Sabato, 30 maggio 2015Luigi Cannillo - Galleria del ventoLuigi Cannillo - Galleria del vento - Ed. La Vita Felice 2014 ![]()
Sono molti i motivi di interesse in questo lavoro di Luigi Cannillo,
che ho avuto il piacere di sentire di recente qui a Pisa. Un libro a
lenta lievitazione, come ha avuto modo di dirci lui stesso durante
quell'incontro, perché raccoglie testi maturati lentamente negli anni,
elaborazioni di fatti, amori, impressioni, suggestioni ma soprattutto di
un lutto per così dire "esemplare" perchè riguarda la figura principe
nella vita di chiunque, quella della madre.
E' proprio questo tema che costituisce la prima sezione del libro,
"L'ordine della madre". L' ordine (e qui già si coglie la sfaccettatura
della parola poetica) è termine che può porsi come chiave multipla: da
una parte denota la serie degli eventi che determinano, attraverso la
madre, la vita e l'identità dell'uomo; dall'altra indica il codice o il
canone, la regola e l'educazione alla vita che la madre consegna al
figlio, anche oltre la sua scomparsa, qualcosa che "impronta forme e
limiti"; dall'altra ancora, io credo, segnala la necessità e il
"mestiere" di dare un senso alle cose, sia immateriali che fisiche,
collocando le cose stesse nello spazio, come quello della casa, in cui
possano caricarsi di tutto il loro valore simbolico e affettivo. E
infatti in questo genere di "temi dell'addio" a cui appartiene anche
questa sezione, la casa è un luogo importante in cui si concentrano i
ricordi, gli oggetti, i rammarichi. In un certo senso quando la madre
muore (qui e in altri autori, v. ad es. Quintavalla QUI),
muore anche la casa, e quando vi si ritorna "gli oggetti della casa /
anticipano il lutto / al giro della chiave estranea". La morte è "una
forza contraria alla vita" che questo ordine scompone e contro la quale
l'unica resistenza che si può opporre è forse la ricomposizione dei
frammenti, appunto perché la vera consapevolezza, come nota Sebastiano
Aglieco nella prefazione, è di una "finitezza che ci abita e che non ci
chiede la resa ma l'ordine". Del resto la galleria del vento, che come
sappiamo è strumento che misura la resistenza strutturale, non è altro
qui che metafora delle correnti e dei flutti che nella vita ci investono
e ci mettono alla prova e di cui contrastiamo "l'aria dell'attrito", il
"vento sconosciuto che incrina la casa da dentro".
C'è un destino in tutto questo, o un senso in quella perdita, in quelle
presenze (di cose, di anime) che tornano a "curare" il poeta? Non lo
sappiamo, ma certo Cannillo, anche per altre vie ignote agli scettici,
non rinuncia al tentativo di darci una risposta. La sezione "12 segni"
(e sono segni zodiacali), anche se forse dettata da altre occasioni,
sembra essere in effetti un prolungamento de "L'ordine" con altri mezzi.
L'iscrizione nelle stelle del destino di ciascuno di noi non marca una
differenza degli uni dagli altri poiché, al di là del "carattere" con il
quale lo si affronta, il destino in fondo è uno solo e uguale per
tutti. Tuttavia è con quel carattere, che non è altro che un modo di
affrontare la vita, che ciascuno, alla sua maniera, dà un ordine alle
cose. Che è in ultima analisi, come nota giustamente Aglieco, un modo di
reagire a un sentimento di "perdita" che attraversa tutto il libro.
