Lunedì, 30 novembre 2015
La poesia di Giampaolo De Pietro (come quella di alcuni
altri) mi rimanda, più che a suggestioni come si intendono in poesia, a
collegamenti alieni, o ad affinità culturali che magari possono apparire
paradossali. Ma tant'è, è il bello della poesia. Così avviene che
leggendo questo testo (o questi testi?), dall'apparenza frammentaria,
fatto di sprazzi e di brevi illuminazioni, di qualcosa gettato nel
campo della significazione che come sappiamo pertiene al lettore,
leggendo queste parole - dicevo - può capitare che venga alla mente
un'immagine, qualcosa di parziale, che parziale deve essere
perchè visto attraverso un pertugio, un buco della serratura. Oppure -
ed ecco la suggestione aliena - due fori in una antica porta spagnola di
legno1.
Perché in effetti quello che mi pare si evidenzi
in questo testo è uno sguardo parzialmente impedito, un invito ed
insieme una preclusione a comporre la scena, mediante l'immissione di
elementi reali e oggettivi che tuttavia non aspirano ad ancorarsi alla
realtà, anzi la parcellizzano e la indicano come impossibile da
comprendere nella sua totalità, da "sapere". "Chi sa, non vola", dice
infatti De Pietro. Che è come dire che il sapere, la conoscenza o anche
la comprensione sono risorse sì, ma che possono trasformarsi in zavorre
per l'immaginazione, per tutto ciò che là fuori è possibile
"comprendere" con altri mezzi, per "un ritorno alle nuvole, ambìto". E'
quello che si intravede, per rimanere alla nostra suggestione, che
assume un'importanza più vasta, e non quello che si annette al novero
delle cose, alla loro nominazione/numerazione. "Dovrei rendermi canto e
quasi mai conto", sottolinea infatti il nostro con un gioco di parole.
Il testo, la scrittura, la poesia è strumento e metafora non di contezza
ma di un viaggio, per lo più effettuato ad alta quota, tra "le nuvole
disposte per le nostre teste, intorno" (corsivi miei),
giacché "non si spreme la realtà, al massimo si prenota un volo", una
autentica dichiarazione di poetica. La scelta di uno sguardo "parziale"
è qui tutt'altro che limitativa se lo sguardo (come nelle foto che De
Pietro ama fare) è idealmente costretto come ad allungarsi oltre
l'angolo, oltre la fine della frase, se insomma ogni frammento (ma
usiamo la parola per brevità) ha a sua volta la potenzialità di essere
un incipit, di diventare qualcosa d'altro, sia nel senso che dicevo in
altra occasione (v. QUI), cioè di biforcarsi in sentieri diversi, di speciarsi, sia in quello di non solo aggirare il senso ma anche di raggirare il lettore, deviarlo un po' con molta della leggerezza che è una delle qualità migliori di Giampaolo. (g.c.)
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Lunedì, 23 novembre 2015
Jacques Réda (Lunéville, 1929) è un poeta, critico musicale e saggista francese. Ha diretto la Nouvelle Revue Française
dal 1987 al 1996. Oltre ad essere noto come inventore del verso di
quattordici sillabe, che - dice - deve essere letto a voce alta, come
tutta la poesia di cui valga la pena, Réda è considerato uno dei
maggiori poeti francesi d'oggi. È anche autore di racconti in prosa e
grande amante della musica, in particolare del jazz. È membro del
comitato di lettura delle edizioni Gallimard. Collabora regolarmente a Jazz Magazine dal 1963. Ha pubblicato svariate opere sul jazz, tra cui L'Improviste
(L'improvviso, 1980) che propone una lettura sensibile e poetica di
questo fenomeno musicale. E' autore di numerose raccolte di poesia, tra
cui Cendres chaudes (1955), Amen (1968), La Tourne (1975), Hors les murs (1982), Sonnets dublinois (1990) e
svariati altri, molti dei quali ispirati dalla città di Parigi e
dall'osservazione dell'ambiente circostante, che ama attraversare in
treno, in bicicletta o anche a piedi, raccogliendo le suggestioni anche
le più umili di un mondo percorso a piccola velocità. Réda cerca nella
casualità di incontrare qualcosa di apparentemente insignificante ma che
riveli poi non solo una nascosta bellezza, una "meraviglia" inattesa,
ma anche un significato più profondo, più universale. E' questa
l'ispirazione fondamentale della sua poesia, che appare di una voluta
semplicità, lineare, diretta e comunicativa. Réda ha vinto il Grand prix de poésie de l'Académie française, il Prix Goncourt de la poésie, il Prix Roger Kowalski-Grand Prix de Poésie de la Ville de Lyon. E' quasi del tutto inedito in Italia.
