Martedì, 30 dicembre 2014
Marina Pizzi - Segnacoli di mendicità - CFR Edizioni, 2014
Leggo con molta simpatia la prefazione che a questo libro ha fatto Gianmario Lucini, recentemente scomparso. Ho sottolineato alcuni
passaggi, dei quali due o tre combaciano con cose che ho scritto in passato riguardo al lavoro di Marina, altri mi trovano in disaccordo. Ma a parte questo
la prima cosa che mi sento di rimarcare è la aperta disposizione a capire e a condividere, a interpretare e ad accogliere che Lucini aveva nei confronti di
tutta la poesia, anche quella che con ogni evidenza è lontanissima dalle sue corde, di chi - annota - "è abituato a leggere (e a scrivere, come il
sottoscritto) la poesia in modo diverso, più vicino alla tradizione". Una cosa che va tutta a suo onore.
L'approccio di Lucini potrebbe apparire disarmato, di fronte alle asperità che presenta il lavoro (questo e tutti i precedenti) di Marina. Tanto che in più
punti sembra invitare il lettore a non voler "capire", a non tentare di afferrare il "senso" delle parole dell'autrice. Tuttavia relativizza, giustamente,
il problema del "senso" ed è lettore troppo acuto per arrendersi, individuando alcuni punti essenziali. Vediamoli.
Mi pare indubbio, come Lucini nota per prima cosa, che Pizzi segua una sua maniera di versificare tutto sommato tradizionale, quasi un verso libero in cui
non è infrequente trovare dei perfetti endecasillabi o assonanze o perlomeno una quantità enorme di parole parossitone che degli endecasillabi sono il
fulcro, la cui finalità però non è tanto quella di stabilire un ritmo o una piacevolezza quanto quella di creare un "ordito di suoni, un contrappunto sul
quale innestare il materiale linguistico", secondo le parole di Lucini, che aggiunge che se così non fosse quello del poeta "potrebbe essere scambiato per
un linguaggio schizofrenico" (e c'è molto di assolutorio, della buona disposizione di Lucini, in questa affermazione). L'obbiettivo quindi sarebbe quello
di creare un "ambiente sonoro", una specie di camera acustica in cui il lettore riceve le suggestioni dell'autore, appunto soprattutto sonore, come
principale "significato" dei suoi versi. Tuttavia questo ci porta ad una certa passività di chi legge o almeno a quanto Lucini sottolinea più
avanti.
Del secondo punto che annota Lucini, cioè che la lingua di Pizzi appaia progettata, non sono del tutto convinto, non credo insomma che, per quanto
Marina operi una sua evidente selezione delle parole come tutti, ci sia in lei una strategia, un artificio, a parte la scelta frequente, come
accennavo prima, di parole piane. Per la verità quando parla di progettazione Lucini si riferisce appunto alla ricerca di musicalità, ma anche delle
potenzialità associative, di calembour, di gioco di certi accostamenti anche quando "cozzano" producendo, aggiungo, come un attrito sconcertante. Il fatto
è, a mio avviso, che, come ho detto altrove, l'approccio di Pizzi alla lingua, la "sua" lingua, non è solo ludico-strumentale (e di ludico c'è poco
davvero), ma è fortemente emotivo, al di là delle apparenze, tanto che - scrivevo - è in questa funzione emotiva che Marina "rinviene (e, certo, anche
seleziona, lima, ecc.) le sue parole, i suoi personali nessi metaforici, scardina il rapporto naturale tra parole e cose, mette in crisi la
relazione dei segni, recupera quella dei suoni" (un testo esemplare può essere ad es. il 64, vedi più oltre). E certamente - altra cosa che annota Lucini -
è importante qui il ruolo dell'inconscio "generatore di simboli" che l'autrice sfrutta per ridurre il ruolo della coscienza quale "censore" che tende a far
passare solo il prodotto della "riflessione". Ruolo che non deve essere sottovalutato, certo come fonte, ma che entra in qualche contraddizione con quel
tanto di progettazione di cui si diceva prima. Potremmo dire allora, in sintesi, che in Pizzi il controllo non è assoluto, né può esserlo, e che i
testi migliori vengono illuminati, anche di senso, dall'equlibrio di questi due elementi principali. E credo che proprio il raggiungimento di questo
equilibrio sia la vera faticosa ricerca di senso di Pizzi ("leggiucchio le voragini del senso / l'arbitrio di commettere adulterio / con le frattaglie del
non senso", brano 33), del suo tentativo di leggere la sua realtà.