Tutti i segni zodiacali che Cannillo reinterpreta (e reinventa) sono
anche la rappresentazione di una circolarità, di un riproporsi
dell'esperienza umana che in un certo senso contesta, pur nel dolore e
quindi nella sua riproposizione, una linearità del tempo a cui anche
culturalmente siamo abituati e annulla, nel destino comune, quella
differenza a cui accennavo. In ciascuno di essi e nella circolarità di
tutti Luigi parla ovviamente di sé, ed ecco che ritorna la madre ("Nel
nome della madre / completeremo il cerchio dell’esilio / noi stessi
madre tramandata / nella consolazione, la marea / che sutura e riapre la
ferita"), ecco che, come nei "gemelli", si mette in discussione
l'unicità, si ammette "la negazione del primato", una specie di
agnizione dell'altro che ci fa consapevolmente umani.
Se qualcosa di onirico aleggia nei ricordi e nei destini fin qui
tratteggiati, nella terza sezione del libro, "Il rovescio del corpo", in
cui molto del discorso è dedicato alla relazione affettiva, all'amore,
ci si riaccosta ad una certa fisicità di cui il corpo è interprete,
anche nei confronti dell'esistere, della percezione delle cose. Se
Sebastiano Aglieco ha senz'altro ragione quando scrive che il corpo "è
il luogo dei soli avvenimenti che possiamo comprendere - gli altri ci
circondano e ci accerchiano come conseguenze di ragioni a noi oscure –",
tuttavia Luigi è troppo abile con la parole per non mettere in conto
che, nella sua poetica, il "rovescio" ha quanto meno altre letture: una,
che come un abito il corpo ha un "interno" meno visibile che a volte ci
trascende e ci domina, come nella pulsione erotica ("La trama del corpo
si mostra / al rovescio e l’unica maglia / intreccia il reciproco
assedio: / il mio desiderio verso le tue mura / e il tuo esserci al mio
desiderare") e come ci rammenta anche l'esergo della sezione in cui
Nietzsche afferma che la grande ragione del corpo è che "essa non dice
'io' ma agisce da 'io' "; e poi, certo, il rovescio inteso come
decadimento - e qui si ritorna al comune destino -, come sentimento,
ancora, della perdita che rimane sullo sfondo di tutto il libro e che è,
in questo caso, legata essenzialmente al tempo ("il tempo lente
rovesciata" e altrove "dobbiamo scrutare il traguardo / il cuore
rovesciato del futuro"). Poi, certamente, c'è uno spazio, come
nell'ultima sezione "Berliner", per inventari diversi dal cordoglio, per
momenti in cui l'esperienza si è coagulata anche in maniera correlata,
luoghi cari all'autore e alla sua cultura nei quali il tempo è passato
ma è stato vissuto in ogni suo frammento. Anche qui c'è una perdita,
perdita di luoghi significativi, una specie di nostalgia inversa, un nostos anch'esso
rovesciato. Ma poi tutto si fa poesia, scrittura, anzi corpo-scrittura.
Come raccomanda Luigi in uno dei suoi testi, "cerca il mio corpo sulla
carta / come se il tempo veramente / si fermasse sull’arco delle
righe".
Alcune ultime considerazioni. Se prima ho parlato di elaborazione non è
un caso. La "lentezza" dimostra, credo, la necessità estrema di
Cannillo di disciplinare la propria materia poetica, di pensarla e
ripensarla, di passarla attraverso il crivello della selezione
linguistica, che è accurata, senza ridondanze, e che comunque tenta di
raggiungere quella "verità che giace al fondo" di sabiana memoria. La
lingua per l'autore non è un totem né un obbiettivo, è un medium in
senso pieno, un veicolo da tenere nella massima attenzione e sotto
controllo. Io credo, sia detto per inciso, che in fondo Cannillo esprima
una sua personale lirica degli oggetti, con molti significativi agganci
- se ancora può avere un senso fare riferimenti del genere - ad alcune
modalità e sfumature che furono della storica seconda linea lombarda.