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Lunedì, 16 novembre 2015
La ricostruzione del senso / la distruzione del concetto
(appunti di poetica, anche se non pare)
Nel 1965 Joseph Kosuth (Toledo, USA, 31 gennaio 1945) "inventa" l'arte
concettuale, ovvero un'arte come attività significante e sul
significante; come superamento dei limiti del medium; come opera
preminente rispetto alla sua stessa esistenza di oggetto; come idea e
linguaggio in sé; un'arte "in cui l'accento cade sull'intento del
creatore, mentre l'oggetto su cui l'intenzionalità dell'artista si
concentra può essere puramente accidentale" (P. Rescigno). Kosuth
comincia con una installazione intitolata "Clear, square, glass,
leaning", quattro lastre quadrate di vetro appoggiate al muro che recano
ciascuno rispettivamente una scritta denotativa corrispondente ad una
reale qualità: trasparente, quadrato, vetro, appoggiato (inclinato).
L'idea è lanciata, ed è un'idea sostanzialmente di "linguaggio". Ma
forse la sua opera più famosa, sempre del 1965, è "One and three
chairs", un'altra installazione composta da una sedia, dalla sua
riproduzione fotografica a grandezza naturale e da un pannello che
riporta la definizione della parola "sedia" di un dizionario (ciò che
qui si vede sopra nella fotografia è una delle diverse repliche, già una
questione, questa, a sé stante). Il processo, secondo alcuni critici, è
quello del passaggio dal reale alla sua rappresentazione, fino al
concetto, alla sua definizione astratta, un codice che deve essere
interpretato mentalmente al di là della sua collocazione, del contesto o
perfino della presenza dell'oggetto stesso. E' un gioco, quindi direi,
che porta Kosuth da Duchamp, spesso sotto traccia nei suoi lavori
(l'oggetto "già fatto"), verso Wittgenstein, il linguaggio come
raffigurazione logica del mondo. Nei confronti del fruitore l'invito è a
conciliare, più con l'intelligenza che con la rappresentazione
oggettuale, la realtà con le sue codificazioni (rappresentazioni)
iconiche o logico linguistiche. Un'esperienza riproducibile, tra
l'altro, di fronte a qualsiasi oggetto della vita quotidiana. Una
esperienza critica, quindi, nei confronti della realtà come "originale",
intendendo questo termine anche nel senso che comunemente si
attribuisce ad un'opera artistica (originale/copia), oltre a quello di ab origine. Il "godimento" è intellettuale, la metafora è della diffidenza rispetto al "vero", a me pare. Kosuth in un certo senso "triplica" (e criticizza) Magritte e la sua pipa ("Ceci n'est pas une pipe", La trahison des images 1928/29), ma si può dire anche che costruisca un ready made plus, in cui l'oggetto da solo non basta a conquistare lo statuto di opera d'arte.
Nel 2003 Nemanja Cvijanovic, nato nel 1972 a
Rijeka (Croazia), dove ancora vive e lavora, ma formatosi
prevalentemente a Venezia, "riscrive" con lo stesso titolo l'opera di
Kosuth, un'operazione postmoderna - eh sì per una volta usiamo questo
termine non a sproposito -, copiandone (citandone) un pezzo (la parte
diciamo così "riproducibile") e sostituendone una parte: si tratta della
copia della foto della sedia di Kosuth, della fotocopia del pannello
della definizione di "sedia" (si presume sempre quella "di" Kosuth),
mentre la sedia reale viene sostituita - così si dice - con quella sulla
quale è stato fucilato il partigiano Vjekoslav Dukic il 5 gennaio 1941
(l'oggetto in effetti appare malconcio, con un pezzo mancante, come
colpito dai proiettili), evento di cui dalla semplice visione dell'opera non è dato sapere, se non sulla base di una informazione aggiuntiva,
completamente extratestuale rispetto all'opera stessa. In pratica una
didascalia, ovvero un'operazione linguistica che sta "fuori".
