Lunedì, 29 giugno 2015
Su "Carteggi letterari", rivista on line diretta da Natàlia Castaldi. sono pubblicati (v. QUI), accompagnati da una nota critica di Viola Amarelli, che ringrazio sentitamente, quattro (in realtà sette) miei testi inediti appartenenti a momenti e ricerche diversi, tuttora in corso.
Giovedì, 25 giugno 2015
Il prossimo settembre Imperfetta Ellisse compirà dieci anni di attività.
Non ricordo quante volte ho pensato di piantarla, perchè spesso è
faticoso mandare avanti un blog da solo (salvo qualche intervento di
amici a cui sono grato), e non poche volte appare del tutto inutile.
Senza contare il tempo che mi prende, per lo più a scapito di altre
attività più creative e forse più "egoistiche", tipo scrivere poesie
piuttosto che parlare di quelle di altri. Ma tant'è, siamo ancora qui.
Molti dei post che ho scritto appaiono oggi ingenui e forse risibili
(come forse erano gran parte dei blog di dieci anni fa, oggi scomparsi),
altri appaiono monchi perché ad esempio fanno riferimento tramite link a
cose che nel frattempo sono state spazzate via dalla rete. E' internet,
un luogo dove ti sembra di trovare tutto ma in cui niente dura
realmente.
Molti altri articoli mi sembrano invece ancora di qualche valore,
specie quelli in cui ho cercato di dare un'idea della poetica e di
quello che l'autore di cui parlavo stava facendo. Spero di essere stato
utile o almeno di avere innescato qualche riflessione nel diretto
interessato o in chi altri leggeva. Spesso non si trattava tanto
di esercitare una critica sul testo quanto di dare un'occhiata ai
meccanismi della poesia, che non di rado sono più interessanti
dell'opera in questione, e del suo autore. Qualcuno mi ha ringraziato (anche qualche
studente che cercava spunti in rete), qualcun altro ha evitato
accuratamente di rispondermi.
Ma non volevo star qui a fare bilanci, semmai li farò a settembre. L'idea era un'altra. Come ho scritto nel titolo, quello che mi
piacerebbe è una specie di richiamo in servizio, o meglio una richiesta di intervento,
anche solo per questa unica occasione. Qualsiasi cosa, da parte di chi
in qualche modo segue il blog (e non sono pochi) e se la sentisse: un'idea di poetica, un
minisaggio, una teoria, una contestazione, un manifesto, un ricordo, una poesia
memorabile (ma dicendo perché lo sia). Anche un vaffa purché
poeticamente espresso. Potrebbe uscirne qualcosa di interessante. Oppure niente, chi lo sa. Non c'è scadenza. Grazie. (g.c.)
Sabato, 20 giugno 2015
Roberto R. Corsi - Cinquantaseicozze - Ed. Italic Pequod 2015
Queste cinquantasei di Corsi sono proprio loro, le cozze, il Mytilus galloprovincialis, il muscolo, il peocio, il mòsciolo. Il bivalve lamellibranco
che si attacca dove può e si adatta sostanzialmente all'ambiente,
campando nell'acqua che trova. Simbolo qui, più che metafora, di una
situazione adattativa di cui l'autore è il principale protagonista e
anche di una stagione, di una zuppa, di un brodo di coltura, di una
riviera. Tutti metaforici.
Questa raccolta
di Corsi è, se vogliamo, un libro sull'habitat e di come un uomo vi si
trovi e ne sia in qualche modo conformato, in parte conquistato, in
parte respinto. Certo non habitat in senso fisico, ecologico, o almeno
non solo. Si tratta forse soprattutto di una collocazione sociale, di
una medietas che
in altri contesti potremmo definire borghese, ma qui serve a poco altro
che a dare un'idea. Una collocazione neanche tanto drammatica, in cui
cioè la vita sembra scorrere con molti dubbi, qualche perplessità,
alcune insoddisfazioni, qualche conflitto esistenziale (e forse
esistenzialista: "il macigno del non vivere") fatto di domande di senso
rispetto a momenti che scivolano via come un sasso lanciato a pelo
d'acqua (il sasso però, ricordiamocelo, finita l'inerzia affonda).
