Giovedì, 27 agosto 2015
Martina Campi - Cotone - Buonesiepi Libri 2014, con illustrazioni di Francesco Balsamo
Ancora una poeta, ma non è una questione di genere
(o non dovrebbe esserlo), è proprio una coincidenza. Anche Martina
Campi è passata velocemente in questo blog (v. QUI), qualche tempo fa. Se Estensioni del tempo era per me un canzoniere del tempo rallentato, del "momento", sostanzialmente astorico, in cui le cose "avvengono" tout court (e
in questo era perfettamente attuale, in sintonia con tantissima della
poesia italiana di questi anni), in questo ultimo libro mi pare che la
scrittura, almeno per la maggior parte dei testi, si sia ulteriormente
rarefatta, raggiungendo spesso una filigrana da cui traspaiono, più che
dei meri accadimenti, delle percezioni, degli umori, delle epidermiche
variazioni di temperatura. Non si tratta però di superficialita, né di
poetica del frammento (o del brandello) di vita, ma - semmai - della
necessità di avvicinarsi (nella "descrizione" comunque intesa) a quel
limite presso cui si può ancora significare con la parola (o suggerire)
senza cadere nel baratro dell'insignificanza o del rapporto autotelico
(ma con la fascinazione ultima, per dirla con parole di Martina, di un
"silenzio necessario"). C'è in sostanza in questa rarefazione una
sperimentazione in atto, un lavoro sulla parola che il lettore ben
percepisce, accettando di attraversare le radure, gli spazi, gli
interstizi che in questa scrittura si aprono.
Il punto di vista, io credo, è ancora quello
intimamente soggettivo, soggettivo fino alla scelta di elementi deittici
("Su scalini scolpiti nel bianco / si accalcano ginocchia. // Bisogna
uscire di qui! E restare vivi."; "Saremo sempre lì,
dove siamo / stati", corsivi evidenziati miei) che fanno diretto
riferimento ad una realtà (un dove?, un quando?) inconoscibile o vaga o
conosciuta solo da chi scrive. Una realtà conclusa che però persiste nel
presente con allungamenti come pennellate liquide su una tela, che
sfumano in una poesia dell'indeterminato, di un pensiero inquieto come
una conversazione faticosa o imbarazzata o un monologo a cui il lettore
è invitato ad assistere, a percepirne le eteree note di fondo
L'obbiettivo è quello, a mio avviso, della
rappresentazione di una instabile relatività emozionale o affettiva, di
una volatilità delle cose e delle relazioni che ciascuno di noi prima o
poi è chiamato a sperimentare, di una impermanenza eraclitea però tutta
contemporanea, cioè irrimediabilmente compromessa da una sostanziale
assenza di futuro, come un fiume che porti sempre la stessa acqua. E' un
segno dei tempi, o almeno uno dei diversi modi possibili di vedere
questi tempi che corrono, uno dei diversi approcci, anche psicologici,
di affrontarli come individuo solitario. Una volatilità per la quale
spesso lo stesso ricordo, inteso nella sua completezza "narrativa", è
inadeguato - come forse lo sarebbe, se qui aleggiasse, il suo gemello,
il sogno, pur con tutta la sua forza perturbante, o una immaginazione
"desiderante" - e si esplica in frammenti, echi, ripetizioni che pure
hanno un preciso obbiettivo impressionistico. Lo scenario è quello di un
quotidiano senza particolari connotazioni, "delocalizzato" direi, nel
quale non avviene realmente nessun "fatto" circoscrivibile, una
situazione limbica di oggetti sfumati in cui resta protagonista un
tempo dilazionato, una specie di attesa degli avvenimenti. In qualche
misura poesia dell'irrelato, sospesa tra causa ed effetto (ma questa
sospensione è un dato esistenziale diffuso), di un simbolismo dal
"respiro trattenuto", prendendo in prestito parole della nota di
Giampaolo De Pietro.
