Giovedì, 31 dicembre 2015
Jacques Dupin (1927 - 2012) è considerato uno dei
maggiori poeti francesi del secondo Novecento. Amico di René Char, che
ha prefato il suo primo libro di poesie Cendrier du voyage, e di
Joan Mirò, di cui è stato il biografo ufficiale, è autore di oltre venti
libri di poesia, oltre ad essere noto come critico d'arte, un'attività
che lo ha portato ad una lunga collaborazione con la nota Galleria
Maeght ed a scrivere una decina di saggi sul lavoro di importanti
artisti contemporanei che ha avuto modo di frequentare, come lo stesso
Mirò, Alberto Giacometti, Antoni Tapiès e Francis Bacon autore nel1990
di un suo ritratto. E' stato tradotto in diverse lingue, tra le quali l'inglese da Paul Auster. In italiano sono apparsi: Massicciata (Scheiwiller), Nulla ancora, tutto ormai (Dadò), l’antologia Divenire della luce (Garzanti), tutti a cura di Delfina Provenzali e Comba oscura
(Lietocolle) a cura di Gilberto Isella che si occupa da anni della sua
opera e che recentemente ha tradotto e curato la raccolta Scarto (Lugano, Opera Nuova, 2011). Una sua interessante nota su Trasversale (v. QUI)
La poesia di Dupin è connotata da una estrema
asciuttezza, tanto da apparire talvolta impersonale, forse a causa (o
per merito) di quell' "odio della poesia" di cui Bataille aveva scritto
nel 1947 e che per Dupin equivale, secondo le sue parole, a "una
salutare distruzione di scorie e roseti commoventi che fanno ostacolo
alla vista e intralciano il passo nel cammino verso l'ignoto". E d'altra
parte " la poesia non ha bisogno che di parole. Essa può esistere senza
le parole. Fare a meno di tavolo, di carta, di pedana. Non ha nessun
bisogno di essere vendibile, di essere leggibile. Si accontenta di poco,
e di meno ancora. Essa vive di niente. O dell'aria del tempo. Del
desiderio, e della morte. E del vuoto che la innalza…"
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Domenica, 20 dicembre 2015
Klaus Miser - Non è un paese per poeti - Ed. Prufrock 2015
Non so chi sia davvero, a parte ciò che mi viene dalla sua
scrittura. Ma certo Klaus Miser è prima di tutto un'identità o un
eteronimo (il che è lo stesso), più che uno pseudonimo letterario. E ciò
significa, e mi pare utile dirlo fin da subito, almeno una certa
contiguità, niente affatto scontata, tra essere e poetare, una qual sovrapposizione o indissolubilità militante (ma sì, usiamo questo termine arrugginito). Insomma "Klaus" non è un alter ego e nemmeno un doppelgänger di sé stesso, non è un'entità che sta dietro o procede a lato, sebbene nella sua scrittura si percepisca una inquietudine perturbata.
Non è un caso, mi pare, che l'esergo del libro reciti "I limiti del
mio linguaggio sono i limiti del mio mondo" (Wittgenstein), ma bisogna
dare a "linguaggio", aggiungo io, un senso esteso, anche nella direzione
di un superamento dei generi e delle forme artistici. Tutto, in questo
linguaggio/mondo, è compreso, "nonostante me" dice l'autore nella nota
iniziale. Miser è semmai - quindi - un simbionte tanto ben adattato a
una certa modalità poetica quanto critico verso la realtà che
attraversa. Una posizione in cui con ogni evidenza alla fine finisce
per credere.
