Martedì, 23 agosto 2016
Viola Amarelli - da "Fantasmata", inediti
φαντασματα (fantasmata):
immagini sensibili (e in movimento) che Aristotele pone in una zona intermedia tra la percezione e il pensiero, ma libere da entrambi come pure dalla
fredda intelligenza argomentante. Evocate da ricordi, da esperienze, da visioni o da timori, non sono altro che l'immaginazione, la libera creazione,
libera anche di farsi da sé. Non c'è pensiero senza immaginazione o, meglio ancora, poesia senza di essa. E nemmeno immaginazione senza
percezione. I fantasmata stanno lì in mezzo, a fare da ponte. In questa piccola silloge di Viola Amarelli i fantasmi (o i demoni) sono per lo più
larve o barlumi di una realtà, non tanto percepita quanto vissuta e vivente come sintomo o fenomeno accessorio di altro, forse di un passaggio,
forse di qualcosa che travalica una ragione dormiente, come in Goya. Sono, ancor di più, fantasmi di fantasmi, nel senso di una ulteriore riduzione
dell'immagine evocativa ad una frazione di luce o d'ombra che il lettore può solo collocare nel bianco funereo della pagina, può contemplare, può forse
usare come modello, anche linguistico, per gettare uno sguardo sui suoi propri fantasmi.
Fondamentalmente quella di Viola mi sembra una poesia critica, ma critica di un io che è insieme antropocentrato e incapace di porsi davvero come
parte di un tutto consapevole, anche della propria morte ("un ego di muschiato marcescente"). La morte è presenza costante, qui, ma in forma di
contemplazione, di accostamento all'idea e al destino che contiene, elemento di una natura sovrastante e perpetua ("chissà quante altre volte siamo
morti"). È una poesia che vive (e lo fa coerentemente, per quanto possa essere paradossale) quella contraddizione di cui abbiamo appena parlato. Uno dei
nuclei "fantasmatici", forse il principale, a me pare proprio il contrasto tra un io per così dire sociale e un io intimo (quello lirico ha abdicato da un
po') luogo di proiezione di ombre e demoni ("oscuri e privatissimi") sul quale chi scrive vuole appuntare lo sguardo, o tra un dentro e un fuori illusori
("da fuori molto, / tutto, normale"). È la direzione in cui va Viola? Non lo so esattamente, so che in effetti qui non c'è più molto di oggettuale, hanno
perso importanza, da un punto di vista di oggetto ispirativo, anche le "nudecrude cose" di cui avevo parlato
QUI
, se non per il "caos che si riflette sulle nostre vite, o una casualità di eventi sofferti, di prospettive annichilenti" di cui avevo parlato a suo tempo.
Ho l'impressione che comunque qualcosa sia cambiato, si sia in qualche modo evoluto. Altrove Viola aveva detto "la scrittura è dall'origine un fissare, un
dar conto. E nel fissare c'è l'ordine, l'elenco, il taglio sul mondo", aggiungendo "Tutta questa ansia di fissare, contare, nasce da un flusso e si risolve
in un flusso, quasi una sorta di processo a "doppio cieco" ". Ma qui a me pare che questa ansia sia messa in discussione, sia "criticata". A che pro
averla, se l'esistenza presenta "il conto, infinitesimale, del / macellaio" (narratrice, III)? D'altronde, dice ora, "le cose non vanno come
dovrebbero...le cose non vanno, si fermano, splendono e / piangono".