Da queste caratteristiche, dall'accostamento insolito di significato, dall'ambiente sonoro generato da questa poesia, secondo Lucini deriva una ristrutturazione del ruolo del lettore "il quale non è più colui che deve capire il messaggio, ma colui che deve creare un senso
lasciandosi trasportare dalle suggestioni", ruolo in cui diventa fondamentale l' "ambiente sonoro" e la "musica" che lo stesso Lucini aveva già
sottolineato. In altre parole il lettore deve "lasciarsi sedurre dal senso che quelle espressioni provocano in lui", non ha altra possibilità, è anzi
"inutile soffermarsi (a nostro avviso) cercando il pensiero dell'autrice che, ne siamo convinti, fa di tutto per non seminare significati certi e
definitivi nei suoi lavori". Con questo giudizio abbastanza netto ecco che si torna al concetto di passività del lettore accennato qualche
paragrafo fa, Giudizio che non è contestabile in sé, ma che implica almeno un paio di osservazioni. La prima è che la lettura appare insieme passiva (la
seduzione) e soggettiva (il senso provocato in lui, magari diverso da quello provocato in altri), cosa che peraltro corrisponde molto a
una delle possibili funzioni evocative della poesia. L'altra e conseguente è che il lavoro del poeta, dell'autore, diventa improvvisamente aleatorio, cosa che non nego abbia il suo fascino ma che espone l'autore ad un arbitrio al di là delle sue intenzioni creative, di quel che voleva
dire. In altre parole, per dirla con U. Eco, se il lettore ha l'iniziativa interpretativa il testo vuole essere interpretato con un margine sufficiente di
univocità, ovvero appunto non arbitrariamente. Per parte mia in passato avevo scritto che "la poesia di Marina Pizzi non fa nessuna concessione al lettore,
la sua scrittura e' ego-centrata e in quanto tale e' pura rappresentazione del mondo (o della sua non riproducibilita') cosi' come lo vede l'autrice" e che "da questo punto di vista la poesia di Pizzi pretende uno sforzo supplementare da parte del lettore,
una specie di immersione nei propri riferimenti culturali, nel proprio bagaglio semantico, perfino nella propria psiche. E' una specie di viaggio
esoterico, di riconquista di codici". Personalmente sono ancora convinto di questo, del fatto che la seduzione, che comunque c'è, non basti, che lo sforzo
riguardi soprattutto il riconoscimento del profondo sistema metaforico della poesia di Marina, riconoscimento in cui certo l'esperienza personale del
lettore, la sua "soggettiva" ha un'importanza fondamentale (ma invito a leggere quelle mie note). E' comprensibile in
ultima analisi, e in parte fondato, che Lucini da una parte, come si è visto, inviti a non ricercare a tutti i costi il "pensiero" dell'autrice e
dall'altra, più avanti, affermi che forse quel "pensiero" non esiste: "non esiste, quindi, un definibile e/o oggettivabile pensiero poetico
dell'autrice, anche se, a lettura ultimata, risulta chiaro anche se non esplicitabile, che l'autrice segue un suo pensiero, una sua teoresi". Un pensiero
che, seppur marcando uno iato tra pensiero stesso ed espressione, "si può intuire da molte spie, una delle quali potrebbe essere ad esempio la frequenza di
determinate parole nei testi". E' questa la giusta e centrata intuizione di Lucini, su cui sono davvero d'accordo, e cioè che, facendo un passo ulteriore,
si possa ricostruire ciò che altrove ho chiamato il sistema mefatorico di Pizzi, ovvero il vero senso della sua scrittura. E' questo il
lavoro da fare.