La vita che scorre in questi versi è, come quella di tutti, ordinaria. Proprio perciò diremmo emblematica, come quella dell'Ulrich musiliano (come allude opportunamente Viola Amarelli su suo blog, citando L'uomo senza qualità - v. QUI), ma è una vita in qualche modo collaterale, di una collateralità
di cui Roberto è peraltro consapevole. Una vita che trascorre per lo
più in momenti di relativo edonismo, in cui c'è poco posto per altre
emergenze del vivere - torno
a dire - ordinario, non c'è ad esempio che qualche riferimento al
"resto" della vita come il lavoro o i legami veri e anche l'amore non è
qui connotato singolarmente, come cioè forza affettiva in qualche
maniera "universale", ma come pluralità di trascorsi con troppe
soluzioni di continuità, troppi vuoti in cui il rammarico galleggia. In
questi testi, distesi in una versificazione lunga e a volte lunghissima
(che però basterebbe un qualsiasi enjambement per riportarla ad un
"ordine" novecentesco) con affioramenti di metri "classici" e con
l'ausilio di un linguaggio a volte colto, a volte ironico,
spesso basso/colloquiale legato in un impasto che a tratti mi ricorda
Gadda, con qualche accumulazione in brillanti barocchetti, in questi
testi - dicevo - c'è spesso il mare versiliese,
c'è la spiaggia e la sua fauna, c'è un'aria estiva ripercorsa anche con
ricordi di infanzia, c'è un paesaggio urbano di struscio, c'è il
calcio, c'è il cibo, ci sono insomma tutta una serie di fondali (intesi
sia in senso scenico che marino) su cui scorre la soggettiva (sì, in
senso cinematografico) del soggetto Corsi. Cosa avviene in questi
scenari? Ciò che appunto "accade", secondo l'etimo del termine, l'
"incidente" la cui occasionalità
è poi oggetto e materia di riflessione. E' una realtà visibile e
tangibile quella che cozza (appunto) e rimbalza sul soggetto. Niente di
metafisico né trascendentale e questo, per un verso, è cosa buona e
giusta. Una realtà che Corsi vive con molto spleen e non troppo idéal,
potremmo dire se volessimo accentuare l'idea di questo libro come
pessimista e un'altra idea, abbastanza involuta, del suo autore come
colto flaneur equamente diviso tra Firenze e le spiagge versiliesi. Non è proprio così, ovviamente. Se forse la preoccupazione principale del Corsi poeta è governare il caos piccolo, quello che in fondo è a portata di mano, quei momenti di incoerenza tra il fenomeno e lo spettatore poetante, e se a tratti affiorano una passività di fondo molto ben regolata/temperata da non poca autoironia e da un qualche spritz
di divertente narcisismo, e l'edonismo di cui si diceva un po'
preoccupato ma autocosciente, tuttavia Roberto non si accontenta (e
nemmeno noi dovremmo) di una superficie. La percussione di questo tipo
di realtà crea un rimbombo grave e pensoso che quasi sempre nel finale del testo precipita e deflagra in schegge di dubbio (di una esistenziale irrilevanza,
ad esempio, più volte evocata), per poi
spegnersi. Corsi analizza questa sorda eco, cerca bravamente di
capirne il significato, di capire come stare dentro - adattandovisi
- a questa realtà che certo in gran parte si è costruita, che forse ha
scelto e che non ostante questo è piena di ombre agitate. Cerca insomma
di comprendere (e ha ragione ancora V. Amarelli quando parla di "sostanza essenzialmente tragica" del libro) che cosa non ha funzionato,
tra la vita e lui, lui personalmente, senza la presunzione di parlare a
nome di una generazione di mezzo con problematiche troppo eterogenee e
diverse e men che mai di farne una poesia "civile", anche se non manca
qualche aggancio alla storia politica e sociale del nostro paese. Corsi,
anche per questo, per la assoluta centralità del soggetto, per certi
versi "cantati", per una scrittura abile e icastica spesso musicale, in
fondo è proprio un lirico, per quanto un lirico (e Roberto capirà
l'ironia) sicuramente di tipo irregolare. (g.c.)