Organizzato come un acrostico espanso, anzi - dice il sottotitolo - "un
errare britannico in forma di acronimo" (le lettere che compongono il
titolo sono anche capilettera delle sezioni) il libro esplora una serie
di esperienze girovaghe, di erranze tra nebbie diverse, quella padana
quella londinese, ricostruite attraverso un montaggio serrato e veloce
che tiene conto non tanto della prosodia o di una ipotetica economia del
verso, che per Miser ha poca importanza, quanto piuttosto del fotogramma, dell'efficienza dell'immagine selezionata (o che si è lasciata selezionare) rispetto al quadro complessivo del testo, l'emersione di
un qualcosa dalle nebbie di cui si diceva. Non vorrei tornare ancora
sul discorso del frammento fatto più volte, e che è lontano da questo
tipo di scrittura, invece più simile ad un flusso osmotico innescato da
una necessità (sì, qui il vocabolo è appropriato) di riportare alla
luce, di verbalizzare, qualcosa di più profondo, in una serie
di schegge, di acute fitte versificate. Da questo punto di vista ha
certo ragione Alberto Cellotto quando afferma in una sua nota (v. QUI): "accade
infatti che il ricordo viene al mondo con la poesia e non accade che un
ricordo sia, più genericamente, il punto di partenza di una poesia (che
poi, a ben interrogarci, dove stia il "punto di partenza" di una poesia
è un aspetto davvero misterioso...)". Incontri, incroci, personaggi
borderline e molti, molti paesaggi attraversati, accennati, descritti
anche con nostalgia, molte similitudini, molti "come" assai creativi che
mi rammentano la passione che ne hanno le poetesse americane, molte
situazioni in cui si allude a disagi striscianti o conclamati, stanze
illuminate da una luce scarsa e radente che sbatte contro oggetti
insieme insignificanti e minacciosi quanto la macchina da scrivere di
Burroughs (ricordate Il pasto nudo?), fastelli di nomi e cose
("un’orbita una confusione e un nonsense / un io e un non io / una
sigaretta un soffio un the e il bottone / il suono e l’inferno / una
calotta una culotte...") e qua e là pennellate di colore (un "pantone",
dice il poeta) in funzione forse di richiamo vitalistico o tratto,
inamovibile e forte, di quelle emersioni di cui si diceva (e
in effetti uno dei motivi è questo scambio tra luce e ombra, tra interno
ed esterno, tra grigio e colore). Incidentalmente, non è un caso che
abbia parlato di emersioni: questo montaggio (a tratti
potenzialmente intercambiabile all'interno del testo e tra i testi)
raggiunge bene l'obbiettivo che si prefigge, poiché l'insieme (e
credetemi, non è una cosa banale) è più della somma delle sue parti, per
dirla in termini di gestalt. Come ogni atto artistico, del resto. La
scrittura di Miser è senza dubbio lirica. Certo con le sue
contaminazioni, i suoi innesti linguistici (citazioni, vocaboli
stranieri, brani di testi di canzoni) in chiave modernista (piuttosto
che post-), e magari c'è qualche cosa sopra le righe, qualche
calco beat (e non solo qualche citazione), qualche posa cosmopolita.
D'altra parte, qual'è il paese che non è per poeti? il nostro
probabilmente, e non solo per ragioni diciamo così sociali, ma anche
perché distante dalla cultura che appare continuamente
nell'infratesto, attestata anche dalla dichiarazione esplicita
dell'autore ("Nel testo scintillano isolati versi di T. S. Eliot, J. Dos
Passos, M. Foucault, A. Ginsberg, J. Kerouac, P. Vicinelli e E. Villa",
e gli unici due italiani omaggiati non sono certo organici a questo paese
poetico, mi pare), un panorama come visto dall'altra sponda
dell'oceano, con le spalle rivolte a casa. Ma certamente è anche per
questa cultura che si tratta di un particolare impasto lirico, una
rabbia lirica potremmo dire, che non vuole cioè rinunciare ad un
continuo dibattito, all'interno del testo, tra espressione e
impressione, tra elegia e rigetto, al centro del quale si pone come
arbitro un soggetto esposto, non mediato, anzi per molti versi attoriale
(Miser da quel che so agisce anche in campo performativo). Se c'è un
vago rischio in questo tipo di approccio è forse quello del
compiacimento, della ruga che attraversa la fronte corrucciata. Ma nel
flusso, anzi nella fluidità volutamente un po' singhiozzante che ricerca
Miser ci può stare, fa parte del gioco, rientra in quella assunzione di
rischio, sostanzialmente onesta, a cui fa cenno anche Cellotto nella
sua nota, di dire, di poetare senza stare a pesare troppo le parole. Un
libro interessante, sono curioso di vedere, se ce ne saranno, le prove
future. (g.c.)