Qualche altra osservazione, per chiudere. Avevo già segnalato in una delle note precedenti su Marina una sua certa "maniera", qualcosa di più di uno stile
consolidato. E cioè la scoperta, anzi la costruzione, di un meccanismo poetico funzionante e collaudato. Anche Lucini nota qualcosa in questo senso quando
parla di via percorribile, parla del libro come di "una proposta che regge, è di buona qualità ed è aperta (corsivo mio), alla portata di tutti,
passibile di ibridazioni e di innesti, soprattutto con la musica". Le parole di Lucini prefigurano una specie di format accessibile da un lettore
che decida di farsi poeta. E in effetti si potrebbe avere l'idea, brutale e del tutto ingiustificata, della sostituibilità all'interno dei testi di Pizzi
di elementi lessicali o parti strutturali che li compongono. Un modello formale che però, come tutte le forme, è una scatola vuota che andrebbe riempita
con il talento dell'autore. E tuttavia la modalità è potenzialmente inesauribile. In questo senso si pone in contraddizione col concetto stesso di
"ricerca", almeno di ricerca di forma. E in questo senso va anche interpretata sia la prolificità di Marina sia la sua pressoché costante caratteristica di
numerare i testi in lunghe filze (99 in questo caso, oltre 100 in diverse altre occasioni). Tanto che a volte ci si domanda se Marina non sia (e non
sarebbe la sola) l'autrice di un solo Libro suddiviso in tomi arbitrariamente e che i testi stessi, che appaiono finiti, siano davvero "finiti".
Eppure, al di là dell'eventuale automanierismo, mi pare che in molti testi, tra cui quelli della mia selezione, il registro di Pizzi, la sua capacità
evocativa ed espressiva si sia ulteriormente affinata, forse anche grazie ad un lieve ma percettibile riavvicinamento ad una significatività. Ad
esempio dove il dato è più "concreto" la poesia è più "leggibile", intendendo entrambi gli aggettivi in senso lato (si veda a titolo esemplificativo il
brano 28). Analogamente, per fare un diverso esempio, l'uso del "tu" assume un'importanza sostanziale, da personaggio. Il tu, se dovessimo disegnarlo o
esprimerlo con il linguaggio dei segni, sarebbe un dito puntato. Contro chi? Quello di Marina è un tu bifronte, come un giano, un tu in cui è possibile
riconoscere abbastanza agevolmente quello che mimetizza l'io dell'autrice e quello "titolato", dell' "altro", di chi sta (o stava) di fronte. Entrambi
colpevoli, in qualche misura, e perciò oggetto dell'invettiva linguistica, del frangersi di ondate verbali, per quanto misurate (a volte in perfetti
endecasillabi) e musicali, come aveva visto Lucini.
Non resta da dire in definitiva che quella di Marina è, in effetti, una scrittura difficile, intorno alla quale è altresì difficile esaurire gli
argomenti. Poichè mi sono occupato della sua scrittura in almeno sei diverse occasioni (il primo post risale al 2006, trovate tutto su Marina Pizzi in
IE QUI) rimando volentieri
chiunque sia interessato a quelle note, con l'avvertenza che alcune delle cose che ho scritto potrebbero essere rivedibili. Buona lettura.(g.c.)
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Mercoledì, 24 dicembre 2014
Lo so, non si sa mai cosa regalare per Natale. Bisogna farsi venire un'idea, anzi il "pensierino", e poi c'è la questione originalità, il problema dei doppioni, e c'è chi ha già tutto e cosa gli vuoi regalare a quello, e poi il rischio "riciclaggio" cioè i regalini ricevuti l'anno scorso e finiti nella terza dimensione che hanno una certa tendenza a "rispuntare" creando seri imbarazzi, e non ultima la faccenda budget e come se non bastasse il tempo è agli sgoccioli. Delirio e angoscia.Poi il lampo di genio. I tempi sono quelli che sono, la crisi, le tensioni, ma soprattutto una marea montante di stronzi e di cretini che cercano, dal governo a tirar giù fino a certi amici, di rovinarti la vita. E allora perchè non una bella mitragliatrice a schiaffi? Ma perchè no? Va bene anche per certe riunioni di famiglia.