Qual è il significato di questa installazione? Potremmo avanzare delle ipotesi, che probabilmente stanno insieme:
a) una effettiva riscrittura di ciò che possiamo chiamare la trama del lavoro di Kosuth, sulla base di una sorta di insoddisfazione di Cvijanovic, forse nei confronti dell' anonimato dell'oggetto e delle sue rappresentazioni;
b) volontà di inserire un elemento semanticamente "altro", anzi storicamente diverso, meglio ancora, storicamente precedente, e in ogni caso portatore di una sua precisa identità, di una unicità che potremmo definire museale;
c) intenzione di indicare una sorta di preminenza della Storia, in
forza della quale (cioè in forza della perdita di anonimato) le
rappresentazioni dell'oggetto (veramente vero) appaiono
inutili, demotivate, superflue. Nota a margine: pare emergere un
carattere europeo, nel senso di incapacità di fare a meno della storia
che caratterizza il vecchio continente;
d) interruzione di fatto, intenzionale o meno, della ripetibilità,
virtuale o effettiva, dell'opera, non tanto quella di Kosuth quanto in
generale dell' idea dell'opera di quel tipo, proprio per effetto dell'unicità della
sedia di Cvijanovic. Nota a margine: serialità e autoreferenzialità
sono tratti caratteristici di molta arte concettuale (e poi della pop
art). Per Kosuth non solo sedie, ma anche lampade, martelli, poltrone,
badili da neve (ma non ci aveva già pensato Duchamp nel 1915?), orologi
(in questo caso cinque, diversamente oggettivati) e altro. Repetita
iuvant, verrebbe da dire soprattutto all'autore. Si presume infatti che
il fruitore dovrebbe aver capito il concetto alla prima. L'impressione
tuttavia è che non siano nemmeno repliche, ma piuttosto ricostruzioni dell'opera in luoghi/contesti diversi, quasi con quel che c'è
a disposizione. Ma quello della serialità è un altro problema, da
distinguere dalla riproducibilità, nel senso che aveva indicato Benjamin
nella sua opera del 1936 (nel caso di Cvijanovic la serialità è
ovviamente impossibile);
e) non escludendo inoltre l'intento di citazione parodistica, uno dei
caratteri più tipici del postmoderno, come avevo accennato prima.
Cvijanovic sembra voler dire a Kosuth: la realtà è questa, molto più
drammatica, molto meno generica. O anche: questa è una sedia, rovesciando l'assunto magrittiano;
f) infine, l'opera di Cvijanovic è un commento all'opera di Kosuth (v. sotto), un commento politico,
posto a chiosa di una intercambiabilità o una molteplicità
industrialistica che se vuole essere critica alla lunga finisce per
essere una riproposizione della stessa.
Forse l'ipotesi può essere complessivamente
riassunta come una ricostruzione del senso, o il suo tentativo di
ricondurlo fuori dal "dubbio". Ma quella di Cvijanovic è in fondo una
banalizzazione, al di là del forte riferimento storico, soprattutto
perchè pone una delle questioni (tra le altre) capitali, e cioè se il
nuovo è davvero nuovo (o forse dovremmo dire innovativo, cosa già
diversa). A me pare che qui la ricostruzione del senso si traduca in una
distruzione della metafora (o forse meglio della metonimia) e in ultima
analisi di quella del concetto. In questo senso l'opera appare
irrilevante da un punto di vista culturale, proprio in confronto a quella che la precede. Se l'opera d'arte può essere paragonata a quei discorsi che sono all'origine di un certo numero di atti nuovi, come potremmo dire con il M. Foucault de L'ordine del discorso, il
commento, che secondo il filosofo francese, riaprendo il discorso su un
certo testo "ha come unico ruolo, quali che siano le tecniche messe in
opera, di dire infine ciò che era silenziosamente articolato laggiù", qui non
genera di fatto un atto nuovo. Nel commento, aggiunge Foucault, "il
nuovo non è in ciò che è detto, ma nell'evento del suo ritorno". E' lì
che il confronto è perdente. [E' una riflessione aperta.] (g.c.)