Ma detto tutto ciò, alla chiusura del libro resta e
permane una certa fascinazione, specie in alcuni testi ben scritti (v.
ad es. Dimmi che cosa vedi III) e specie ad una lettura
meditata, come dovrebbe essere sempre, di questo tipo di scrittura in
cui i salti, gli spazi, i vuoti hanno un preciso valore fonico e
musicale, che l'autore chiede al lettore di rispettare. Certo, in ultima
analisi e al di là di nodi che per me andrebbero sciolti, ha ragione De
Pietro quando parla di "scrittura chiara e dura a rompersi" e che
tuttavia "si raggiunge, allo spezzarsi della fibra del cotone, il soffice,
l'equilibrio sul filo a tutto corpo". E' in questo equilibrio, forse
precario forse no ma sempre speranzosamente sostenuto dal filo tenace
della scrittura, che si trova molta della poesia italiana attuale. (g.c.)
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Mercoledì, 19 agosto 2015
Alcuni giorni fa qualcuno su Facebook si chiedeva (e chiedeva in giro) che fine avesse fatto Gino Scartaghiande. Non ne ho la minima idea, ma ecco intanto qualche poesia tratta da "Sonetti d'amore per King Kong", un libro che risale al 1977, uscito per volontà di Elio Pagliarani presso la Cooperativa Scrittori, testi "accompagnati da una bella prefazione di Renzo Paris che li presenta come «poesia filosofica, che ritrova il giudizio, anche sprezzante, nei confronti del mondo degli oggetti e delle persone, un giudizio di natura espressionistica e lirica insieme». La filosofia è anche quella del concreto, ma si confonde fra l'alto e il basso. La certezza è che «non potremo uscire, non potremoentrare; il verbo essere è tutto / un maledetto imbroglio». Ma è proprio nella terza e conclusiva parte del poemetto, così aerea e rasserenata, l'esito di una salvezza perentoriamente affermata con la presenza, non citazionista, di due terzine dal Paradiso di Dante. È qui, tutto sommato, che l'esperienza trova la sua vera ricomposizione e, se si pensa che il poemetto è scritto nel 1974, come mi dice l'autore stesso, che quel modo di «aggrapparsi» a Dante fu senz'altro profetico di quella che sarebbe poi stata la ricerca poetica sua e dei compagni di viaggio di «Braci».."(*). Altre cose, insieme a una nota di Stefano Guglielmin, le trovate QUI. Altre ancora QUI , tra cui l'importante poemetto in tre parti "Il nome", il testo di esordio di Scartaghiande, apparso sul n. 10-11 del gennaio 1977 di "Periodo ipotetico" e presentato da Elio Pagliarani, direttore della rivista, come "la rivelazione di questo numero".
GINO SCARTAGHIANDE è nato a Cava dei Tirreni (Salerno) nel 1951 ed ha studiato presso ''La Sapienza'' di Roma, dove attualmente (?) risiede. Ha pubblicato due libri di poesia, Sonetti d'amore per King Kong - Cooperativa Scrittori - Roma 1977 e Bambù (questioni di provincia) - Rotundo - Roma 1988. Tra i due testi, undici anni di distanza e una scrittura sempre a fuoco, eppure focalizzata intorno a un centro espressivo ben differente. Esemplare in tal senso la dichiarazione posta nelle prime pagine di Bambù: ''Prima di ciò / avevo la facilità / d'esserci. / Ora è come / da una finestra a metà /senza differenza ma doverosa. '' Il silenzio in cui Scartaghiande sembra essersi chiuso conferma quest'impressione di difficoltà dolorosa e necessaria: ''Io non ho mai / incominciato a dire. / Se non la vanità. / Io attendo una grazia e solo questo / mi sento di dare. '' Per i commenti critici si veda E. Pagliarani - ''Periodo ipotetico'' n° 10/11 - G. Sica ''Avanti!'' - 13/02/77 - A. Giuliani - ''La Repubblica'' - 23/04/77 - F. Cordelli - ''Il poeta postumo'' - Lerici - Roma 1978 - A. Zanzotto - ''Corriere della sera'' - 07/06/96 - S. Caltabellotta - dall'antologia ''Ci sono fiori che fioriscono al buio'' - Frassinelli 1977 - (*) Flavia Giacomozzi - "Campo di battaglia, poeti a Roma negli anni ottanta (antologia di "Prato pagano" e "Braci"), con intro di Gabriella Sica, Castelvecchi 2005 (Fonte: Kult underground, con variazioni e aggiunte mie).