E tuttavia questo lavoro di lima, questo ripensamento, questo
controllo, non raffreddano il testo, non lo intellettualizzano, non
depotenziano la carica sentimentale e affettiva. Non sono solo l'ottimo
mestiere e la cultura di Luigi a conseguire questo equilibrio, è senza
ombra di dubbio "quell'alleanza tra etica ed estetica" che Roland
Barthes - nell'esergo della prima sezione - attribuisce alla propria
madre e che Cannillo fa sua. Ed è inoltre la capacità dell'autore di
porsi alla giusta distanza, che non è solo quella che separa i vivi dai
morti (cosa che sottolinea anche Sebastiano Aglieco nella prefazione)
ma anche quella dalle sue fonti di ispirazione, una qualità essenziale
del buon poetare. (g.c.)
Continua a leggere "Luigi Cannillo - Galleria del vento" Giovedì, 21 maggio 2015Giuseppe Vetromile - Congiunzioni e rimarginature, nota di Rita Pacilio
Congiunzioni e rimarginature , di Giuseppe Vetromile, Scuderi Editrice, 2015 è una partitura in versi, in tre parti, tre chorus il cui nesso è il legame familiare. Vetromile interloquisce con il sentimento più semplice e misterioso/profondo del mondo: l’amore paterno/materno/filiale intraprendendo una meditazione interiore che diventa, in primis, un cammino nella vita attraverso ricordi multiformi intrecciati a riflessioni ora sagge, ora squisitamente illuminati/illuminanti; poi uno sguardo al futuro, ai posteri, immaginari interlocutori/fruitori di questo diario/testimonianza, in cui l’autore è l’anello di congiunzione tra la memoria e il venturo. Numerosi elementi intimo/culturali si mettono al servizio dei versi così come la sensibilità, il senso di responsabilità, le ferite, i sacrifici, la fragilità della natura umana: il semicerchio in cui Giuseppe Vetromile, nel mezzo, allarga le braccia per accogliere e attualizzare il faticoso percorso dell’uomo del nostro tempo. È la voce dell’essere umano che cammina, un padre, una madre, un figlio lungo varianti/variabili e vicende della storia assiduamente, continuamente, insieme, uniti, nonostante tutto, come compagni di strada. L’autore attinge dai riferimenti intimi – ricordi, oggetti, suoni, odori - per arricchire il proprio bagaglio visionario di segni, di lampi. Le risorse e gli arnesi del mestiere misurano suggestioni, stupori e spiragli ricamando il mosaico cronologico, temporale e di senso, del periodo in cui la presenza paterna completava il cerchio familiare. La tensione originalissima e dinamica prosegue nelle poesie dedicate alla figura materna: la madre, donna sicura e dolce, paziente e mai remissiva, autonoma e coraggiosa che fa da specchio all’autore in uno schema psicologico che definirei auto-cosciente e parallelo. La fisicità del verso maturo si inserisce nel dominio della poesia che scaturisce un corpo vivo, fluido il cui contenuto è l’amore, il senso di appartenenza, la condivisione, la continuità, il valore del patrimonio personale, la morte. Il tema del silenzio, del taciuto e del condizionale, è stato già ampiamente trattato, nelle precedenti raccolte poetiche, da Vetromile: qui l’uomo/poeta si mette in viaggio per cercare una possibile variante alla polinterpretabile esistenza, ma lo fa senza il timore del vuoto, della disillusione, senza disincanto. L’autore suggerisce ai figli, ai nipoti la via della storia familiare: l’invito ai posteri è di saper destinare uno sguardo all’indietro, alla memoria, per non smarrire il significato sacro delle cose intrise di amore e sacrificio, ma, soprattutto, per ri-trovare nelle radici il senso della misura, della rassicurazione, del riferimento, della certezza. (Rita Pacilio) Continua a leggere "Giuseppe Vetromile - Congiunzioni e rimarginature, nota di Rita Pacilio" Venerdì, 15 maggio 2015Giovanni Campi - Babbeleoteca minutaGiovanni Campi - Babbeleoteca minuta, un libro che non c'è (ancora) ![]()
Chi è il Signore (con la esse maiuscola) costante protagonista di questa Babbeleoteca minuta di Giovanni Campi? Forse lo stesso che questa Babbele punitiva
ha scatenato e di cui Campi si è intestato il diritto di fare da
portavoce. Forse un Ente superiore che è lecito mettere in mora, che
dubita ed è dubitato, che magari poi si scopre non tanto superiore, che
nemmeno vale la pena di bestemmiare perché, alla fin fine, è come noi
una pedina di un gioco più complesso, una maschera di una rappresentazione.
