Venerdì, 24 giugno 2016
Mauro Germani - Voce interrotta - Italic Pequod 2016
Cos'è, qual'è la voce interrotta di questo ultimo libro di Mauro Germani (spero non ultimo)? E' un dire che sembra aver trovato la fine della propria
funzione, un'eco che risuona in uno spazio vuoto e che quindi comunica il nulla a nessuno, in un radicale annientamento della propria necessità, e che
perciò si interrompe. Stiamo naturalmente parlando di una rappresentazione, di qualcosa che cioè porta in scena ciò che potrebbe essere rappresentato solo
da una pagina bianca. Sono le contraddizioni di cui si nutre la poesia, ma qui si tratta di vedere se questa voce, questa parola sia sempre più rarefatta
per autoconsunzione, per una scelta espressiva (anche il silenzio è una risposta, come suol dirsi) oppure per la constatazione che la parola, specie quella
poetica, in questo tempo affrettato e quasi totalmente iconico, è fatalmente esausta, come uno scarto culturale. E' naturale quindi che nel fare questo
Germani usi un vocabolario volutamente ridotto, teso efficacemente a dire il più possibile del suo pensiero con il minimo delle parole, superando così
artisticamente quella contraddizione. Un linguaggio sottrattivo, da cui tendenzialmente sono espulse per prime quelle cose reali e concrete, gli oggetti, i
luoghi, i nomi, che sono disfunzionali, troppo legate ad una realtà spappolata, che non serve nemmeno più descrivere a livello fenomenico. E se ci sono,
servono unicamente come riferimenti topologici o punti geodetici, come rappresentazione di uno spazio in cui non ci si possa perdere del tutto, si possa
mantenere una qualche medietas. Ecco allora che tra "dissolvenze" ed "indizi", le due sezioni principali della silloge, si svolge il tracciamento
di relitti, di immagini latenti, di fantasmi. E' questa l'ipotesi di lavoro di Germani, che è anche una delle tendenze della poesia italiana di oggi,
quella di una lunga, lunghissima crisi di cui il poeta e i suoi mezzi espressivi sono il perno, l'io lirico, la carne sacrificale. C'è però in Germani
qualcosa di più, anche in termini di valore: il mettersi in gioco, crederci, essere disposto a rimetterci di persona, scegliendo una reductio
quasi monacale, un riserbo meditativo che si esplica anche nella condensazione dei testi, severi, quasi sempre circoscritti sia in termini di lunghezza che
di ampiezza del verso. Una convinzione che si percepisce da vari indizi e che già Sebastiano Aglieco aveva intravisto nella prefazione a Livorno
(Ed. L'arcolaio, 2008): "lingua umile [...]. Volutamente più povera (...); che sa di essere destinata a sparire come tutte le cose". E nello stesso libro
Germani scriveva: "Poiché tutto finirà / o forse / tornerà una parola / una soltanto / nell'ultima voce". Che già in Livorno era data per "persa".
Nel frattempo Germani attraversa il suo territorio, un vuoto però non totalmente vuoto, di nostalgia e rimpianto, forse verso questo "tu" che affiora
spesso e che a mio avviso vale non tanto come identità precisa quanto come assenza emblematica (di un amore passato, di qualcuno scomparso ecc.) o mancanza
forse di radicamento. Una nostalgia "impossibile", perché è impossibile la sua soddisfazione, è impossibile ritornare indietro (magari a quella Livorno a
cui era intitolato uno dei precedenti libri di Germani) e insieme è estremamente faticoso rimanere, come in quella Milano convulsa e solitaria in cui vive.
Il nostos impossibile, dunque. Allora una terra di mezzo, una regione intermedia, un limbo restaurato diventano lo spazio di interrogazione di rimembranze, infanzie
scomparse, colloqui con fantasmi ("sono tornate le voci"), soliloqui con un tu che non risponde, con quel che rimane, forse per poco, come un alfabeto che
la polvere del deserto sta cancellando. Si percepisce in questi versi qualcosa di aereo, volatile, precipitato verso un "giù", come una lenta caduta,
voluta o accidentale, da un balcone. Si percepisce come una persistenza della morte, qualcosa di non definitivo, non ultimativo, destinale, che si trascina
ancora tra noi e in noi, come una tabe ontologica di cui potrebbe essere interprete solo il pensiero debole, poiché "siamo noi / i vivi / e i morti".