Foto di Dino Ignani (fonte: http://poesiadelmondongo.blogspot.it/2010/09/gino-scartaghiande.html) © Dino Ignani - tutti i diritti riservati
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Giovedì, 13 agosto 2015
Dorinda Di Prossimo - La notte la casa l'assenza - Edizioni Forme Libere 2015
Di Dorinda Di Prossimo se ne è già parlato QUI,
con un certo interesse, soprattutto per la sua scrittura e la sua
capacità di inserire il proprio mondo in una griglia coerente,
perlustrabile, senza estremi cedimenti lirici anche quando la materia è
sentimentale (in senso lato) o dolorosa, e con una notevole attitudine,
che avevo definito "inventariale", a dare una identità alle cose. In
quella occasione (a proposito di Quaderni millimetrati) avevo parlato di uno spazio,
che deve essere abitato o "familiarizzato" per poter essere in qualche
modo sostenibile, ma di come non fosse possibile farlo, anche
poeticamente, senza una drammatica coscienza del tempo che in quello spazio scorre.
Già il titolo, in questo libro/canzoniere di circa 140 poesie, è una perfetta sintesi e riproposizione di quanto avevo constatato. La casa e la notte sono luogo e tempo in cui l'assenza, qualcosa che solitamente percepiamo come immoto,
si manifesta, sia essa di un amore o del padre più di una volta
evocato. Ritorna un luogo per eccellenza, non solo del quotidiano ma
anche della rivisitazione del ricordo, del rimpianto, della rimessa in
discussione: la casa, un guscio aperto verso un esterno relativo e
limitato, forse ininfluente, aperto attraverso una finestra o un balcone
su un paesaggio circoscritto, aperto attraverso rumori o la presenza di
una "vicina" citata più volte. Luogo del vivere più distillato, nel
quale più si assommano, anche nella loro identità di nomi, le cose,
materiali o immateriali. E spazio, materialmente circoscritto ma
mentalmente infinito, riecheggiante e marino, nel quale ritrovare le
parole, anzi ricercarle accuratamente. In questo spazio in cui scorre
gran parte della vita, la notte rappresenta la parte oscura che tuttavia
serve drammaticamente ad illuminare certi eventi, certe esperienze,
vittorie, perdite, fallimenti, magari in quell'ora antelucana che Ingmar
Bergman chiamava l'ora dei lupi, quella in cui siamo soli, si pensa, si
fanno bilanci, ed è molto difficile darsela a bere. Naturalmente anche
la notte è un luogo, un "topos", in cui non tutto avviene,
fortunatamente, ma la notte "serve" - scrive Di Prossimo "se non ci
fosse la notte, m'inventerei / un ventre abissale". Così pure l'assenza
non è mai totale, è paradossalmente una presenza che popola la casa, assegna alle cose una carica affettiva. E', in altre parole, una evocazione,
come dice Di Prossimo in una della poesie, che avviene all'interno - ed
è una delle caratteristiche - di una quotidianità serrata (o appunto
casalinga), direi pure tradizionale, elemento che si riverbera anche, in
molti punti, sullo stile, sull'apparenza di una poetica dell'oggetto
illuminata da una luce emotiva (e vale ricordare che, come sostiene Remo
Bodei, gli oggetti caricati emotivamente diventano "cose", cessano di
essere antitetici al soggetto - o antagonisti -, anzi lo assumono in
sé).