Un Signore (a volte signore, con la esse minuscola, che forse è altro)
destinatario di domande a cui per lo più è incapace di rispondere. Anzi
a volte il Signore risponde con un'altra domanda, piuttosto
scortesemente.
Un Signore (o forse signore) che non sa, esattamente, dove sta e nemmeno se è.
Un Signore che parla spesso in francese, con qualche leziosità e
qualche compiacimento dall'aria salottiera, ma è una cosa che si può
capire perché forse è uno che ha letto Debord ("È vero, forse, che il
vero sia sempre vero? ed è falso, forse, che il falso sia sempre falso?
Non è forse vero che il vero, talvolta, sia anche falso? o è forse
falso? Non è forse vero che il falso, talvolta, sia anche vero? o è
forse falso?"). Oppure, perché no?, il Jabès de "Il libro delle
interrogazioni".
Un Signore che forse ha la esse maiuscola solo perché Campi è una persona educata, un tipo vecchio stampo.
Ma mi rendo conto mentre scrivo che se vado avanti così finisco col
fare il gioco di Giovanni. Soprattutto per la semplice ragione che mi
pare di aver descritto fino a qui caratteristiche che sono applicabili -
io credo - a qualunque essere umano. Quindi: il Signore (e i suoi
deuteragonisti) siamo noi? E' probabile. Ma nello stesso tempo è
personaggio sufficientemente "alto" da poterlo rovesciare con un
discreto fracasso. A cominciare dalla sua entrata in scena, nel primo
testo, che mette in scena la sua stessa fucilazione.
Il Campi evangelista, dunque, si esprime per parabole. E il suo gioco,
mosso principalmente con l'ironia di chi crede di aver scoperto le
ironiche vacationes della lingua, sia le sue sospensioni che le
sue buche, tende ad uno spiazzamento di chi legge, alla messa in
discussione di meccanismi, soprattutto sintattici, altrimenti razionali
("normali" e normati) erodendo le fondamenta di un senso comune che si
rivela illusorio. Il quesito, l'interrogazione (magari un po' zen: "se
senza suono ― quale il suono del senzasuono?"), anche quando posti non
espressamente come tali, riguardano soprattutto la parvenza del
mondo reale, così come descritto dal linguaggio. Siamo sicuri, sembra
dire Campi, che le cose siano così come appaiono? Io stesso, dice lui,
vi costringo ad inseguire un senso che però non sono sicuro di
possedere, o che è affidato in gran parte alla deviazione,
anche casuale, del medesimo dal percorso ordinario. Babele quindi non è
solo, canonicamente, incomunicabilità, o meglio lo è, ma non tanto nel
senso che non si può comunicare, piuttosto in quello che si può (si ha la facoltà di) fra-intendere.
Cosa che, da un punto di vista poetico, è densa di significati. E il
mondo immaginario, non dissimile da quello reale, mentre da una parte ci
dà una chance di capire qualcosa, dall'altra ci prende anch'esso
bellamente in giro. Un mondo peraltro molto astratto, poco oggettuale,
metafisico, surreale, con poche "cose" dentro, ossimorico,
contraddittorio, assertivo e negativo allo stesso tempo. E affascinante
perché condensa gli elementi e li sposta, proprio come secondo Freud fanno i sogni.
Siamo tra Calvino e Borges ("Il Signore, la sua dimora era una e piú
città: un labirinto, di pietra, di pietra su pietra in pareti, e voci
da;..."), e quindi è come se si fosse da nessuna parte, dato che il
territorio intermedio, una sorta di deserto dei Tartari, è sconfinato.