Germani è bravo a trasmettere tutto ciò, questa "poetica della dissolvenza, dello svanire, dell'offuscarsi" (come recita il risvolto, forse di mano dello stesso autore) con il suo
linguaggio frugale, traforato, lineare ma non vanamente aforistico, come se ogni semplice parola fosse accuratamente pesata con quella bilancia con cui
verranno giudicate le nostre anime. E allora la voce per quanto interrotta, spezzata come un singhiozzo, ecco che non rinuncia, non deve rinunciare a
scriversi. (g. cerrai)
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Venerdì, 17 giugno 2016
Riflessioni sull’arte: “Silencio vivo”, artiste dall’Am erica latina
(esposizione al Padiglione d’arte contemporanea di Ferrara)
Il “silenzio è vivo”, abitato, portato fuori attraverso un grido dirompente nel grande affresco di Teresa Margolles ospitato per Biennale Donna
alla mostra ferrarese, collettivo di giovani artiste provenienti da diversi paesi dell’America latina. O ancora, è esasperato attraverso la non-parola
d’uno stile individuale lasciato all’espressività unica di singole voci femminili differenti quanto connesse da un filo conduttore che attraversa tutta la
zona geo-politica e culturale presa in considerazione. Tematiche ricorrenti alla realtà sud-americana attuale sono l’esperienza dell’emigrazione, dello
sradicamento e della mobilità obbligata di masse di individui, le dinamiche di censura e persecuzione o la privazione di libertà politica e individuale
imposta dalle dittature militari che hanno segnato la storia recente di questi paesi, infine la criminalità o la violenza diffusa nei confronti delle fasce
più marginali della popolazione, fomentata dall’ instabilità politica e dalla fragilità del tessuto sociale.
Dunque a quali voci appartiene questo silenzio, da dove proviene e a chi prestano la parola, l’espressione, il corpo queste giovani artiste sud-americane?
Il silenzio è in primo luogo quello imposto dalle dittature del passato, in Brasile per esempio, come vediamo nel lavoro di Anna Maiolino trasferitasi lì
negli anni ’60 e sperimentando direttamente la situazione di pericolo, alienazione e censura imposte dal regime militare in atto dal 1964 alla fine degli
anni '70. Oppure, è il silenzio raggelante, l’alone di incredulità e shock emotivo prodotti dal tessuto di criminalità generalizzata e distruttiva, da
quella violenza gratuita e diffusa che investe quotidianamente e in maniera particolare le donne nella società messicana come ci racconta Teresa Margolles.
O ancora, è il silenzio alienante della condizione del migrante, del profugo, di colui che si sposta, emigra, fugge o perde le proprie radici per ragioni
politiche o economiche, per scelta o destino. Tale condizione identitaria appartenente a molti individui in questa parte del mondo è filtrata, per esempio,
attraverso l’esperienza di Anna Mendieta nata all’Avana nel ‘48 e costretta a emigrare negli Stati Uniti nel ‘61 in seguito alla svolta collaborazionista e
anti-rivoluzionaria del padre.
Il silenzio, infine, è il polo opposto all’altro estremo d’una comunicazione espansa all’ennesima potenza nelle società occidentali e non solo oggi: quella
ipertrofia di immagini, informazioni e messaggi resi possibili dalla rete globale, l’iper-connettività su un piano mondiale e a tutti i livelli_ economico,
dei media e delle culture_ la cui altra faccia è spesso l’assenza di una autentica comunicazione o d’un veritiero scambio umano nelle nostre società.