La mitragliatrice a schiaffi
È nella vita di famiglia, com'era da aspettarsi, che ho realizzato la mitragliatrice a schiaffi. La realizzai senz'averla meditata. L'ira a un tratto si proiettò fuori della mia mano come se ne fosse uscito un guanto di vento, come due, tre, quattro, dieci guanti, guanti d'effluvi che, spasmodicamente e terribilmente rapidi, si precipitarono fuori dalla punta delle mie dita, filando verso il bersaglio, verso la faccia odiosa che raggiunsero senza tardare. Stupefacente, quel ripetuto degurgitare della mano. Non era più veramente uno schiaffo, e nemmeno due. Io sono d'indole riservata e non mi lascio andare che per il precipizio della rabbia. Vera e propria eiaculazione di schiaffi, eiaculazione a cascata e a sussulti, mentre la mano rimaneva rigorosamente immobile. Quel giorno, toccai la magia. Uno sensibile avrebbe potuto vedere qualcosa. Una specie d'ombra elettrica che sprizzava spasmodicamente dall'estremità della mia mano e che, raccolta, si riformava in un attimo. Per essere del tutto franco, la cugina che m'aveva schernito aveva aperto la porta ed era già uscita, allorquando, rendendomi bruscamente conto dell'onta dell'offesa, io risposi a scoppio ritardato con una scarica di schiaffi che, veramente, mi scapparono dalla mano. Avevo trovato la mitragliatrice a schiaffi, se così posso dire, ma come dirlo in modo migliore. In seguito, non potevo mai vedere quella presuntuosa senza che gli schiaffi mi filassero via come tante vespe dalla mano verso di lei. Per tale scoperta valeva pur la pena d'aver subìto i suoi odiosi discorsi. È per questo che io consiglio talvolta la tolleranza nell'ambito della famiglia.
Henri Michaux - da La vita nelle pieghe (1949) in Lo spazio interiore, Einaudi 1968
Mercoledì, 17 dicembre 2014
Eliot fa parte, insieme ad altri, delle mie letture "curative", quando il troppo è troppo e c'è la necessità di ripristinare un certo livello qualitativo, di rifarsi la bocca, di restaurare certe pietre di paragone. Insomma di fare "rehab". The hollow men, un testo del 1925, mantiene a distanza di 90 anni una drammatica attualità, anche al di là della componente mistica che certo lo innerva (l'autore si stava avviando verso la sua conversione al cattolicesimo che troverà espressione ad esempio in Mercoledì delle ceneri del 1930). Il poemetto è introdotto da due epigrafi. La prima (Mistah Kurtz—he dead, Mister Kurtz - è morto) è tratta da "Cuore di tenebra" di Joseph Conrad ed è la notizia che Marlow, il protagonista, apprende da un servitore durante il ritorno dal viaggio di ricerca del misterioso Kurtz. Incidentalmente, una delle scene magistrali di "Apocalypse now" di Francis Ford Coppola (1979), che come noto trasse molta ispirazione da Conrad, è quella in cui Marlon Brando, nelle vesti del tragico colonnello Kurtz, recita proprio The hollow men, in un geniale intreccio culturale (v. QUI, in inglese) che, vale la pena di ricordare, rimanda al "riutilizzo" del serbatoio della tradizione così come lo intendeva Eliot nel suo saggio "Tradizione e talento individuale" del 1919 (v. meglio QUI). L'altra citazione (A penny for the Old Guy, un penny per il vecchio Guy) punta direttamente al secondo verso poiché fa riferimento ai fantocci impagliati che il 5 novembre tradizionalmente i bambini inglesi portano in giro chiedendo un penny, fantocci che poi saranno bruciati in ricordo della esecuzione di Guy Fawkes, che nel 1605 tentò di assassinare il re Giacomo I e i membri del Parlamento con una esplosione. Da notare, anche qui incidentalmente, che la maschera rappresentativa del personaggio Fawkes ha fatto anch'essa il suo percorso culturale fino a diventare il simbolo di movimenti di protesta contro l'ordine costituito come Anonymous o Occupy. Ma l'uomo di paglia, per Eliot, vale un penny. Gli uomini vuoti, gli uomini "impagliati" del 1925 che nel poemetto si presentano in prima persona ("noi") non si differenziano certo da quelli del terzo millennio che stiamo vivendo, non sono diversi da noi. Il vuoto, che non è solo quello esistenziale, che subiamo, ma anche quello che creiamo, spesso deliberatamente, o quando "l'ombra cade" tra il pensiero e l'azione, tra il potere e il fare, senza che noi interveniamo, è fatto di usura delle parole "secche", della loro inconsistenza, della sterilità di chi popola desolatamente ("figura senza forma, ombra senza colore, / forza paralizzata, gesto privo di moto") una "terra desolata", una "valle di stelle morenti". Gli uomini vuoti brancolano, ammassati sulla riva di un fiume che assomiglia molto a un dantesco Stige pieno di accidiosi, girano irresoluti intorno a sterili simulacri. Attraverso una serie cospicua di simboli, metafore e quei correlativi oggettivi la cui "invenzione" è tradizionalmente attribuita a Eliot e che tanta importanza hanno avuto nella poesia moderna, il poemetto si avvia al finale, estremamente moderno. La preghiera della quinta parte sembra essere un balbettio smozzicato ("Perché Tuo è / La vita è / Perché Tuo è il") che non riesce ad afferrare e coagulare quanto una voce fuori campo sembra suggerire. Non sembra che ci sia molta speranza. La chiusa è percussiva e folgorante insieme, con una estrema accusa di ignavia accidiosa che Roberto Sanesi, per quanto "whimper" possa essere tradotto restrittivamente anche come "gemito, lamento", rende lapidariamente con la parola "piagnisteo". (g.c.)