Potremmo anche cercare altri confini, come un Michaux del sud o un
Beckett del nord ma la questione non cambierebbe di molto. In realtà
questo territorio è davvero sconfinato, stante la tendenziale
illimitatezza della immaginazione (di Campi in questo caso) applicata al
linguaggio, cioè a qualcosa che è insieme rigido e parecchio
manipolabile. Un libro (che ancora libro non è) che è un'opera aperta,
ma non nel senso che intendeva parecchi anni fa U. Eco, ed è un'opera
"scrivibile", ma non nel senso barthesiano. E' semmai un libro che "si
scrive" e che è tuttora aperto a sviluppi che forse nemmeno Campi è in
grado di prevedere. Mi dice infatti Giovanni: "queste sono le prosette
che mi si stanno scrivendo, le prime sedici vennero premiate al
mazzacurati-russo ma per dissidj con l'editrice non si è mai fatto il
volumetto che pur mi spettava, le altre si sono succedute nel tempo,
sono a 45 delle cento che mi ripromisi di scrivere nell'ormai lontano
2008...". Un libro che avrebbe potuto avere la sua conclusione, ma che
invece si ritrova ad essere un lavoro in corso, che procede secondo uno
schema collaudato entro il quale Campi si sente a suo agio. Già ne L'irragionevole prova del nove
(o forse prima, non lo so) il meccanismo si era messo in moto dando
chiaramente l'impressione di non volersi fermare tanto presto. E' in
effetti un modulo poetico-narrativo efficiente, potenzialmente
riproducibile ad libitum, e quindi di una serialità molto
moderna, che corrisponde ad una sensibilità "tecnica" attuale, ma nel
quale Campi ha il pregio di innestare una speculazione invece antica,
un gioco e una dialettica che possiamo tranquillamente definire
filosofici. Se c'è un problema in questo tipo di scrittura (prosa in
prosa? postpoesia? vai a sapere...) è semmai quello di scivolare in una
sorta di automanierismo, in un loop stilistico/concettuale che mi è
capitato di segnalare altre volte. Ma come tutti i rischi se lo conosci
lo eviti. E Campi ha tutti i mezzi e le competenze per farlo. (g.c.)
Continua a leggere "Giovanni Campi - Babbeleoteca minuta" Sabato, 9 maggio 2015![]() Le quattro poesie qui pubblicate sono per così dire tutte "italiane", poichè rimandano a personaggi e luoghi del nostro paese (l'editore Giangiacomo Feltrinelli, Claretta Petacci, il Lago di Como, che a Claretta e Mussolini si ricollega attraverso un suono) che Gräf rilegge e ricompone, con occhio acuto e uno stile del tutto personale, in una realtà sotto molti aspetti diversa, collaterale (cioè come vista da una prospettiva inusuale secondo il senso comune) ma non meno "reale", anzi, come nella poesia su Claretta, drammaticamente iperrealista. Una realtà, quel che più importa, magari intrisecamente violenta ma che contiene una poesia, una poesia che si può estrarre e far risaltare, anche in ciò che è apparentemente impoetico. Un atteggiamento artistico che non è banalmente ottimista (c'è del "buono" in tutto), ma che ha semmai l'ottimismo della ricerca, cioè la fondata convinzione che sia possibile instaurare un rapporto "poetico" con la realtà la più disparata, e con le forme che sia essa che la stessa forma-poesia possono assumere. Ovvero, secondo Gräf, una poesia che attrae per la sua capacità di mostrare "qualcosa che per me prima non esisteva". E' sotto molti aspetti il concetto di post-poesia su cui molti stanno riflettendo in questi anni. Come afferma anche De Francesco in uno scambio epistolare con Gräf, non solo una poesia di ricerca ma anche una "poesia alla ricerca": "Ci sono, tra gli altri, due generi di poeti: coloro i quali scrivono dentro e a partire da un'idea di poesia stabilita prima di loro, e quelli che cercano di trarre dalla poesia esiti che normalmente la gente pensa che non riguardino (o anche non dovrebbero riguardare) la poesia stessa. Questa seconda 'categoria' è per me molto importante, e io penso che entrambi apparteniamo ad essa". (g.c.) Continua a leggere "" Sabato, 2 maggio 2015Gian Piero Stefanoni - Da questo mare Gian Piero Stefanoni - Da questo mare - Edizioni Gazebo, 2014
![]()
Un libro intensamente religioso, questo di Gian Piero Stefanoni,
ma di una religiosità "diffusa", non dottrinale né privata - rinchiusa
cioè nei riti e nei meccanismi della fede - ma nella quale la maggior
presenza, non ostante i molteplici riferimenti a Lui, è quella di
un'etica civile (ma ve ne sono altre?) e di una pietas che non
si nasconde timidamente dietro una semplice tolleranza o una visione
disincantata, magari attraverso un asettico schermo televisivo.
