Martedì, 26 luglio 2016
Vladimir D’Amora - Neapolitana membra - Arcipelago itaca Edizioni, 2016
Il tema è la forma, in un certo senso. Per quanto questo non sia sempre vero, può esserlo quando in un libro si parla di Napoli, è Napoli la fonte di
ispirazione, lo scenario e insieme la protagonista principale, seppure come voce fuori campo. Naturalmente Napoli in questo libro non è un "oggetto"
poetico o non solo, non può esserlo in sé, appartenendo di fatto ad un mito speciale. Magari - qui - di una mitologia privata, un luogo astratto e
concreto insieme ("è un luogo più reale / per la terra è un realissimo / collante"), un luogo solo e soltanto in cui certe cose della vita, proprio quella
dell'autore - private - , avrebbero potuto accadere. Un luogo complesso nel quale la complessità della vita si materializza, forse più che altrove. In
altre parole scenario ed elemento strutturante insieme, che c'è, esiste anche quando viene nominato appena. Sia la città/scenario sia quel che in poesia si
narra, non possono naturalmente essere rappresentati che per lacerti di un corpo, per membra, compreso quel tanto di sessuale, non necessariamente
esplicito in parole, che ogni tanto emerge. C'è quindi, per questa connessione sotterranea, qualcosa di sincopato che si riflette nel linguaggio e che si
esprime in quel tanto di "jazzistico" e di equilibrio ricercato, una certa "propensione verso la scrittura di ricerca e lo sperimentalismo in generale, non
ripudiando però, dall'altra, l'eco lirica" (dalla motivazione del Premio nazionale editoriale di poesia “Arcipelago itaca”, vinto dalla raccolta). Ricerca
e sperimentalismo che per la verità, a mio avviso, si esplicano per lo più in una lingua fortemente ellittica, spezzata, nel rinvenimento di elementi
lessicali contrastati e "duri" (e raramente dialettali), nel ricorso talvolta ad andamenti prosastici, o ad un enjambement estremizzato (specie nel
"narrativo"), ma che nel complesso non è "chiusa", anzi lascia al lettore un ampio margine di interpretazione, un ampio spettro di suoni e colori, insomma
una varia e diversa leggibilità. E' in questo senso che l'equilibrio di cui parlano gli estensori della motivazione è quasi totalmente garantito, non
dimenticandosi però, l'autore, che "la lingua è una torsione elementare", tanto più in poesia dove ci viene consegnata con una sua "conformità" per essere
restituita diversa.
Per il libro di D'Amora valgono molte delle cose generali che ho scritto QUI, parlando de La disarmata,
raccolta di autori vari che ruota anch'essa intorno alla città partenopea. Forse qui in un certo senso ce n'è meno, di Napoli, e alla fine non si può
parlare nemmeno di una poesia urbana, per quel tanto o poco che questo significa, pur mirando nel contempo (parole dell'autore) a uno "stile
dell'asfalto". Per quel che appare Napoli (o napoli, minuscola e confidenziale) è una città introiettata nell'animo (l'anima lasciamola all'imperio di
altri), in tanto apparentata con un "deserto ordinato da milioni di dei", dei che hanno abitato la città ma che tuttavia - aggiungerei - hanno abdicato da
secoli. In questa città/sostrato è quasi naturale rinvenire non tanto e non solo un passato mitico e eroico che in vari modi sedimenta in cultura (e certo
anche in scrittura) ma anche inquietanti "mappe / di una futura scena, di una crisi", a sua volta non tanto e non solo intesa in senso economico o politico
quanto piuttosto in quello di un privato quotidiano transeunte, nel quale l'autore sente che "tutto è posteriore a tutti", e dove è in essere un "dogmatico
accadere immemore". Dicevo introiettata perché quando D'Amora parla esplicitamente della città in effetti parla di sé e per sé, allegorizza la città come
un sé ugualmente complesso e problematico che con Napoli è in rapporto dinamico e circolare, esattamente come quando si trova a parlare d'amore o de "i
fiori che pendono falsi / da tetti più sacri", quei fiori che forse "urlano", fanno "voci", aprono la bocca, come molte altre cose che sono ipostasi di una
realtà che l'autore vive quotidianamente, e che rimane, persiste, vince la morte, ed è - ricordo - "posteriore a tutti". (g.cerrai)
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Martedì, 19 luglio 2016
Greta Rosso - MANUALE DI INSOLUBILITÀ - Lietocolle, 2015 (collana Pordenonelegge)
E' passato qualche anno da quando, nel 2010, ho pubblicato su questo blog una piccola silloge di Greta Rosso, intitolata con una certa ambizionePoesie a Dio (v. QUI). Nel frattempo
Greta ha scritto diverse altre cose, compresa una raccolta inedita, La tormenta, finalista al Premio Montano di quest'anno. Se nel 2010 avevo
segnalato qualche incertezza e qualche testo di indubbio valore, questa raccolta dello scorso anno mi pare, almeno dal numero dei testi che ho annotato e
che meriterebbero di essere riproposti, un notevole passo avanti, soprattutto nel senso di una maggiore consapevolezza di obbiettivi e di modalità
espressive.
