico e (è) privato (ricordate?). Lezione
irripetibile perché soggettiva, identitaria, sentimentale, nel senso buono, pieno ed "educativo" della parola, il non avere più dopo quel "niente di
meglio" flaubertiano che Filia cita in un altro esergo. E lezione insieme rinnovabile perché la si narra a chiunque voglia leggerla, se ne fa poesia
(scegliendo insomma la forma di comunicazione più "costosa", come direbbe Barthes) a tratti anche in maniera impietosa, poco giustificazionista, a tratti
con una vena lirica che parla direttamente alla nostra parte illogica, emozionale. Ma poi quel che rimane, la nota persistente di fondo, è la faccia
politico/poetica della meglio gioventù, del come eravamo. Ecco, se a me come semplice lettore è venuto in mente qualcosa, non è tanto Sciascia come ad alcuni, quanto piuttosto Gianni, Antonio, Nicola e Luciana, insomma l'Ettore Scola di "Ci eravamo tanto amati", che già nel 1974 descriveva magnificamente e forse anche
con maggior pessimismo l'epos di una resa generazionale, peraltro uscita da una catastrofe ben più imponente.
Non mi inoltro più di tanto nei dettagli perché di questo libro hanno parlato acutamente in diversi, a cominciare dal prefatore Aldo Masullo (ricordo tra
gli altri Montieri, Amarelli, Curci) e anche per i testi, oltre a quelli qui sotto, rimando a quelli apparsi su Nazione Indiana, Poetarum Silva, Carteggi
Letterari, ma anche QUI, ne La disarmata. Aggiungerei soltanto che uno dei meriti principali di questo libro è proprio di essere un poema a tutti gli effetti, come hanno notato in tanti.
Una forma-argine, un mezzo di contrasto della poetica rapsodica e frammentaria con cui si manifesta il "compianto", l'angoscia esistenziale, il disagio di
identità e collocazione che un po' "snerva" tanta poesia attuale. E' già importante, al di là che la si possa catalogare come opera politica o civile, cosa
che non interessa, o del fatto che inevitabilmente anch'essa sia mercè della "brutale corrente " della resa, se posso permettermi di semplificare. Ma qui la
storia (minuscola o maiuscola che sia) non pretendeva altro che di essere guardata per un momento in faccia. (g. cerrai)
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Giovedì, 1 settembre 2016
Un assaggio di un eccellente poeta francofono di origine libanese, Salah Stétié, di cui spero di tornare a pubblicare qualcosa più avanti. I testi sono
tratti dall’antologia “Nel cerchio del cerchio – Trent’anni di poesia: 1973- 2003”, Bulzoni Editore, 2004, introduzione, traduzione e cura di Franca Bruera, con postfazione di Sergio Zoppi.
Salah Stétié nasce a Beirut il 28 settembre 1929. Si forma dapprima al Collegio protestante, poi al Collegio San Giuseppe dei Padri Gesuiti e continua i
suoi studi presso l'École Supérieure des Lettres di Beirut dove frequenta i corsi di Gabriel Bounoure. Tra il 1950 e il 1954 prosegue gli studi letterari a
Parigi presso l'École des Hautes Études et il Collège de France; in questi anni stringe legami d'amicizia con Pierre-Jean Jouve, André Pieyre de
Mandiargues, Giuseppe Ungaretti, Yves Bonnefoy, André du Bouchet e instaura rapporti di collaborazione con altre rilevanti voci della cultura
contemporanea. Rientrato a Beirut, dirige il settimanale culturale "L'Orient Littéraire" e collabora al contempo alle principali riviste letterarie
francesi, tra le quali "Les Lettres Nouvelles", "Le Mercure de France", "La Nouvelle Revue Française", "Europe", ecc. Diplomatico dal 1961, Salah Stétié è
stato consigliere culturale del Libano presso le Ambasciate libanesi in Europa occidentale con sede a Parigi. Dal 1963 è stato nominato delegato permanente
del Libano presso l'UNESCO. Ambasciatore nei Paesi Bassi, in Marocco, segretario generale del Ministero degli Affari Esteri a Beirut, Stétié affianca alla
professione diplomatica un'intensa attività di poeta, saggista e critico d'arte. Nel 1995 ottiene dall'Académie française il Grand Prix de la
Francophonie. È membro della Commission de Terminologie et de Néologie de la langue française.
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