Continua a leggere "Roberto R. Corsi - Cinquantaseicozze"
Sabato, 13 giugno 2015
La pubblicazione di un libro di Wallace Stevens, per quanto non
recentissima (l'uscita è avvenuta nel Febbraio 2014) è sempre una bella
notizia, soprattutto se lo si ritrova in una piccola biblioteca
pubblica piena di gialli. Una cosa insolita, una piccola epifania.
"Le aurore d'autunno" (Adelphi, 2014) sono l'ultima raccolta di
Stevens, apparsa nel 1950. In Italia, sempre per la cura di Nadia Fusini
che firma nel libro un saggio di introduzione importante e
appassionato, era già stato pubblicato da Garzanti nel 1992, se non vado
errato.
Pubblico qui alcune delle poesie più brevi (ma certo non di minore
importanza) e in un certo senso più "leggibili" (per quanto lo possa
essere Stevens che è sempre aperto ad una moltiplicità di
interpretazioni), tralasciando per ragioni di spazio i fondamentali
poemetti come Aurore d'autunno, Un primitivo come un globo (che però è possibile leggere QUI), Cose d'agosto e soprattutto Una sera qualunque a New Haven.
Queste, seppure più brevi, sono ugualmente importanti e capaci di dare
l'intensa emozione che si prova sempre leggendo Stevens. E un'ottima
occasione di rilettura, o di lettura per chi ancora non lo avesse fatto.
OMONE GRANDE E ROSSO CHE LEGGE
C'erano spettri tornati sulla terra per sentire le sue frasi,
Lui seduto che leggeva ad alta voce le grandi tabulae azzurre.
Erano quelli del deserto delle stelle che avevano atteso di più.
C'era chi tornava per sentirlo leggere dal poema della vita,
Della pentola sulla stufa, la brocca sul tavolo, i tulipani.
Erano quelli che avrebbero pianto pur di entrare scalzi nella realtà,
Avrebbero pianto di gioia, tremato di freddo nel gelo,
E gridato pur di sentirlo ancora, avrebbero accarezzato con le dita le foglie,
Le spine più acuminate, afferrandosi al brutto,
E ridendo, mentre lui seduto leggeva, dalle tabulae di porpora,
I lineamenti dell'essere, le sue espressioni, le sillabe della sua legge:
Poesis, poesis, le lettere, i caratteri, i versi ispirati,
Che in quegli orecchi e in quei cuori sottili, esausti,
Prendevano forma, colore, e la misura delle cose così come sono,
E dicevano per loro l'emozione, che era ciò che era loro mancato.
Continua a leggere "Wallace Stevens - Aurore d'autunno"
Lunedì, 8 giugno 2015
Fosca Massucco - Per distratta sottrazione - Raffaelli editore 2015
Avevo già avuto modo di parlare della poesia di Fosca Massucco in
occasione dell'uscita nel 2013 del suo "L'occhio e il mirino" (v. QUI).
In quella circostanza mi pareva di aver individuato, tra le altre cose,
soprattutto l'attenzione di Fosca per una poetica del "piccolo", un
piccolo risonante, fatto di oggetti, elementi ambientali, emergenze
della natura, che l'autrice andava ricercando e annotando, "oggetti -
dicevo - che devono essere (in sé e quasi ideologicamente)
portatori di un senso", una ricerca, aggiungevo, che "sembra tesa alla
creazione di un microcosmo il più possibile felice (o, forse meglio,
moderatamente infelice) e forse alieno all'esterno, in cui il sentimento
predominante sembra essere la malinconia o una "serena" inquietudine",
la ricerca insomma "di una agnizione, di una epifania". Questo in
estrema sintesi, naturalmente senza dimenticare la qualità della
scrittura che in tutto ciò si esprimeva.