Articolata in tre sezioni (un complesso sistema di eventi intempestivi; fingemmo di scaricare le unghie, scriverci in petto; il nostro amore al di fuori della legge) anche questa raccolta esplora uno spazio personale e intimo, un altro di quelli che io chiamo "universi ristretti", nel quale Greta si muove bene,
registrando sollecitazioni antiche e nuove. Lo spazio è ristretto anche fisicamente, sostanzialmente domestico, custode di momenti o visioni o accadimenti
che essendo domestici dovrebbero portare in sé qualcosa di familiarmente confortante e invece spesso - e questo fa parte della poesia come linguaggio di
relazioni - fungono da agganci o trampolini per salti di riflessione, per diversioni centrifughe su toni nostalgici o di rimpianto, o diventano scenari per
un soliloquio interiore. Il passaggio spesso avviene per intenderci dal concreto, dalla nominazione del reale ad una articolazione astratta del pensiero,
come una sfocatura dello sguardo che si ritrae nel pensiero stesso, perdendo di vista l'oggettualità (e del resto le cose sono "impilate in mucchi a
dissolvere"). Altre volte avviene un percorso inverso, dalla riflessione malinconica o dal rimpianto verso un oggetto, visto però in funzione simbolica o
metaforica, in una specie di trapasso dal ricordo - per esempio - a qualcosa che non solo è concreto ma è anche costante o ciclico, cioè qualcosa che
segnala il tempo, in qualche modo lo misura (la neve, spesso presente, tanto per dirne una), quel tempo che, per capire, "mi tolse il padre e mi diede il
temporale a / tuonare fra le mani". O ancora il paesaggio come topos esistenziale da trascendere emblematicamente ("malauguratamente non siamo una /
spiaggia in inverno nella quale uomini / col berretto calato sulla fronte cerchino / monetine"). Naturalmente questi passaggi sono il terreno privilegiato
del linguaggio, una lingua poetica puntuale che Greta utilizza in genere molto bene, nella quale a volte - raramente - si perde, specie quando scivola su
un côté simbolista e involuto, dal riflesso esistenziale però intimo a tal punto che il lettore rischia di rimanere fuori della porta (es. in un dolore riparato ad aghi, un divenire); ma comunque una lingua che serve essenzialmente a far bene il suo lavoro, quello cioè di legare, annodare, contenere in una rete di lunghi filamenti l'insolubile, per definizione ciò che non può essere disciolto o slegato, sia esso un legame chimico o sentimentale o qualcosa da cui, alla fin fine, non si vuole davvero essere
liberati, come "un prurito dell'arto amputato". In effetti il ricordo è, nella maggior parte dei casi, qualcosa di irrinunciabile, che non ci abbandona non
ostante gli sforzi, e l'obliare per un poeta credo sia il peggiore dei mali perché significa tra le altre cose obliare una lingua madre, quella
emotivo/affettiva che nel caso di Rosso è elemento base, mi pare, della sua poetica in fondo nostalgico/romantica, e della sua scrittura. Al di là del
tecnicismo à la mode del titolo, qui non c'è niente di pratico, di
pronto all'uso, anzi - come suggeriscono i titoli delle sezioni, molto più eloquenti - il tema è quello della varianza, della aleatorietà, della "finzione" (anzi
"un'ipotesi di finzione", come scrive Greta), del caos o "disordine" che si voglia, degli inciampi (skàndala) che sregolano i rapporti, per lo più