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Lunedì, 13 giugno 2016
Pasquale Vitagliano - Habeas corpus - Editrice Zona, 2015
Leggere un libro, specie di poesie, è sempre un affrontare le ragioni degli altri, e in qualche occasione giustificarle. Non credo che nel caso di Pasquale
Vitagliano la motivazione sia l'urgenza di scrivere, come dice Nicola Vacca nella prefazione. Per il semplice fatto, come ho detto in altri momenti, che
detta urgenza non esiste, e se esiste di certo non assomiglia a certi moti del corpo. La spinta principale mi pare semmai sia quella di una rapsodica
ispirazione, come quando ci si ferma un attimo a riflettere, colpiti da un pensiero o da qualcosa che ha acceso una sequenza di associazioni di cui ci si
sente protagonisti, e talvolta vittime. Credo che sia questa, lo dico subito, la ragione di una certa qual discontinuità della raccolta, anche di registri,
non rimarginata dalla divisione in cinque sezioni, che hanno per titolo altrettanti colori senza però che in loro e tra loro sia marcata una differenza di
stile o di senso. Se detto così sembra un elemento critico, c'è però da dire che la ragione sta nel modo del tutto privo di soggezioni che ha Vitagliano
per avvicinarsi alla poesia, quando essa "arriva", come se la prima necessità (questa sì) fosse la "fissazione" su carta. Il resto, tutto l'armamentario
retorico e stilistico dietro al quale talvolta ci si nasconde, appare secondario, e il tutto alla fine si realizza paradossalmente in uno stile, il suo,
che potremmo definire "naturale", esattamente come il linguaggio con cui è espresso, poco retorico (ed è un bene), che si attiene ad una comunicazione a
volte un po' dichiarativa ma immediata, anche quando tende al simbolico o a toni vagamente surreali; o la versificazione che in diversi testi si distende
come se seguisse lunghe espirazioni, un fiato di voce che si estingue solo quando quel che c'è da dire è detto (e questo avviene per lo più nelle poesie in
cui Vitagliano parla di temi sociali o esistenziali). Si ha insomma l'impressione, non so quanto esatta, che in questi testi ci sia poco di successivamente
elaborato, che siano per così dire nati così come sono, senza troppa postproduzione, per usare un termine tecnico. Una originaria freschezza, con pregi e
difetti: da una parte come quello che si riscontra nei testi migliori (alcuni dei quali qui presenti) dove il rapporto tra "ispirazione" e risultato
risalta subito nella sua compiutezza (ad esempio in aperture e finali coerenti, che chiudono il cerchio); dall'altra come quello di contribuire a quella
discontinuità, tra temi e registri, a cui accennavo prima. D'altra parte non credo possa essere altro che così, se è vero quello che dice Vacca, che cioè
si tratta di "parole concrete e nuove a servizio della vita e delle sue cose elementari (corsivo mio)" o di quella "sequenza di ingenue
causalità" di cui scrive l'autore in una poesia. Una poetica, quindi, in cui le occasioni possono essere tante quante i giorni che viviamo, alcune ci
colpiscono e fanno risuonare un diapason creativo, altre no, perché si tratta di una poetica dell'ordinario, del common people, del quotidiano,
dell'esistenza che scorre, del tempo che fugge, del presente posticipato, in cui il frammento funge da elemento catalizzatore della sensibilità di chi
scrive, fornisce l'idea, anzi in qualche modo la impone. Lo specchio è quello di una realtà su cui non abbiamo potere, su cui si può, nella migliore delle
ipotesi, agire solo poeticamente, trasfigurandola in parola, riprendersi un po' del metaforico habeas corpus. L'importante è farlo, come nel caso di
Vitagliano, con un certo ethos (un luogo in cui "vivere" moralmente con chi ti legge) e con onestà, forse non proprio nel senso in cui la intendeva Saba ma
ci siamo capiti. (g.cerrai)
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Lunedì, 6 giugno 2016
Il 10 giugno prossimo, alle ore 21, nel cortile maggiore d i Palazzo Ducale a Genova, nell'ambito di "Parole spalancate", XXII Festival internazionale di poesia, che si terrà dal 7 al 19 giugno (vedi QUI il programma completo), avrà luogo "In cerca di vite già perse", incontro/reading del poeta inglese Simon Armitage, presentato da Massimo Bocchiola, curatore per Guanda dell'antologia che porta lo stesso titolo.
Per conoscere l’Inghilterra di oggi e cosa significhi scrivere poesia che sa insieme comunicare e negarsi a un consumo prevedibile non c’è guida migliore
di Simon Armitage.
Già ospite del Festival Internazionale di Poesia di Genova una decina di anni fa, Armitage è ormai uno dei più importanti poeti inglesi.
Armitage è uno scrittore-poeta di professione, con frequentazioni anche come componente del gruppo rock Scaremongers, che passa dalle sue poesie originali
a riscritture (anche dell’Odissea), teatro, romanzi (L’omino verde). Soprattutto lavora per la televisione, producendo programmi che rivisitano episodi più
o meno tragici e crisi sociali: dall’anniversario della vittoria del 1945 a un’inchiesta sulla prostituzione (Pornography: The Musical) o sui reduci delle
tante ultime guerre.