L'enucleazione della cose, dei fatti, dei ricordi,
delle assenze, con quel che di "nostos" racchiudono, non può che essere
affidato al linguaggio. Se in qualche caso può apparire "ricercato",
voluto, a volte spinto da una specie d'ansia di trovare l'inconsueto o
lo scarto semantico, nella generalità dei testi è esatto e coerente,
iconico e immaginifico, spesso affidato, specie nei testi più brevi, a
una sua semplice funzione poetica (una musica interna) più che alla
prosodia o alla versificazione, qui non importanti poiché si tratta di
una lirica "modernizzata", sciolta e libera, libera anche di frangere il
verso in sintagmi anche minuti, fino alla particella, libera viceversa
di sfociare in accenti leopardiani ("quando le ombre non tremano / e il
primitivo figlio a casa torna / e del pane fa gioia") o di diversi
altri nomi della tradizione italiana, o di virare senza timidezza su
toni elegiaci. Tanto più che sono i modi e gli stili, qui, di una lirica comunque sempre
sostenuta da una notevole varietà linguistica (e da una sensibilità,
qui vale la pena dirlo, tutta femminile) che ne smaltisce opportunamente
il tratto elegiaco/nostalgico/malinconico. La sostanza è
il raggrumarsi di un pensiero intorno a qualcosa di granitico, come
avviene in una perla. E questo non solo perché in certi testi è
possibile contare svariati nomi di oggetti, di cose concrete e
immanenti, come se tutte fossero sfiorate da un inquieto sguardo
circolare sull'ambiente. Del resto, se almeno in poesia il tempo è in
fondo ciclicità, delle notti, delle albe, dei giorni, nella ciclicità le
cose famigliari che vi si oppongono sono, nello sguardo e nella
memoria, come isole nella corrente. C'è da dire anche che in questa
poesia le cose o i fatti non funzionano tanto come epifanie o
correlativi oggettivi, ma piuttosto come switchers, come interruttori
della mente verso il vissuto di cui sono o sono state testimoni e verso
la sua riscrittura con i "ci si potrebbe" e con i "facciamo
finta che", il suo emendamento, come quando lo sguardo attraversa
qualcosa che stiamo osservando e ci si ritrova assorti a dare ragione
in qualche modo dell'assenza (della "morbidezza della solitudine"), a
riavvolgerne la storia. L'assenza poi non può non essere
contemporaneamente attesa cioè ancora tempo che scorre ("La
casa, malinconicamente ripulita. / Come aspettando il dottore, / il
dolore, o, una manciata di miracoli"), perfino attesa di qualcosa che
sappiamo non si realizzerà mai, anche allorquando "si fa chiaro il fosso
/ del vivere lontana, non solo da te, ma, / dalle circostanze d’ogni
felicità". Quindi, ancora, spazio/tempo come indivisibile elemento
necessario, "femminile" ed emotivo, tangibile (quindi reale?) ed insieme
astratto, ma comunque paradossalmente "posseduto" e incasellato forse in uno dei quaderni "millimetrati" di Dorinda, e agevole come può
esserlo un palcoscenico calcato in numerose repliche. (g.c.)
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Mercoledì, 5 agosto 2015
Un breve saggio di Czeslaw Milosz a proposito di Wislawa Szymborska, da titolo "Non l'avevo forse detto?", inedito in Italia, tradotto dal polacco da Giovanna Tomassucci, che ringrazio. Uno scritto che vuole iscriversi in uno sperabile più ampio dibattito sulla poetessa, uno sforzo di più profonda comprensione sui contenuti, le forme, la poetica, e non tanto sulla Szymborska come "fenomeno" o come moda innescata da un "effetto auditel", come è avvenuto qui in Italia nel febbraio del 2012, né tanto meno come inconsueta "base culturale" di manuali del cosiddetto "humanistic management". In questo senso di partecipato approfondimento si è mosso il Convegno che si è tenuto a Pisa nel febbraio del 2014, di cui ho dato notizia QUI, con molti importanti interventi. E nella stessa direzione vuole muoversi il volume che raccoglie gli atti del Convegno e che verrà pubblicato dalla Pisa University press, per la cura di Giovanna Tomassucci e Donatella Bremer. Il libro, che comprenderà anche un testo inedito di Pietro Marchesani sulle sue traduzioni di Szymborska e un ricordo di Marchesani e Vanni Scheiwiller di Laura Novati, si intitolera': "Szymborska: la gioia di leggere. Lettori, poeti e critici [dedicato alla memoria di Pietro Marchesani]" e sarà articolato in tre sezioni, con i relativi interventi: 1. Ricordi e progetti [con interventi dei polacchi Ewa Lipska, Michal Rusinek, presidente della Fondazione Szymborska nonché storico collaboratore della poetessa, Jaroslaw Mikolajewski, poeta, critico, italianista] 2. Poeti [Anna Maria Carpi, Mariagiorgia Ullbar, Paolo Febbraro] 3. Critici [Alfonso Berardinelli, Roberto Galaverni, Donatella Bremer, Andrea Ceccherelli, Giovanna Tomassucci]. ----------------
N.B. Ho aggiunto in calce all'articolo, ad usum lectorum, i testi integrali delle poesie citate da Milosz.
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