variamente sentimentali (che sia il padre scomparso o un uomo), che incappano nella vita, spesso dolorosamente. A ciò che "accade", sopravviene o viceversa
nelle aspirazioni non arriva mai (come quel "amore mio ancora fatto in un’altra / maniera che non mi sogno nemmeno"), il linguaggio selezionato, asciutto,
controllato ma fluido di Greta tende ad opporre il suo ordine, la sua linearità, la sua soluzione, anche nel senso di "legami", di patti riscritti con quell'io non arrendevole, non disposto a defilarsi che è costante in tutto il volume. Nella
consapevolezza (o speranza, o obbiettivo) che la scrittura sia un ricondursi, un ricongiungersi "al nucleo (in cui / eravamo infine irrimediabilmente /
uniti)". (g. cerrai)
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Martedì, 12 luglio 2016
Leggendo i versi di Paolo Taormina 
nota di Rita Pacilio
La poesia è sempre una rivoluzione
La poesia è sempre una rivoluzione, una tempesta che rivolta la realtà dando forma nuova e in crescita alle cose. Rovesciare e mutare diventano, quindi, lo
stesso fenomeno in cui soggetto/mondo e lettore/mondo assumono la stessa veste complessa e interrogativa. Sì, il poeta continua a interrogarsi anche senza
fare domande esplicite rimproverando gli accadimenti, lamentandosene in maniera forte e sonora e, allo stesso tempo, amandoli, adorandoli perché capaci di
mandare in frantumi le paure e le inquietudini. La realtà è contemporaneamente donazione e purgamento, cioè ricongiunzione delle ambiguità e delle
molteplici verità dell’esistente. Tuttavia persevera la tensione che si distende nella parola mobile, strumento per affermare il ritmo fonetico da cui
parte l’idea silenziosa e assolutamente elevata dell’annuncio del cosmo. L’essenzialità del verso, la sua spaziatura sperimenta l’ancoraggio naturale al
battito, al respiro ancestrale in cui è accolta e rispettata l’espressione implicita ed esplicita della parola nuda, spietatamente degna del proprio
artefice. Ecco, questa è la matrice portante dei versi di Paolo Taormina nei lavori poetici ‘Il sole dell’esilio’ (Forum quinta generazione, 1992)
e ‘Le regole della rosa’ (edizioni del Foglio Clandestino, 2014), libri in cui è ben chiara la dinamica e la prospettiva evolutiva del suo compito
poetico. La fedeltà alla vocazione visionaria implica la chiamata alla condizione esistenziale per liberarsi nella solitudine autentica del proprio essere.
Condividere le memorie, le consapevoli banalità quotidiane rende credibile il punto centrale della forma significante che aspira all’essenziale –
scenograficamente è il rinvio della parola allo spazio/stanza/accapo - per poi allargare il panorama dell’interno/esterno verso l’esterno/interno. Non
bisogna sottovalutare il valore sovrano del ricordo che mantiene la sua durata in modo punitivo, perché, diagnosticando continuamente la leggerezza delle
cose, cadiamo in fallo ostinatamente. Il mondo e ogni oggetto è perennemente in bilico, infatti, è inevitabile e comprensibile la nostra chiave di lettura,
sguardo che muta con il passare degli anni e che ci mostra l’incostante forme delle cose. La poesia, allora, è l’unica realtà possibile in cui gli elementi
probabili della vita possano dare un senso al tempo passato e al presente in cui la confusione e l’alienazione dell’uomo si identifica misteriosamente e in
modo surreale con i luoghi dello spirito.