E il testo corrisponde in modo del tutto coerente a uno "sfilare ordure", a un "disordinare l'ordine", una tela di Penelope soggetta solo ad essere
disfatta, ridotta nel frattempo al minimo essenziale, una scrittura volutamente ossificata che potremmo definire un ulteriore avvicinamento (che dura da
anni) di Viola al "mu", a un versificare "privo di" a cui la "narratrice" riduce le "narrazioni" (entrambi sezioni di questa piccola silloge). Cosa che
avviene anche quando il testo si fa viceversa affollato, come in Cerchi (altra sezione) perchè fatto di costruzioni sintattiche che asseriscono
qualcosa che si compie in sé, non vuole diventare veramente narrativo, perché anche gli arazzi alla fine mostrano l'ordito. Le narrazioni
d'altronde, premette in esergo Viola, "- di cosa parlano? / - al dunque niente. // sorda sirena". Perciò un altro vuoto, o una stasi, o un gioco che
"perso, splendidamente langue / nell'arrocco". Giacché, scrive altrove Viola, "niente è peggiorato", e insieme "nulla qui è migliorato". Anche quando, come
dicevo, il testo si amplifica e si dispiega, rimane la sensazione di una volontaria frattura degli elementi costitutivi del discorso, l'eliminazione dei
connettivi, delle "giunture", nell'intendimento finale che "le parole sono pietre. / tu scheggiale / fino a che non diventano sabbia, polvere. / fine" (cerchi, VIII). È come se Viola dunque macinasse indifferentemente pietre grandi e pietre piccole o piccolissime (testi di uno, due versi). Sì,
forse qualcosa è cambiato. (g. cerrai)
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Martedì, 16 agosto 2016
Giovanni Di Livio è uno pseudonimo. Come forse si sa non amo gli pseudonimi, ma dietro a questo c'è una persona che è già stata qui, su questo blog, e che apprezzo. Leggendo queste poesie si capisce perchè vuole celarsi. Sono estremamente private e affrontano un tema penoso con parole crude, dicendo cose che forse si pensano, ammettiamolo, ma che non si dicono. E' il prolungarsi di una agonia, di un tempo "allungato a dismisura", di quella particolare malattia che è la vecchiaia, che prevede un unico esito possibile. Roba difficile anche da farne poesia, da trattare in un certo senso esteticamente, preoccupandosi della prosodia o dell' "abbellimento", perché materia an-estetica, caso mai etica, di un'etica drammaticamente affine alla elaborazione anticipata del rimorso. Non sempre la contemplazione della morte accende l'animo a egregie cose, come direbbe Foscolo, o "belle". Forse è il tempo affrettato di oggi contrapposto a quello "allungato" ad imporre altre considerazioni, un'altra gestione della morte, una diversa "cura", o forse proprio una "noncuranza", quando la vecchiaia appare come un accanimento. Non lo so. Da un certo punto di vista non sono nemmeno sicuro che sia giusto pubblicarle, ma sono qui, esposte alla lettura di tutti.
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Martedì, 9 agosto 2016
In un post pubblicato il 17 ottobre 2008 su "Oboe sommerso", il blog di Roberto Ceccarini, leggevo su suo invito "Lettera da Praga" di
Francesco Marotta (http://oboe.altervista.org/blog/?p=124)
apparso per la prima volta in Hairesis, (E-book, Milano, Cepollaro E-dizioni, 2007). Il file audio sembra non più accessibile su "Oboe sommerso", così ho pensato di
ricrearlo sulla base della registrazione che feci, mixandola con un diverso sottofondo musicale (*), non avendo più a disposizione quello originale, che -
credo - fu inserito da Tonino "Vaan" Vasselli. Il juke box poetico (progetto di lettura) voluto da Roberto Ceccarini era davvero una buona idea che
meriterebbe di essere ripresa, magari ampliando l'offerta mediatica con i mezzi che ci sono adesso (è ancora fruibile quasi completamente su
oboe.altervista.org/blog, numerosi gli autori presenti).
Mi fa piacere ripubblicare, per quello che vale, questo piccolo contributo/omaggio anche in relazione al fatto che si riaccende l'attenzione, peraltro mai sopita in chi lo conosce, lo
stima e gli vuole bene, per l'opera di Francesco Marotta, attenzione che in questi giorni ha trovato un fortissimo impulso nel libro di Marco Ercolani -
"Il poema ininterrotto di Francesco Marotta" - Disegni di Francesco Balsamo - Carteggi Letterari Le edizioni, una antologia di testi e di critica di sicuro
interesse.
Ricordo che nella stessa data pubblicai su Imperfetta Ellisse una nota a margine, che ritengo ancora contenga qualche spunto di riflessione (v. QUI).