Pur tenendo presenti alcune delle osservazioni che facevo in quella
occasione, mi pare che questa ultima raccolta di Massucco abbia in un
certo senso fatto un passo ulteriore. Intanto, rispetto a "L'occhio e il
mirino", c'è un complessivo ritrarsi dell'io esplicito, cioè quello
espresso verbalmente dalla prima persona, a favore, si direbbe, di una
considerazione più universale del circostante e una lettura più
"plurale" dei segnali che da esso emanano. Se questo a mio avviso è -
appunto - un passo avanti, tuttavia va detto che questa differenza è
sotto alcuni aspetti solo apparente. Il soggetto è forse più presente di
prima, solo che è andato più in profondità, si è rivolto maggiormente a
una relazione più intima ma meno "privata" tra l'autore e le cose
(continuiamo per comodità ad usare questo termine altrimenti
discutibile) e meno a personali conflitti. Quello che conta qui, mi
sembra, è il tipo e la qualità del rapporto tra soggetto e cose, stante
che un soggetto (un "io" che magari per vie traverse continua ad
operare all'interno del testo anche senza apparire) alla fine c'è
sempre (v. a questo proposito P. Zublena QUI).
Conta cioè se e quanto questo cambio del punto prospettico, questo
aggiustamento del "mirino", è funzionale (e lo è) e contribuisce
all'autorevolezza del testo poetico, alla sua capacità eidetica, cioè di
rendere l'intuizione dell'autore in una visione poetica.
E le cose, le cose sono fittissime in questo libro, nominate
accuratamente con una acribia e una competenza che vuole segnare un
territorio, che vuole rigettare il generico. Proprio quelle "cose" che
molta poesia lascia problematicamente indifferenziate (v. D. Castiglione
QUI),
qui sono emergenze della realtà (soprattutto le piante: fieno greco,
erba sparta, calicanto, elianti; ma anche altre "cose": favonio [di
montaliana memoria], gelosie, porporina. mercedonio, avvezione) che
colpiscono il lettore anche per la loro musicale concretezza. come suoni
desueti. I nomi delle cose segnano il territorio, come dicevo, e certo
anche un paesaggio, non solo interiore, in cui si posizionano e proprio
con la loro concretezza sembrano offrire un appiglio sicuro
all'osservatore e al poeta. Ma certo in questo libro hanno una funzione
meno consolatoria, costituiscono meno una specie di certificazione di
esistenza in vita di una realtà a cui, insieme ad esse, anche l'autore
appartiene (ed è questo sostanzialmente il loro "sollievo"). Ma sembra
infine che Fosca, pur non rinunciando alla loro fascinazione, creda meno
al potere risolutivo di dare "un nome alle cose, / inquadrate,
schedate, aspettando la voce / – oh, bontà loro! – in cui la
verità si disvela". Si insinua come una diffidenza, un certo dubbio
quando aggiunge, nello stesso testo: "Se dietro gli occhi passa
un’immagine / capovolta – e afferro solo contorni, / sagome di putti e
trionfi, / è inutile, perfetta epifania / quel che solo posso
dire" (tutti i corsivi sono dell'autrice). In altre parole, mi sembra
dica Massucco, c'è qualcosa di incerto - forse perfetto ma inutile a
dare un senso vero alle cose - nella nostra capacità di intuire,
joycianamente, il loro riflesso nella nostra coscienza. A pensarci bene
un'idea non dissimile da quella espressa da Montale in "Forse un
mattino andando": "Forse un mattino andando in un'aria di vetro, / arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: / il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro / di me, con un terrore di ubriaco" (ma v. meglio QUI), credo uno dei pochi momenti montaliani di "dubbio" nei confronti dell'occasione epifanica, probabilmente su suggestione di Merleau-Ponty.