Continua a leggere "Emilio Paolo Taormina - Le regole della rosa, nota di Rita Pacilio"
Venerdì, 8 luglio 2016
Il teatro Lux in un giovedì sera di fine giugno è una fornace dalle pareti interamente dipinte di nero (e col nero, si sa, ci sta tutto). Stasera lettura di poesia, segue dibattito. Starring Franco Buffoni e Maria Borio, come dire il mentore e la "pupilla" (lei appare nel dodicesimo [2015] dei Quaderni Italiani di Poesia Contemporanea che Buffoni cura per Marcos y Marcos). Pubblico ad occhio e croce vario e competente (ed è per questo che - dopo - non farà alcuna domanda, tranne i due coraggiosi ragazzi che fanno da padroni di casa, che chiedono dell'io in poesia, che fanno domande sul macrotesto, ecc., insomma roba di una certa sostanza).
Con la mano plasticamente posata sull'asta del microfono Buffoni interpreta bene sé stesso, il poeta che realizza un'epifania elargendo agli astanti con voce pacata ma decisa un florilegio delle sue poesie, da "Jucci" per esempio, e altro, e poi "O Germania" che ha sempre un suo valore "politico" che in questi tempi europei piuttosto astiosi si fa apprezzare. E comunque sia, lo stile, che piaccia o no, si mostra e si dimostra, come pure la capacità di articolarlo su vari registri e tonalità, con l'io e senza l'io e via discorrendo, e con la voce ben modulata in alti e bassi e accenti
Fin qui tutto bene. Il tutto scorre. Ti arriva dalla poesia quel che - date le circostanze - dalla poesia letta in pubblico ti aspetti, ovvero un affrancamento dall'occhio, dalla pagina, dalla prosodia "stampata", a favore della liberazione di una mente percettiva e liberamente critica, sull'onda di un ritmo, pause, silenzi, accelerazioni che altri sceglie per te. Ma...c'è sempre un ma:
Le poesie di Maria Borio lette da lei medesima sono una delle cose più monotone che mi sia mai capitato di ascoltare, qualcosa che ti sprofonda nel nero surriscaldato del Lux, e questo mi pone un problema: non sono monotone ma lei le legge in maniera monotona? e se è così perché lo fa? è una scelta, una posa? oppure sono monotone perché "nascono" monotone, sono ontologicamente monotone e non possono esser che tali, perché nel loro dna hanno la monotonia e non c'è niente da fare, soprattutto se le leggi con una voce monotona?
"Monotono" in fondo non è che un termine tecnico, qualcosa che è opposto alla modulazione tra toni, in musica almeno, al salto di quinta, agli intervalli. Un po' di quella "musicalità" a cui allude Buffoni in una delle sue risposte.
Non lo so, difficile darsi delle risposte. Forse per prima cosa bisognerebbe mettere da parte la convinzione (che tutti hanno e nessuno ammette) che l'autore legga le sue poesie come le ha pensate, e quindi in maniera "veritiera", quella che in termini contrattuali si chiama "interpretazione autentica". In realtà non è così, almeno per me, perché la poesia ha un alone (o un'aura, come diceva Benjamin), una pluralità di significati su cui l'autore non ha un controllo totale, o lo perde nel momento stesso in cui decide l'imprimatur. Che forse nella lettura l'autore tenta di riprendere, magari con quel consapevole pizzico di retorica oratoria (o attoriale, se preferite) che spunta stasera nella voce di Buffoni. Ma è per così dire un recupero della scrittura, del testo. All'estremo opposto, noto incidentalmente, c'è la slam poetry, in cui quel che conta è la performance, lo spettacolo, e dove infatti non di rado il valore testuale è risibile. Leggere, anzi leggersi, è in definitiva fare i conti con la propria scrittura.
Se così è, allora che conti fa Maria Borio quando legge i suoi testi? Che forse corrisponda a un tema, all'idea che la vita, magari anche quella amorosa, sia monotonale esattamente come - nella concezione corrente - monodirezionale è il tempo? Non lo so, personalmente (forse complice l'afa) non riesco a respingere la sensazione di un ron ron metafisico, di un cicaleccio estivo, di un rumore di fondo.