Ecco qualche verso delle pagine scelte da Bocchiola:
«E un presidente ben messo si presenta in video per dire / perché dobbiamo darci dentro / e in questi casi per lo più è seguito / da un primo ministro
ben vestito… Chi sia stato a dire che la civiltà è profonda solo un pasto / poteva aggiungere che per quanta strada / crediamo di aver fatto, siamo
ancora / a una sola parola dalla guerra. / E ogni storia ha sempre almeno due facce, / ma quando le due facce dicono che stanno cercando / di fare
quello che si deve secondo il loro Dio / forse mentono entrambe…»
Armitage, poeta politico e dissidente all’interno di una società che dà spazio al contraddittorio, non ha difficoltà a trovare argomenti e non ne avrà
certo nei ferali anni seguenti. Scrive un po’ degli editoriali in versi, riprendendo la lezione del tardo Auden (grande esponente della poesia funzionale
alla società e ai nuovi media: anche i giornali). Ma le frasi fatte (come sopra quella sul pasto) si collocano felicemente e forniscono informazione al
lettore. In Armitage la violenza urbana ha buona parte, ma il tono è spesso sardonico. (Fonte: nota stampa del Festival, ma tanto vale leggersi sul Manifesto il più completo articolo di Massimo Bacigalupo da cui in parte è tratta QUI). Pubblichiamo di seguito alcune poesie di S. Armitage.
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Venerdì, 3 giugno 2016
Lorenzo Mari - Ornitorinco in cinque passi - Prufrock spa, 2016
Ci sono animali e animali. C'era una volta un airone, per esempio. Uno strano animale che passava il tempo rovistando la melma del fondo di risaie lombarde
o frugando il ventre di poeti in cerca di "umida sabbia e piccole uova di rettile". A lui competeva, stando alle parole di chi lo aveva osservato da
vicino, "l'allegoria della perdita, della cecità, l'introspezione del negativo e dell'immobile"1. Questo accadeva anni fa. E c'è un ornitorinco,
mezzo papera mezzo coniglio, un animale non meno strano, di difficile interpretazione, tanto che - leggo da qualche parte - la filosofia lo ha eletto ad
emblema di soggetto che complica le classificazioni. E che in cinque passi segue un tragitto poetico un po' ellittico che lo porta ad essere
emblema di altro, credo almeno come alter ego dell'autore, o meglio come deuteragonista silenzioso, che parla per apparizioni, presenze spesso ammonitrici.
Insomma un animale reale e mitico insieme, con una certa tendenza a farsi simbolo di chi lo osserva o parla di lui, come specchio, espropriandolo,
antagonista - anche politico - della storia, portatore di una contraddizione feconda perché - tanto per dire - "l’habitat dell’ornitorinco / si costituisce
come spazio inventato", quindi forse pertinente alla speculazione delle idee o al sogno, o viceversa "l’habitat dell’ornitorinco / è più reale del reale //
ma è stato costruito per un animale / che non parla, non è mai presente", o forse per qualche ragione è invisibile, deprivato, come può esserlo
l'uomo nella società attuale. C'è infatti in tutto il testo la trasmissione di un senso di una critica incertezza, di critica filtrata dalla metafora, uno
sguardo su un ambiente circostante che non è fatto di oggetti o cose, anzi è piuttosto deserto, ma di inquietudini, di segnacoli. Ad esempio cos'è davvero quella neve "imperterrita e nera", la "nevicata del secolo" in cui la nostra impronta (nostra, quindi collettiva) "viene da un altro
viaggio", e dalle nostre impronte si può capire "se si fa l'invasione o si fa la resa", se cioè si va avanti o si arretra, nei molti significati che questo
può comportare? Cosa sono quelle grate, attraverso le quali "passano carta e penna [...] ad ogni ora", contro le quali - ancora - la neve si ammassa, che
significato concentrazionario o di chiuso rigore suggeriscono? Ed ancora, in sinergia, chi sono quei "loro" che passano carta e penna ma solo "per
qualcuno: / una dose, come credono; poi portano altro / o se ne vanno"? Sappiamo che "loro non sono, in quanto loro / però chiedono con forza / che anche
questo sia scritto: / un luogo – supplicano – / una forma di tempo.", sappiamo che "parla, parla, parla – finché si perde / (poiché loro, in quanto loro,
non hanno lasciato che questo)". Un lascito quindi, una grama eredità. Che siano forse, questi "loro", coloro che ci hanno preceduto? ("Passate in rassegna