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Sabato, 12 dicembre 2015
“GRADI DI LIBERTA", sulla nostra possibilità d'essere liberi ( visto al Mambo di Bologna, Novembre 2015)
“Gradi di libertà, dove e come nasce la nostra possibilità di essere liberi”, mostra collettiva recentemente esposta al Mambo di Bologna, interroga il
concetto di libertà prima che come condizione oggettiva, politica e sociale esterna all'individuo come possibilità del pensiero, lì dove nasce e si
manifesta la nostra facoltà d’essere liberi, in primo luogo dentro la mente di ciascuno di noi, lì dove vengono prese le decisioni o gestite le scelte che
in qualche modo sanciranno, limiteranno o condizioneranno, attraverso l'esercizio del libero arbitrio, la condizione esistenziale o la consapevolezza
individuale di ciascuno a prescindere dallo statuto politico o dalle limitazioni materiali e sociali vigenti.
Ugualmente, nel percorso espositivo, il concetto di libertà non è visto come paradigma statico appartenente a una realtà storica determinata, a un
ordinamento sociale dato, allo statuto di un individuo o al modo di funzionare d’una società quanto, in primo luogo, come processo mentale, qualcosa che
avviene e si esplica nella capacità di discernere, analizzare e prendere decisioni: quell’ insieme di scelte che compongono il tessuto stesso della nostra
esperienza nel pensiero e nell’azione quotidiana. L'atto d’una mente riflessiva e razionale oppure i momenti fulminei in cui improvvise intuizioni si
realizzano e consapevolezze immediate prendono forma, dunque posizionamenti netti, decisioni di un si o di un no, di un andare o fermarsi, di un aprire o
chiudere una porta, del prendere un sentiero o un altro, dello svoltare in una direzione o proseguire.
Il paradigma dell’essere liberi o dell’affermare una condizione democratica per un popolo appare come un percorso non lineare visto in una serie di
divenire, nel realizzarsi di piani successivi di consapevolezza, di soglie e di attraversamenti che conducono a implicite metamorfosi nel pensiero e al
superamento di limiti interni a una realtà o a una soggettività. Tali passi si percorrono nella “tensione verso”, nell’ipotesi o nell’aspirazione
libertaria di un individuo o un gruppo che lotta per avvicinarsi al proprio divenire umano, libertario e democratico. E’ prima di tutto un movimento e una
pratica del pensiero al quotidiano, un divenire consapevole, “libero da” , altro rispetto una serie di condizionamenti identitari, ideologici, o
strutturali che si pongono come sbarramenti impliciti all’io e barriere occludenti al nostro vivere sociale.
Perché la libertà, sembra suggerire la mostra bolognese attraverso i percorsi incrociati d’opere d’arte, installazioni d’oggetti e video documentari nel
doppio sguardo di scienza e arte, la si acquisisce per gradi, dialetticamente scrollandosi di dosso lo stato di assoggettamento, di interiore schiavitù, di
mancata presa di potere o riscatto, di mancata affermazione della propria coscienza individuale, politica e identitaria. La si acquisisce nel mentre dell’
“essere nel pensiero e non stare ancora pensando”, ogni volta nel ricominciare a pensare, nel porsi dall’inizio quella domanda, nello scontrarsi con quell'
interrogativo posti di fronte un mondo di limiti e di idealità, di scelte individuali, immanenti all'esserci e di barriere o muraglie, fisiche e
metaforiche, materiali o spirituali apparentemente insormontabili che solo un pensiero libero da forzature o condizionamenti può ancora permettersi di
affrontare. Tale esercizio quotidiano al pensiero travalica categorie storiche e gabbie ideologiche per immergersi nel flusso vitale dell’esistenza come
movimento del pensare dentro le forze di vita, dentro i corpi e contro le manipolazioni esterne, mediatiche e dei regimi politici vigenti. Condizionamenti
a tutti i livelli sono iscritti profondamente nella nostra mente, permeano quasi la struttura molecolare delle nostre cellule, del nostro DNA dalla nascita
e nelle memorie cellulari delle generazioni precedenti. Sono anche gli schemi, le gabbie sociali, gli abiti che ci vengono messi addosso in seguito a un’educazione, al funzionamento d’una società uniformandoci in ruoli e posizionamenti, simulacri, simulazioni e
maschere. Sono infine le conseguenze che subiamo d’uno scenario politico mondiale fatto di violenti conflitti e di forze che agiscono sulle nostre vite
indirettamente, qualche volta brutalmente senza che riusciamo a rendercene conto, non potendo ne prevederle ne controllarle . La libertà è prima di tutto
uno stato in divenire del pensiero, poi uno statuto d’essere, del dirsi o volersi nel mondo, anche e soprattutto quando essa è messa in discussione, in
pericolo o in stato d’allerta, anche e soprattutto contro le manipolazioni politiche, i lavaggi del cervello mediatici, le aggressioni o le irruzioni di
forze estremiste e violente, distruttive o incontrollabili. Spazi di libertà in ogni mentre e in ogni dove, nel mondo, sono quelli aperti dallo sguardo e
nel luogo dell’infanzia, del gioco o della creazione che poi diviene movimento dell’arte, dell’azione e della lotta politica.