Ma forse dipende dal fatto che non ho mai letto nulla della Borio. Così tornato a casa do un'occhiata in giro (è un po' poco, lo so), cerco qualche poesia per leggermela da solo, leggo qualche commento, come ad esempio QUI, uno dei siti più seri. A non pochi piace, ad altri le poesie "non piacciono granché", qualcuno vi rintraccia "un passato temporale che ha nulla a che fare con l’esistenza e non può fare a meno di essere “presente" " (e il presente, per lo più eterno, è ricorrenza assidua nella poesia per intenderci "giovane"); altri (e incidentalmente si tratta di un critico che stimo) parla di "quieta riflessione, attenzione alle “cose” - ma non è che le “cose” sono innalzate, sono oggi quello che una volta era la Musa? - , passo narrativo e intimo, lirismo non invasivo, ma anche una certa – voluta – piattezza di tono e nessun tremore sintattico, nessuna spezzatura, come se spezzare il discorso, sporcarlo a tratti, fosse peccato" (ah, certo, le cose, come dimenticarle - v. QUI), e di poesia scritte molto bene ma che "osano poco"; altri ancora richiamano Sereni, cosa in sé giusta ma forse un poco fuori luogo, o Montale, ma ne siamo lontani, forse per fortuna, anche da un punto di vista formale, e certamente come totale assenza di uno sguardo criticamente ironico. Vabbè, non mi resta che leggerne un paio.
Il giornale piegato dove segni e cancelli
affonda il passato.
È fosforescente, è l’ispettore di metalli
all’aeroporto, il radio
che ti può attraversare.
L’esperienza è quella data:
stai qui, aspetti, ti vendi?
Le nuvole si sono buttate fuori dal mondo,
le finestre correvano dietro
e questa tua voce trattenuta.
Una parte di te va con loro
lontano, veloce –
e ci fanno credere che i bisogni
sono veloci come te
che per un momento hai corso
laggiù.
Ma oggi questa vita come il radio
ci ha fatto trasparenti, essenziali.
I ragazzi del secolo esposto conoscono ragioni
più forti, verità più evidenti.
***
Quale dizione trattengono
le cose, quale semplice
pretesa? Il bisogno
di uscita, l’intercapedine
che non ci isola.
La mia protezione è lontana
e solo umana, come il corpo
di una mente o una voce.
E lo spazio dove tutti valgono
il peso del giorno e nemmeno
si inanella di occhi. Di scatto
alcuni riconoscono che
è possibile anche il vuoto,
altri si riprendono
dopo averlo colmato.
Ma il tuo nome è arrivato
sopra a un nulla, ha lasciato
con la luce la via.
Poi lo spazio si è preso
tutte le cose come mie e tue,
come le stringevi, allora,
in un balzo, nell’aria.
Forse è poco per esprimere un giudizio, lo ammetto, ma...No. Credo proprio che sia "monotonal inside", ineludibilmente generazionale, l'orizzonte di un universo ristretto, come ho avuto occasione di scrivere altre volte. E il mono-tono nella lettura è un calco del testo, è il rumore di fondo di questo universo limitato. (g. cerrai)
Sabato, 2 luglio 2016
Antonio Pibiri - Chiaro di terra - L'Arcolaio, 2016
Nel precedente lavoro di Antonio Pibiri, Le matite di Henze (Lampi di stampa, 2015, v. QUI), avevo
brevemente accennato ad un suo utilizzo dell'indizio, di oggetti, luoghi e fatti da cui far derivare una soggettiva, uno sguardo ascendente o discendente
verso altri livelli, verso considerazioni, conclusioni, spesso non necessariamente correlati, come di un pensiero che vaga, che non procede tanto per
associazioni o metafore o idee che poi verbalizza, ma che talvolta lega l'espressione a un suggerimento che viene direttamente dal linguaggio e
dalla parola, da una intravista possibilità di percorrerli ad libitum, scegliendo di volta in volta ad ogni bivio. In questo Pibiri mostrava un
certo talento, nel riconoscere alla scrittura una capacità di "farsi", di trovare da sé strade inaspettate, e alla parola, a volte con qualche eccesso,
quella di svuotarsi di senso e riempirsi di suono o di un senso diverso e distante, se non di una particolare insensatezza.