le schiere dei morti, parlate con loro ancora una volta, imparate dai tassidermisti, ricomponete tutti i disastri, parlate dicendo: eccetera eccetera
eccetera. Provate, in un solo corpo, a sanare tutti i debiti"). Già, provate, ma non è detto, come abbiamo visto poco più sopra, che il tentativo sortisca
qualche effetto. C'è ancora, in questo libro, qualcosa di quel "debito", di quel senso di responsabilità che si trovava in Nel debito di affiliazione, presenze che sembrano suggerire qualcosa, imporre una scrittura, forse qualcosa di dovuto o ispirato, "una forma di
tempo", cioè una qualche garanzia di non oblio. E che cos'è quell'altrove, quel "qualche luogo" che si percepisce con una certa inquietudine in tutto il
testo, quel "fuori" che sento così legato a quel "loro" ("Adesso nevica, o almeno questo è quel che dicono, questo si va dicendo: nella ressa si prepara il
compenso, mentre forse, in qualche luogo, risuona l’allarme giusto") e al quale corrisponde un "qui dentro", quelle "quattro mura" - anch'esse naturalmente
metaforiche - entro le quali tuttavia alla fine riusciremo a capire "la lotta delle classi che non sono dette" (come forse quell'animale "che non parla non
è mai presente"). Molte domande, lo so, ma come si conviene a un buon libro di poesia. Insomma, c'è in questa raccolta qualcosa di irrequieto, di dubbioso,
di fortemente critico (sono costretto a usare ancora questo aggettivo) e anche di rabbiosamente reattivo che ti picchia sulla spalla, ti avverte che là
fuori, nel mondo/mondezza, c'è qualcosa di pericoloso a cui è necessario prestare attenzione, una sotterranea violenza contro cui lottare ("Scegliere una
lente d’ingrandimento: per l’insetto, per il ratto, per lo stomaco del ratto, capire infine tutto il mondo, nonché la mondezza – chi può esser stato, chi
ti ha staccato, nottetempo, la punta dell’orecchio").
Il libro è costituito da una struttura che ricorda un prosimetro, essendo intervallato da blocchi di testo che però non sono prosa in senso stretto, ma
sono indiscutibilmente l'adozione di una forma di poesia in prosa, o meglio di prosa in prosa, che vuole proporsi attualmente come la più nuova, e forse la
più promettente di sviluppi. E' una soluzione interessante, perché, oltre a creare una dinamica intratestuale con le parti in versi, mi pare che le parti
in prosa, in cui è presente anche una notevole terminologia scientifica o parascientifica, siano il terreno designato della logica, dell'analisi politica,
della critica, della denuncia ironica, del richiamo alla Storia ("Conto a mente delle guerre perse, mai combattute, mai organizzate, e a scanso di ogni
possibile dichiarazione. Non compare nessuna Caporetto, nessuna pasciuta linea gotica, nessuna foiba fonetica con fobia, nessuna Marna [...]").
Mari, che conosco abbastanza bene (v. QUI, oltre alla
prefazione a Nel debito di affiliazione, L'Arcolaio, 2013), mi pare che tenti con questo libro un triplo salto mortale, cadendo quasi in piedi.
Perchè sembra piuttosto distante dai libri precedenti, tanto che di primo acchito viene da chiedersi se si tratta dello stesso Lorenzo. E tuttavia, specie
in testi come Una cosa del tipo, Per il freddo, Forme di salvezza, ed altri non tanto dissimili da quelli che puoi leggere in Minuta di silenzio o nel Debito, il vecchio Lorenzo rispunta, recupera un po' del suo stile che avevo definito un po' scazonte come la
realtà che vuole descrivere, di inquieta diffidenza in una parola "definitiva". E' proprio lui, soltanto - mi pare - con un altro respiro, con le idee più
chiare, e un progetto che però, credo, sta ancora lievitando nella sua testa. Mi pare che Mari si avvicini ad un'area che forse gli è congeniale, quella di
un lavoro sul linguaggio (le sue fratture e ricomposizioni, i suoi vuoti, le sospensioni che dilatano il senso) che non si discosti dalle cose da dire. Una
bella ricerca, senza rinunciare di una virgola al significato. E' la poesia che preferisco, quella che non cessa di innalzare l'asticella ma senza gettarsi
nel baratro a capofitto, cercando altresì un equilibrio, certamente non facile, tra il come e il cosa dire. (g. cerrai)
1 Niva Lorenzini, a proposito dell' Airone di Antonio Porta.
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