Come afferma una delle canzoni che compongono l’archivio interattivo visibile e udibile d’una raccolta di 100 brani popolari provenienti da diversi
contesti nel lavoro di Susan Hiller “ Die Gedanken sind frei”: "Le idee sono libere, chi può prevenirle, esse sorvolano come ombre notturne,
nessuno può conoscerle, nessun cacciatore le colpirà. Sopravvivranno. Die gedanken sind frei. Penso quel che mi pare e tutto in silenzio è come
capita. Cose che desidero e voglio, esse sopravviveranno. E se qualcuno mi getterà in un’oscura prigione sarà semplicemente fatica sprecata perché i miei
pensieri spezzeranno le barriere e abbatteranno i muri. Voglio scrollarmi di dosso per sempre la paura e mai più lamentarmi per le inferiate. In cuor mio
posso ridere e scherzare e ripetere ancora: i pensieri sono liberi”.
Vanessa Beecroft
Schiere di modelle danno vita a performance fotografate come “tableaux vivants” dove i corpi assumono sembianze di statue classiche o di manichini
inanimati. In PV26 i corpi femminili vestiti identicamente di sole calze bianche, scarpe con i tacchi alti e biancheria accuratamente scelta appaiono nella
loro demoltiplicazione distribuiti sullo spazio performativo come figure inanimate, manichini di corpi perfettamente identici ma indeterminati, svuotati,
macchinici quasi nella loro anonima ripetizione attraverso lo spazio. Invisibili, trasparenti allo sguardo appaiono volutamente fotografati come simulacri
di loro stessi, figure plastiche rivestite da una sorta di patina chirurgica di rifacimento figurale nel loro apparire attraverso l’immagine. Il corpo e il
femminile sono là volutamente esposti, interrogati o posti di fronte “all’illusione della loro presunta libertà”: manipolazione voluta dei corpi, nella
loro reificazione e riduzione a stereotipi imposti dai modelli impliciti del codice sociale. Lo scatto fotografico inevitabilmente ironizza sulla tendenza
delle figure femminili a uniformarsi come oggetti dello sguardo in una serie di metaforici travestimenti, divise o vesti ufficiali, qui parodiate
attraverso l’uso delle sole calzature e intimo bianco.

Allo stesso modo in “One year performance” (1980-81) l’artista taiwanese Tehching Hsieh attraverso una serie di azioni auto-imposte nel corso di un anno_
timbrare un cartellino una volta all’ora per 360 giorni e registrare accuratamente la propria azione performativa_ approda a un concetto di libertà
paradossale raggiunto attraverso una forma di auto-coercizione. Solo esercitando quella disciplina assoluta sul proprio corpo e privandosi parzialmente di
alcune ore notturne di sonno perviene a portare a termine la propria pratica performativa. Tale azione minimale, insignificante, ripetuta all’ennesima
potenza e protratta con ostinazione nel corso di un periodo prestabilito giunge, tuttavia, ad alterare o stravolgere i ritmi normativi di un'esistenza ed è
per l’artista scelta consapevole all’interno di quello che lui percepisce come un esiguo spazio di libertà individuale. Diventa il suo modo di iscrivere e
riaffermare tale differenza, o spazio di creazione al quotidiano paradossalmente passando attraverso la coercizione e la disciplina di un’azione
auto-imposta. Il suo modo minimale di re-inventarsi l’arte giorno per giorno elude ciò che il mondo dell’arte si aspetta che egli faccia. Decide di creare
un oggetto e un’azione performativa a partire dall’irrisorio di un’azione ripetuta con automatismo ogni giorno come il timbrare un cartellino nella gabbia
del lavoro in fabbrica. Minuscola azione, il lasso di tempo di qualche secondo, e già si iscrive la sua scelta di dire no, di affermare sé stesso in
quell’esiguo margine di libertà: “Non voglio fare ciò che il mondo dell’arte si aspetta che io faccia, questa è la mia uscita, questa la mia libertà”.