In questo libro questo stile sembra riproporsi, tanto che Davide Zizza nella postfazione parla di kènosi, ovvero di "«svuotamento» della parola per
riproporla in un lucore slegato dalla pura referenzialità" ma con l'intenzione di superare le due categorie di sostanza e forma, a cui tradizionalmente un
poeta è legato, e di recuperare una "vibrazione sonora e tersa" dell'enunciato. In effetti al termine di una prima lettura di molti dei testi di Pibiri non
sempre si afferra immediatamente il senso o meglio la funzione per così dire narrativa (o fàtica) che essi hanno. Eppure, al di là di un certo innamoramento della parola che a volte emerge dai testi, bisogna poi almeno riconoscere una qualità impressionistica di questi testi, come se
l'utilizzo del linguaggio fosse più che altro rivolto a rendere le percezioni dello sguardo, le impressioni appunto, il valore iconico della realtà, non
tanto il suo senso, o il mero riflesso delle cose, ma una referenzialità altra e diversa. Non è certo un caso che nel libro si citino diversi
fotografi (Adams, Freed. Cornell Capa, Arbus) ma anche i pittori, il Doganiere o Henri Michaux ad es., ma anche la fotografia non è, non deve essere
necessariamente, immediatamente significativa o documentale, almeno da quando ha assunto valore di arte (lsi leggano Benjamin, Sontag, altri) uscendo dalla
registrazione sociologica. E non casuale il riferirsi alla luce, ai chiaroscuri, ai colori (anche rovesciandone l'apporto: "se nero su sangue è
coccinella"), alle penombre che avvolgono i corpi, alle linee che talvolta non solo danno una forma su cui sostare con lo sguardo ma anche diventano
direttrici dello sguardo stesso (v. come esempio Due studi sul corpo inclinato). In altre occasioni invece, dove necessaria, spunta una scrittura
orgogliosamente assertiva, come in Fragmentation, interessante assemblaggio di versi fatti quasi tutti di frasi compiute, una specie di décollage
alla Mimmo Rotella.
Al di là di queste brevi considerazioni, tuttavia poi a un'idea del mondo la poesia deve corrispondere, anche nel più ostico dei testi,
generalmente parlando. Una strada è seguire i riferimenti culturali (quelli fotografici e pittorici lo sono in relazione all'approccio descrittivo alla
realtà di Antonio), come ad esempio in Cos’è Antigone, cosa non lo è in cui la evocazione del personaggio sofocleo restituisce il senso a un
testo apparentemente inopinato fin nel finale ma carico di senso etico. L'idea del mondo (usiamo questo termine) di Pibiri è per certi versi sur-reale,
anche se in definitiva la sua è una poesia che viaggia quanto meno su due piani, uno che potremmo chiamare sensibile, in cui la realtà oggettuale è
centrale, in cui si afferma una vena lirico-elegiaca (v. ad es. Talismani, tonalismi - e l'accenno ad una tecnica pittorico/musicale ha anche
qui il suo senso) che parla delle ripercussioni dei fenomeni della realtà sulla esperienza del poeta; l'altro che potrebbe essere definito come ricerca
di una metafisica della parola, di una sua fluidità semantica, di quella "vibrazione" di cui parla Zizza, un suono, non necessariamente subito
assimilabile, che proviene dalle cose e dai fatti, ma che comunque punta a quella "altra faccia" che il titolo suggerisce. Una ricerca c'è ed è evidente, in questo libro senz'altro più unitario e maturo, ma è di quelle che
comportano una certa difficoltà e un notevole senso di responsabilità affinchè la parola non si svuoti troppo, precipitando in una kènosi acuta.
L'imperativo è, come scrive lo stesso Antonio, fare in modo "che la parola non sia foglia / a coprire il tuo sesso", non sia una foglia di fico, un
mascheramento, un'omissione, una reticenza del dire. (g. cerrai)
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