Perfino quando, per un laico, può sembrare eccessivo il ricorso a una
forma-preghiera, ad una invocazione ad un Dio superiore, poi ci si
accorge che è la quotidianità stessa, come nota anche Franca Alaimo
nella postfazione, a costituire il luogo e il tempo di una meditazione
incessante su ciò che preferisco chiamare il Senso della vita (e delle
vite) che sarebbe altrimenti povera di significato. Il luogo dei luoghi,
inoltre: quella seconda sezione intitolata "8, o della città (pregando
con l'angelo)", che è come una serie di "stazioni" sulla via della croce
del vivere (come giustamente nota anche Alaimo), marcate su punti lungo
la linea tranviaria 8 di Roma. Punti che non sono soltanto "occasioni"
di una riflessione sociale, ma anche simboli e insieme richiami
culturali, indicazioni o meglio memento di eventi significativi o
tragici, come la Piazza delle cinque scòle, che rimanda al Ghetto, e
implicitamente alla Shoah, o la dedica a Marco Guzzi, figura rilevante
del pensiero cattolico, ma anche poeta a cui Stefanoni deve forse
qualche ispirazione.
La prima sezione invece, che preferisco meno per diverse ragioni, intitolata "L'amore che ti manca (Davanti alle Crocifissioni
di Manzù)" prende lo spunto dalle opere dedicate a questo tema dallo
scultore bergamasco. E' la sezione in cui, dal mio punto di vista, il
registro di "preghiera" un po' sovrasta la resa poetica, ma non la
oscura. Paradossalmente, proprio il suo essere preghiera, cioè qualcosa
che è e deve essere privato ma insieme "universale", cioè appartenente a
una ecclesia, la rende più fortemente soggettiva, un canto per qualche
verso catechistico. E' espressione dell'invocazione dell'autore a Dio,
della sua adesione a un credo. E tuttavia è anche, ed in maniera
importante, l'assunzione su di sé, nella doppia veste di credente e di
poeta, di una parte non indifferente del dolore collettivo. Nonché della
responsabilità della denuncia, a cui un artista non si deve sottrarre.
Come noto, nelle sue sculture Manzù ha spesso innestato un discorso
critico, o più eminentemente politico. Si pensi ad esempio alla Crocifissione con soldato,
del 1942, appartenente alla serie "Cristo nella nostra umanità" (otto
pannelli in bronzo a cui evidentemente si riferisce Stefanoni), nella
quale risalta la denuncia della guerra e dell'occupazione nazista. Qui
il poeta approfitta per operare una attualizzazione, seppure logicamente diversa e minore, di quella presenza nell'umano. E nello stesso tempo ribadire, a me pare, l'assoluto bisogno di riconoscere in noi e in chi ci è prossimo questa humanitas, contro ogni suo svilimento.