Ecco
allora che tra le cose (o dietro il loro aspetto "naturale") si insinua
il vuoto, un topos espresso nella raccolta almeno una decina di volte, e
questo è l'altro elemento che sembra aggiungersi, rispetto al
precedente libro, alla poetica complessiva di Fosca. Un
vuoto però non del tutto privo di senso, ancora "concreto" in qualche
aspetto, un vuoto in cui tuttavia, a scapito delle logiche aspettative,
qualcosa continua a vibrare. Non sono infrequenti infatti le metafore
che Fosca pesca nella sua cultura musicale e professionale (è
specializzata in Fisica acustica e tecnica del suono), potremmo anzi
dire che la "vibrazione" (della parola, del ritmo, dei "vuoti") è una
caratteristica del suo stile, forse anche più di quanto lo fosse nella
silloge precedente. Emblematica da non pochi punti di vista è la poesia
che dà il titolo alla raccolta:
Immersa in una tonale di gioia, io trionfo
incessante negli anditi riverberanti dell’anima
come un crine ebbro di pece sulla corda.
Il dolore è silenzio del tono puro
per distratta sottrazione.
che, con tutti i suoi riferimenti semantici (tutti afferenti alla
musica) che appunto si riverberano gli uni con gli altri, è un'unica
compatta metafora concettuale. Contraddistinta dall'opposizione tra la
terzina e il distico, parla di gioia e dolore entrambi visti come
vibrazione che attraversa il corpo, la prima come una tonalità a cui
l'anima fa da cassa di risonanza (e il crine è quello dell'archetto), il
secondo invece è un silenzio, la totale mancanza perfino di un suono
"perfetto" (per semplificare), un vuoto dolorosamente totale (ed ecco
che si torna a quello che "c'è dietro" alle cose) di cui avere orrore.
Ma come sappiamo anche i silenzi in musica sono significativi, a loro
modo vibrano. Ciò che aggiunge interesse è alla fine cercare di capire
cos'è la "distratta sottrazione" chiamata in causa. Se l'occhio e il
mirino servivano a focalizzare un'attenzione verso il reale in fondo
confidente e positiva, qui c'è un divergere, una distrazione da una
realtà vista più scetticamente. Ma è come se Fosca ponesse un confine
invalicabile, e certo una responsabilità che investe il poeta: c'è un
limite nella sottrazione - che forse per quanto distratta può essere
anche intesa come un "levare" o meglio un "togliere", come la ripulitura
della vibrazione dal noise, dal rumore di fondo - altrimenti
la vibrazione stessa, intesa come emozione, sensibilità, partecipazione
alla vita diventa dolore "bianco", immoto, privo di armoniche,
insensato. E perciò impoetico. Bisogna comunque starci "dentro", avverte
l'autrice (D’improvviso domandavi: “Com’è il vuoto / visto da
dentro?”).
E' questa la ragione per cui le cose, nella poesia di Massucco, devono
continuare ad emettere la loro radiazione, la loro onda sinuosa, pur
lasciando intravedere, nei loro interstizi, quel vuoto inquietante
"dentro". Fosca si mantiene ("levigata dalla vita, mai vinta")
saldamente al di qua del limite, in "una prospettiva del verso che non è
cupezza", come sottolinea Elio Grasso nella prefazione, e che
certamente non è lamento o cordoglio né rovesciamento. E se certo anche
questo ultimo libro di Fosca rientra a buon titolo in un filone
lirico-elegiaco persistente nella poesia italiana attuale, sono
d'accordo con Grasso che esso sia "miracolosamente fuori tempo", o che
forse lo sia volutamente. (g.c.)
Continua a leggere "Fosca Massucco - Per distratta sottrazione"
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