Il file audio (necessita il plugin shockwave-flash abilitato)
fango dislagato in pozze di cielo l’urlo che annaspa stretto alle sue radici musica sghemba s’irida in prospettive e note di volo disordine necessario che ripete l’occhio a curare lampi malati –
e allora ripensi il chiarore il suo profumo offeso soglia che immette in terre senza luogo dove calchi di vento segnano il confine tra attesa e oblio e il futuro è un volto che riemerge da franate memorie sottovetro una catena di passi marcati col sangue uno a uno dalla foce del Sele alle porte del Hrad un ponte di croci gettato sull’abisso…
mio padre coltivava sogni dietro il filo spinato di terragne lune tra cumuli di vite lasciate a marcire e una viola spuntata per caso in pieno gelo li allevava nel piscio nel vomito di bocche smembrate proprio i sogni che resistono alla deriva degli anni quelli che lasciano una traccia indelebile ad ogni risveglio
un papavero che vigila le messi un fiammifero che urla alla marea un’ala trafitta di chiodi un frammento di buio strappato a un delirio di luci
forse già da bambino abitava il fuoco che il giorno porta iscritto dentro il palmo gabbiano insonne che misura il naufragio della storia come si guarda il tempo di una vela in balìa delle onde del crepuscolo –
ora dal reliquiario delle sue sacre ombre qualcuno libera serpi a impastare il pane delle stelle
…
solo la sua mano ancora s’illumina all’oracolo sapiente della spiga recita parole d’esilio esorcismi contro l’artiglio uncinato della grandine una preghiera a un dio senza altari un breviario di immagini dove il fumo che spunta dai camini non è alito di ceri e d’incenso ma un respiro che ieri aveva occhi e voce
era dita smagrite d’infanzia che disegnavano rotte di astri splendenti sulle pareti dell’inferno nei corridoi di Terezin o tra le case sventrate del ghetto – era bambini che ritagliavano ali di luce scavando coi denti nell’ombra incidendo brandelli di pelle sul corpo inesplorato degli anni dove non sarebbero stati –
rischiaravano la pianura boema annerita da nuvole d’acciaio solcata da transiti di uomini cavie stipati nel ventre di carri bestiame…
… se ti fermi e accarezzi la terra che conserva il calore la linfa di giorni infiniti mai nati ogni stelo che spunta ai tuoi piedi ha la forma di un calice – simbolo perenne di un unico rito il ritorno ai deserti di un grido
…
(i vivi – diceva è appena un rigagnolo di vino memoriale della terra e delle stagioni che dall’orlo colmo cade e accende sui prati alfabeti fraterni di assenza – lumi apparecchiati per la cena interminabile dei morti )
ogni sera accosto alle labbra la sua pupilla di sopravvissuto – estranea a un mondo che rimargina ferite con l’oblio l’orrore con il balsamo e i drappi putrefatti dell’eterno
– incessante dismisura del sentire mappa vegliata da silenziosi inverni dalla neve che cova salici e mulini giorni d’alveare nel cratere dei numeri abrasi sfrangiati dall’unghia della tenebra sul braccio – muta sorgente di polvere
rifiorita d’albe nel passaggio
Si può inoltre leggere qualche altro testo di Francesco Marotta QUI
(*) "Aleatory2" - generative music elaborata al computer.
Mercoledì, 3 agosto 2016
Loredana Semantica - L'informe amniotico - Limina Mentis, 2015
L'informe amniotico [appunti numerati e qualche poesia] è
un'opera prima, già finalista sia a Opera Prima 2012 (di Poesia 2.0, e
già in quell'occasione lo avevo letto, facendo parte del gruppo
selezionatore), sia al Lorenzo Montano dello stesso anno. E sinceramente
mi fa sorridere il fatto che lo sia, che sia un'opera prima, qualcosa
che si accosta mentalmente all'acerbo, al primaticcio, al sorgivo e
comunque a qualcosa intrisa di "divenire". Sorrido sapendo bene che in
Loredana c'è invece una collaudata coscienza poetica, una esperienza sul
campo di anni, una presenza competente molto defilata, per molto tempo
celata dietro pseudonimi (e chissà che anche Semantica non lo sia), come quella Alivento con cui aveva animato
blog letterari come "Via Delle Belle Donne" o "Tellusfolio", per lo più
però con rubriche e note piuttosto che con testi poetici suoi, di cui in
fondo è abbastanza parca (diverse tracce e notizie si trovano ancora QUI e QUI), preferendo comunque una pubblicazione "virtuale", che è possibile reperire su ISSUU.
Dimostrazione è qundi forse proprio questa sua "opera prima",
dimostrazione cioè anche di una riservatezza che non diminuisce la
poesia rinchiudendola ma semmai la incastona in una visione personale,
intima e raffinata, dove è necessario andarla a cercare, attraversando
l'etere.
Di questo libriccino parlo con ritardo e anche buon ultimo, dato che se ne sono già occupati a suo tempo Stefano Guglielmin (QUI) e Deborah Mega (QUI),
ma tant'è. Potrebbe essere quindi una buona scusa per parlare d'altro,
per così dire, in maniera ellittica (qua stiamo, infatti). Loredana è
già stata in questo luogo, circa dieci anni fa (v. QUI),
con qualche poesia su cui scrissi una nota, seguita - cosa poi divenuta
rara in un blog - da un piccolo dibattito ancora utile da leggere. In
quella occasione avevo posto l'accento su alcune caratteristiche della
sua poesia, di una poesia esistenziale dispiegata su uno scenario
"freddo", arricchita da una scrittura "significante", densa di elementi
pittorici, fonici, timbrici, ritmici, entro i quali la parola a volte si
dissolveva o si guardava allo specchio, con qualche innamoramento. Una
scrittura interessante e personale, appunto, in cui l'elemento
drammatico, una inquieta e disillusa visione del mondo e della vita,
fluttuava in maniera aerea, trovava per così dire un suo ambiente
naturale, diveniva permeabile al lettore.