“In ogni istante il nostro cervello sceglie tra una miriade di alternative possibili o virtuali” afferma uno dei brevi video che interpongono un punto di
vista scientifico al concetto di libertà illustrato dalle opere artistiche. Tra la miriade di stimoli cui siamo soggetti ad ogni momento sulla corteccia
celebrale e tra i lobi pre-frontali del nostro cervello abbiamo la possibilità di visionare simultaneamente strade diverse nella nostra mente, sospendere
giudizi, esitare, valutare vie possibili, immaginare o rappresentare eventi del futuro, rendere espliciti i nostri pensieri attraverso il linguaggio. Tutto
ciò avviene nello spazio esiguo di pochi istanti, nello spazio in cui una decisione viene presa, un’opzione scelta e un’altra scartata, tra una
sollecitazione e una risposta all’impulso, tra uno stimolo e una reazione, l’istante che passa anche tra uno sguardo gettato sulla realtà e lo scatto d’un
obbiettivo, tra il momento dell’osservare, dell’attesa al reale e il momento decisivo in cui la fotografia viene presa e l’immagine fissata su una
pellicola. In quell’istante, sembra dirci il video, esiste e resiste, agisce o reagisce contro l’apparente opposizione della realtà il nostro primo spazio
di scelta, di libertà e d’azione individuale.
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Lunedì, 7 dicembre 2015
Dodici testi di Roberto Bertoldo, tratti da il Calvario delle gru (2000), già apparsi su L'om bra delle parole (v. QUI) con una nota di Giorgio Linguaglossa a cui vale la pena fare riferimento e a cui rimando anche per la cospicua biobibliografia dell'autore, sono qui riproposti nella traduzione in francese di Valérie Brantôme, amica e già altre volte collaboratrice di IE, che ringrazio di cuore. Anche questo post rientra nella mia convinzione, forse chiara, che sia sempre utile confrontarsi, per quanto possibile, con altre scritture e altre lingue, in sostanza con altre interpretazioni, stili, conflitti traspositivi, modalità di fare poesia, di dare un nome alle cose, insomma di leggere e reinventare la realtà. Cosa non facile, certo, e forse doppiamente impegnativa (e utile) per chi, come Valérie, non solo traduce poesia ma anche la scrive, e affronta la poesia degli altri con amore e insieme occhio critico. Questo vale forse a maggior ragione con la poesia di Bertoldo con cui Valérie si è voluta cimentare, una poesia "pensosa"e cognitiva, densa e ricca, ad un primo accostamento ardua, pregna di costruzioni metaforiche ardite, che non vuole sedurre liricamente né "cantare" niente ma che ha l'ambizione di elaborare un pensiero anche filosofico e di mettere in discussione molti punti di riferimento culturali, soprattutto di ciò che Bertoldo chiama il "postcontemporaneo", ovvero (cito l'autore) "il postmoderno forte, col quale indico semplicemente il postmoderno liberatosi dal decadentismo, e cioè indico una cultura che attualmente sembra, solo perché il presente spesso la rigetta, propria del futuro (per questo lo chiamo anche postcontemporaneo), è l’accettazione del progresso gnoseologico e del modello epistemologico contemporaneo che l’età odierna si ostina, a parte eccezioni, a rifuggire per codardia e interesse". Ecco che, tra l'altro (cito Linguaglossa, v. QUI) "Bertoldo intuisce e comprende, con indubbia genialità, la necessità di riformulare una nuova poetica di tipo post-simbolistico nel quadro concettuale del postmoderno, comprende che soltanto attraversando criticamente il post-simbolismo si può attingere una poesia emancipata e culturalmente attrezzata sul piano metaforico, comprende che soltanto arretrando sulle posizioni di un consapevole modernismo si può uscire dalla palude dei cliché del minimalismo (corsivo mio)". Una ragione più che sufficiente, se non servisse altro, a farmelo amare.
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