Lunedì, 9 novembre 2015
Enrico Barbieri - Provincia - Giuliano Ladolfi Editore, 2015
Di Enrico Barbieri ho già scritto qualcosa (v. QUI),
in occasione del suo libro "Il tremore della terra", edito da CFR nel
2014. In quella circostanza avevo espresso delle perplessità, che
riguardavano soprattutto una certa discontinuità, e forse timidezza o
ritrosia nel dire, che dava un andamento rapsodico al libro.
Torno sulla scena del "delitto" con questo secondo o forse terzo libro
soprattutto perchè sono convinto che, a differenza di molti, Barbieri
nella poesia ci creda, non sia un atteggiamento e nemmeno una mera necessità (concetto
quanto mai ambiguo). Dalla prima impressione mi pare che alcuni "vuoti"
siano stati riempiti, segno che Enrico qualche riflessione l'ha fatta, e
un minimo si è messo in discussione. Vuoti che non erano tanto
"orizzontali", cioè determinati da una ispirazione vagante tra le
occasioni, quanto piuttosto "verticali", ovvero dovuti ad uno scavo
(come si diceva una volta) ancora molto da fare su quella stessa
ispirazione. C'era insomma, secondo me, la necessità di andare più a
fondo, non solo nel materiale da trattare, ma anche nella stessa
scrittura.
Credo che Enrico l'abbia fatto, magari prendendo un po' di petto quella
materia. Ricordo che tra i commenti al post del febbraio scorso, Davide
Castiglione aveva accennato, tra le altre cose, a un certo
"maledettismo un po' autoriferito", cioè, se avevo ben capito, qualcosa
di "posato", una rabbia un po' torva ma "da poeta" nei confronti di un
dolore ingiustificato, immeritato e dalla responsabilità generica e
sfumata. Per la verità non ne avevo visto molto, in quel libro, forse
perché Barbieri non ce l'aveva messa quella rabbia (ma una "rabbia di
razza", come dice adesso), o non ne aveva messa abbastanza. Ma credo che
anche in quel caso si trattasse semplicemente di una ritrosia non
ancora passata all'esame di un più consapevole lavoro poetico.
La verità è che nessuno, davvero, ha un'idea chiara del reale vissuto
di un autore, a meno che non ci si metta a fare un lavoro d'indagine che
nessuno oggi fa più. Difficile dire, alla fine, se quello che ci
colpisce è la "verità" o solo qualcosa di ben recitato (non
dimentichiamo che Barbieri ha anche esperienza teatrale). Resta il
testo, e la lingua con cui è scritto. Che
poi tutto si riporta alla lingua, che deve essere personale (e quella
poetica più che mai), e a ciò che da essa traspare. Dico questo perché, a
differenza del precedente, in questo libro mi pare di vedere una
diversa cognizione, una messa a fuoco del cosa e del come, in altre
parole una misura. Che non smorza però la vis, la nota
dolorosa ma non dolente, il sentimento della mancanza di senso in molti
accidenti della vita, l'incapacità di salvezza per sé e per chi si ama e
anche l'incazzatura, questa sì, per una realtà sociale sempre più
disfatta, una provincia pavese che non è solo geografica ma anche specchio di
una marginalità dell'individuo, di una provincia dell'anima. In effetti
non c'è distanza, a ben vedere, tra le tematiche che impregnano questo
libro, che brevemente individua Giulio Greco nella prefazione, tra la
dolorosa ma quasi rassegnata osservazione della moglie malata (certo i
testi più "forti" e commoventi) e quella niente affatto rassegnata dei mali,
descritti anche con sarcasmo,
della società locale, tra il tratto lirico di certi richiami
naturalistici e la descrizione icastica, in funzione di simboli, di
personaggi incontrati tutti i giorni. Tutto rimanda alla fondamentale
solitudine del singolo, certo esistenziale, ma anche direi come unità
politica disorganizzata, o forse consapevolmente anarchica, o di dropout per
scelta, a cui la figura dell'autore - "in parte un pazzo in parte
normotipo" - tende a sovrapporsi (ma non voglio certo dire che in lui
la poesia sia vita e viceversa). E' in questo senso dilatato che
interpreto la "provincia" di Barbieri.