In questo libro l'approccio a tematiche che sostanzialmente non sono
cambiate è più strutturato. Se l'idea di fondo è ancora quella di un
magma di difficile solidificazione, di un caos a cui è quasi impossibile
e insieme imperativo tentare di dare una forma e un senso, tuttavia ora
c'è il tentativo di includerlo in qualcosa di organico, che ci circonda
e in qualche modo ci nutre. Se l'indeterminato, il caso, l'accidente,
l'incontrollabile fanno parte della nostra vita, possiamo dire allora
che sono la nostra vita, o almeno sono il contenitore che ci
genera, in cui la vita nasce e si svolge. La ricerca di senso, come una
ricerca che si rispetti, avviene à rebours, partendo dalla decostruzione
del risultato finale, come una operazione di reverse engineering, fino
ad una "foce", quando "si ritorna all'uno, al grembo della madre".
Questo "uno" non è solo (o forse non è) un unum trascendentale
a cui tutto si riduce, ma è anche il punto terminale di un conto alla
rovescia, di una danza delle ore che parte da una sessantanovesima
("alla sessantanovesima ora deglutì il passato") e va all'indietro (o
forse in avanti, chi può dirlo?). Per la verità c'è anche uno "zero",
che sembra segnare un "oltre", una rottura dell'amnio verso una realtà
destinale, un annullamento in seno alla natura - una maiuscola "Madre
nostra" - al pari di tutti gli esseri viventi. Deglutire il passato è
azione primaria di questa ricerca, riportarlo ai suoi "nutrienti"
essenziali, che sono non necessariamente momenti memorabili, forse più
insospettabili, anche minimali, punti su cui si incentra una diversa
prospettiva della stessa realtà già vissuta, dispersa in momenti che
tuttavia hanno avuto il loro significato, in un "futuro già accaduto",
con una "preveggenza esperita a posteriori", come scrive Rosa Pierno in
una delle note introduttive. Forse il percorso a ritroso non è un
procedimento nuovissimo (penso a illustri poeti francesi come Jacques
Dupin, penso dalle nostre parti al "Diario inverso" di Lucianna
Argentino - v. QUI),
ma qui è sostenuto dal fatto di non essere esaustivo, di non essere
"narrante", di lasciare dei cavedi nei quali il senso (del lettore)
rimbalza o rimane sospeso, grazie anche ad un sentimento di
indeterminazione corroborato dal ricorso ad un vocabolario
essenzialmente astratto, che aumenta quella permeabilità di cui parlavo
prima, o riferito a una concretezza di oggetti che però sono segnacoli
di un quotidiano ripetibile, di una non eccezionalità. Sembra che
Loredana registri la sua verità "come se stesse prendendo appunti"
(Guglielmin), ed in effetti è così, per ammissione stessa del titolo. Ma
a me pare però che la inchiodi sulla pagina (anche con quei punti ricorrenti nel
testo, come chiodi cristici, nota Guglielmin, e infatti la croce è spesso nominata), come
nell'urgenza di salvare ogni frazione salvabile, con la coscienza - come
scrive - che ".non è facile ancorare lo spirito alla terra. la carta al
suo pensiero". La tollerabilità del vivere la si misura in questo
ancoraggio delle cose (usiamo questo termine generico) alla parola
poetica, e viceversa. Inevitabilmente, anche in questo libro
dall'andamento prosimetrico, il frammento si ripropone come un canone
accreditato, ormai presenza costante della poesia attuale, come simbolo
di una realtà ontologicamente inafferrabile se non per schegge di uno
specchio infranto, e c'è certo una differenza rispetto alle poesie di
dieci anni fa. Se un problema c'è è forse, parlando in generale, quello
di un certo "horror pleni", il timore di farlo crescere, quel frammento,
fino a farlo diventare (banalmente) magari un testo poetico per così
dire "insostenibile" di fronte alla stessa complessa realtà che dovrebbe
descrivere. Viceversa, gli inediti qui presenti sembrano indicare,
anche nelle parti in prosa, una specie di recupero di un discorso più
esposto, meno franto, di modalità più distese, più liriche anche, pur nella
persistenza dei temi esistenziali, che nemmeno il ricorso al punto
fermo, quando c'è, riesce a ridurre a frammento, a scheggia inquieta e
baluginante. Non saprei dire se questo sarà il nuovo corso della poesia
di Loredana, se il suo conflitto con il tempo navighi verso acque meno
agitate. Mi piacerebbe trovare le risposte in qualcosa di più organico,
forse la sua vera opera prima - tutti quei testi dispersi nella rete,
alcuni dei quali eccellenti, i vecchi, i nuovi - che è ancora lì da
qualche parte, dietro i velabri della sua proverbiale riservatezza. (g. cerrai)
Continua a leggere "Loredana Semantica - L'informe amniotico e inediti"
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