E allora nella terza sezione, un unico lungo poemetto di cui qui ripropongo solo l'inizio, la pietas e
la presenza si concentrano in una situazione topica e quanto mai
attuale, anche alla luce dei drammatici fatti di questi giorni. "Da
questo mare", che dà il titolo all'intera raccolta di Stefanoni, parte
da una notizia di cronaca del 2012, l'annegamento nel mare di Licata di
un migrante, un ragazzo di 16 o 17 anni, gettato in mare dagli scafisti.
Un fatto che potrebbe apparire quasi minimale rispetto alle tragedie di
questi ultimi tempi, ma il valore della vita di uno non è inferiore, né
per Stefanoni né per noi, a quella di un altro o di molti. Così questo
ragazzo diviene emblema non solamente di una situazione attuale,
sociopolitica, ma soprattutto di una condizione umana, di una
ingiustizia a cui l'uomo è esposto, di un coagularsi addosso anche ad
uno solo del male del mondo. Un emblema, in altre parole, cristologico,
cioè dell'incessante martirio in capo ad uno, che è molti. Che è, anzi, per tutti.
Un poemetto tragico-epico, che evidenzia non solo una scrittura di
grande qualità, solida, ma anche un sostrato culturale (umanistico,
direi) di tutto rispetto, ricco com'è di citazioni, rimandi, echi. Tutto
il libro lo è, tutto il libro echeggia in modo significativo, a
cominciare dagli exerga che vanno dal Cattafi di Innanzi a te, al Kerouac di Sulla strada, fino al Rilke dei Quaderni di Malte Laurids Brigge
("Bene, è dunque qui che la gente viene per vivere, ma io penso che si
muore, qui, invece"). Tutto il libro è, sotto diversi aspetti,
"modernista": la posizione esterna, per quanto fortemente coinvolta e
spesso lirica, dell'autore; l'inserzione di frammenti "culti" nel corpo
testuale; la considerazione di assunti di tipo religioso anche come
possibile ordito di un discorso poetico; utilizzo di un linguaggio
pregnante e preciso, a volte sentenzioso a volte enfatizzato, anche
graficamente, e così via.
Certo Franca Alaimo ha ragione quando afferma: " La devozione della
parola ai temi sacri, che si esplica nella lode e nella celebrazione
della bontà divina (...) se da una parte riporta la poesia ad un suo
compito strettamente etico e quasi "sacerdotale", dall'altra sottolinea
il divario tra la sua "impotenza" (nonostante il "dovere" di dire,
nonostante i suoi tentativi di fondare una religione delle cose umane e
delle relazioni tra gli uomini), e la forza fondante e fecondante della
Parola divina", cosa che va di pari passo, aggiunge più avanti, con "il
tema dell'allontanamento dell'umanità dalla fede", tema forse principale
della poesia di Stefanoni. Ha ragione, o meglio avrebbe ragione se non
scambiasse un atto di fede (di cui non discuto) con una azione poetica.
Non che uno escluda l'altra, ma questo - in questa temperie - ci è dato,
a meno che non vogliamo dire, tanto per fare un esempio azzardato, che
l'arte è morta (e con essa la speranza di dare un significato alla
realtà) con la morte dell'arte sacra. Per quanto mi riguarda preferisco,
anche da un punto di vista critico, pensare (o sperare) nella forza
fondante e fecondante della parola umana, proprio perchè credo che il problema, per moltissimi uomini e donne, stia nell'allontanamento dell'umanità dall' uomo, o dell'uomo dalla sua umanità. Anche artisticamente.
Con questo tuttavia non voglio certamente mettere in dubbio la forza sincera dell'ispirazione di questo bel libro, denso e pensoso. In cui mi sembra di intravedere anche come una volontà, anzi un acuto desiderio
di una rivelazione, di una epifania che si manifesti nelle cose del
mondo, nel suo male conclamato, e dia loro almeno un po' di significato,
una speranza. Un desiderio che, laicamente, penso che appartenga a
tutti. (g.c.)
Continua a leggere "Gian Piero Stefanoni - Da questo mare"
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