Quel che è interessante è che tutto
ciò non ha bisogno di circonvoluzioni sintattiche, di torsioni, di
ricorsi all'indefinito, di lessico ricercato, né di metri o forme
particolari. Il discorso è diretto, anche apodittico, e perciò, per
dirla in soldoni, tutt'altro che crepuscolare, il verso è libero, e la
vena mi pare aperta. Se il livello emotivo continua ad essere
controllato, come se Barbieri volesse stabilire una superiorità e una
distanza "autoriale", mi pare invece che sia stata abbandonata una certa
"oralità" di cui avevo parlato la volta scorsa, che questa cioè sia una
poesia che non cerca tanto la scena (in senso metaforico) quanto la
comunicazione as is, così com'è, senza tante storie, senza
stare a cercare tra le tante parole, come gli avevo scritto in privato,
quella "giusta", ma senza tuttavia tralasciare di dare un corpo, un
nome, alle "cose". Certo, niente di innovativo in una poesia di
questo tipo, semplicemente perché non ce n'è bisogno. Ma secondo me ha,
più di tanta poesia "civile", una concretezza che un po' oggi si è persa
e che è bene ritrovare ogni tanto. E che cerca, come avevo suggerito ad
Enrico, di rispondere alle domande: che cosa voglio dire? e come? Che
non è mica poco. (g.c.)
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Martedì, 3 novembre 2015
Danilo Mandolini - A ritroso, versi e prose 2010-1985 - Edizioni L'obliquo, 2013
Con i tempi che corrono, segnati anche in poesia
da una fretta eccessiva con conseguente produzione di
rachitiche plaquettes, dà una certa soddisfazione tenere tra le mani
questo volume di circa 230 pagine, in cui Danilo Mandolini, noto
ideatore di Arcipelago Itaca, raccoglie una selezione della sua
produzione poetica tra il 1985 e il 2010, ma organizzata appunto,
diciamolo subito, a ritroso, in un excursus à rebours a partire dalla
produzione più recente fino a quella di esordio, più qualche inedito. Il
tutto diviso in nove sezioni, comprendenti anche brani in prosa, e
preceduto da una prefazione di Fabio Franzin.
Per quanto sia perfettamente lineare e articolata
su un vocabolario tutto sommato essenziale, la poesia di Mandolini
reclama una buona dose di attenzione e di compartecipazione al testo da parte del lettore, per alcuni motivi, sostanzialmente legati tra loro:
anche quando è più liricamente distesa, la scrittura di Danilo ha un notevole grado di astrattezza, intendendo
con questo la capacità di portare il dettato verso cieli più alti,
verso il simbolo e/o la metafora, verso l'interrogazione anche dolente,
anche perplessa, sui caratteri universali dell'esistenza. Il lettore in
questo senso è chiamato a leggere e ad interpretare non tanto e non solo
l'intuizione poetica, la percezione, o magari il guache
naturalistico (che qui peraltro non c'è), quanto e soprattutto il
pensiero, il porsi anche psichico dell'autore nei confronti della vita.
Una poesia perciò classica, nel senso di avulsa da quella
contemporaneità parcellizzata che angustia tanti poeti di oggi, e da
avvicinare semmai, come nota giustamente Franzin, a uno sguardo
"leopardianamente legato alla riflessione";
vi è poi, a mio avviso, un certo decentramento del soggetto (con qualche eccezione nelle poesie più vecchie),
nel senso di una collateralità dello sguardo e del suo essere
centrifugo, ovvero proiettato spesso verso un metaforico orizzonte
lontano che il pensiero tenta di attingere. Tuttavia il soggetto, che
nel dibattito attuale - forse un po' artificioso - ha preso il posto
dell'io, lirico o non lirico che fosse, il soggetto - dicevo - occupa
costantemente la scena con una presenza totale, e lo fa non tanto come
semplice presenza/proiezione dell'autore (ovvia) e nemmeno tanto come
soggetto inconscio che non può smettere di pensare all'ineluttabile,
quanto come soggetto meditante, ovvero padrone ed eroico interprete del
senso, per quanto esso possa essere arduo da afferrare per l'uomo;
c'è inoltre una scarsa presenza delle "cose" (a parte forse nelle giovanili),
di quella materialità comune che molti lettori trovano confortevole,
cose che possano riguardare l'ambiente circostante o i luoghi e gli
oggetti del quotidiano. o la collocazione nel tempo o nelle stagioni. E
se le "cose" ci sono hanno spesso la funzione delle architetture in un
quadro di De Chirico o degli scarsi oggetti in uno di Hopper ("oggetti nascosti alla vista"), dato che
non di rado svoltano subito in senso metaforico/simbolico ("Il letto del
fiume in secca che si segue / alla caccia del profitto e delle tracce
/ di quelli di noi che sono già maceria"). Una caratteristica che fa da
sponda a quanto detto prima riguardo all'astrattezza, precisando ancora
che questo termine non va inteso in senso neutro, avendo non poco a che
fare con la qualità indiscutibile delle poesie e dei brani del libro.
La correlazione tra ispirazione (termine generico che andrebbe
rovesciato) ed espressione procede quindi non per suggestioni o
ammicchi ma quasi esclusivamente per mezzo del linguaggio, a cui Mandolini rivolge un rispetto particolare nell'economia di suoi testi;
i quali, aggiungiamo anche questo elemento, hanno una prosodia organizzata per lo più in un discorso ipotattico
(che in qualche caso copre l'intero testo), scandito spesso da classici
endecasillabi battenti, ospiti fissi del libro, e che contribuisce ad
esprimere il senso di un pensiero fluido e articolato (e a volte
assertivo) che chiede attivamente al lettore di essere condiviso.
Parlando di questo bel libro, a cui uno scritto come questo non rende certo piena giustizia, non voglio però dare l'impressione di volermi tenere
alla distanza nel considerare la poesia di Mandolini anteponendo
notazioni che potremmo dire tecniche. In realtà invece a me pare che
serva cercare di rendersi conto, magari sbagliando, di certe meccaniche
che azionano la sua scrittura e, in definitiva, la sua poetica. Insomma,
perché tutto questo, allora? Se il modo (non tanto la forma) risponde
al contenuto, come talvolta succede, in questo caso è perché sono le
tematiche, rivolte a nodi fondamentalmente trascendentali e universali, a
"scegliere" per così dire la sostanza del linguaggio. Mandolini parla
in sintesi di vita e morte, di prospettiva nebulosa, di incertezza del
futuro (sempre in termini esistenziali, non certo economicisti) ecc. La
vita innanzitutto come componente essenziale della morte, come ragione e
radice, di una morte nostra e altrui (compresa quella delle morti per
guerra, come nella sezione "La linea del fronte"), precedente (come quella del padre nella bella sezione "Radici e rami") e
successiva e futura, che è il tema principale della scrittura di Mandolini.
Antagonisti che sono indivisibili perché intrinseci e complementari,
insieme ad altre coppie che anche Franzin rileva, come quella tra luci
ed ombre (un'oscurità assai significante) che baluginano in molte delle poesie presenti nel libro, o la
naturale contrapposizione tra chi se ne è andato e il superstite, con
l'amarezza vagamente colpevole di chi rimane a custodire qualcosa di
altrettanto vago e come fermo nel tempo in un qui e ora sisifeo che
tuttavia avrà fine, una specie di memoria volatile e non trasmissibile
in eredità se non forse con la parola scritta. Che però non è e non
vuole essere né sapienziale né pitica, rimandando fermamente ad un
destino già segnato, ma certamente vuole essere aderente quanto
più possibile all'ineffabile, se mi si passa l'ossimoro. Quello che il modus di Mandolini cerca,
anche con il citato ricorso a stilemi tradizionali, è di dare un ordine
(e una direzione, che non sia meramente lineare) al disordine di cui
soffre la vita e la stessa memoria, riempiendo di parole gli interstizi
del vuoto. E' forse questa la ragione della scelta di uno stile
complessivo che, salvo poche variazioni e cambi di tonalità, si è
mantenuto intatto per un venticinquennio, tanto che in realtà è
impossibile, anche sulla base di una difficile analisi filologica,
assegnare un prima e un dopo ai testi, a parte certamente quelli più giovanili, e questo contribuisce ad una
radicata impressione di compattezza stilistica, di una voce che si
esprime in sicurezza all'interno di un canone collaudato. Lasciandoci
nella ragionevole previsione che dopo essersi guardato indietro, e
dentro, Mandolini tornerà a guardare avanti. (g.c.)
Continua a leggere "Danilo Mandolini - A ritroso"
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