Continua a leggere "Thomas Stearns Eliot - The hollow men"
Mercoledì, 10 dicembre 2014
Francesca Del Moro - Le conseguenze della musica - Cicorivolta Edizioni, 2014
Avevo già avuto modo di parlare di Francesca Del Moro a proposito del suo precedente libro "Gabbiani ipotetici" (v. QUI).
Un libro che avevo definito discontinuo, con i suoi alti e bassi, ma
complessivamente positivo, specie se lo si guardava nella prospettiva di
uno sviluppo ulteriore. Anche lì c'era, tra gli altri, il tema
dell'amore e dell'abbandono che poi è venuto a coagularsi in questo
secondo libro.
Ma è difficile parlare d'amore. Perchè è un tema vecchio come il
mondo, che però vorremmo almeno che ci venisse raccontato con parole
"nuove". E questa è già una bella contraddizione in termini. Inoltre
poche cose sono egocentriche come l'amore e la difficoltà di parlarne
sta in parte in questo, nel cercare di superare questo egocentrismo,
anzi questo egotismo, di superare, anche nel linguaggio, quello
che, su entrambi i versanti di chi scrive e di chi legge, crediamo di
sapere, crediamo di poter dire. Giacché - e questo è un altro
problema - l'amore è anche uno dei temi più soggetti all'omissione,
all'autocensura, alla tentazione di assoluzioni, alla oscillazione tra
cordoglio e euforia, a una sua connaturata discontinuità.
Esposto insomma alla costruzione di una personale "verità". Cose su cui
generalmente non ho niente da eccepire, se non fosse che spesso sono
causa di altri problemi, come ad esempio lo scivolare in ciò che Francis
Bacon, l'artista, in alcune delle sue sporadiche dichiarazioni chiama
l' illustrazione o la decorazione, due cose che all'arte sono abbastanza antitetiche.
In "Gabbiani" tutto il tema sentimentale, della mancanza, dell'assenza
non risarcibile era esposto in una maniera che avevo trovato
interessante, con una veemenza tra la rabbia e l'ardore, e con un senso
della sconfitta onorevolmente combattivo. C'erano tanto per capirci
alcuni testi di una straordinaria "cattiveria", come ad esempio Al mio ex marito e alla sua nuova moglie senza rancore oppure Preghiera o ancora Appena ho un momento libero (potete leggerli nel post
citato). In essi il linguaggio, volutamente discorsivo e "naturale",
era tutto finalizzato alla valorizzazione di valori primari, istintuali,
non mediati più di tanto, ed insieme era controllato ma giungeva non a
prendere atto cronisticamente dei fatti ma a fare di essi qualcosa di
non razionalizzabile, qualcosa di poeticamente irragionevole, come deve essere la poesia. Tornando a quanto dicevo prima, in quei testi Francesca non illustrava i fatti, non li decorava, anzi li spogliava a dramma umano, per quanto personale, restituendoli a una necessaria "crudeltà".
Dico questo perché "Le conseguenze" mi sembra complessivamente un passo
indietro riguardo a quella capacità di gettare nei testi anche una
certa violenza espressiva ed emozionale, di scrivere con lo sguardo
doloroso ma fiero rivolto in avanti, non ripiegato. Non discuto né della
"onestà di scrittura" né della "trasparenza dell'autrice", per citare
l'affettuosa postfazione di Martina Campi. Non discuto della personale
"verità", o della profondità del dolore o del sentimento, nè da quale
eco provenga e quanta eco possa fare in chi legge, tutte cose
massimamente rispettabili. Ma che viaggiano (o rischiano di viaggiare)
su un binario diverso da quello della loro resa espressiva. Mi limito a
constatare, a mio avviso, un complessivo raffreddamento della
espressione poetica, cosa che è diversa dal grado di "sensibilità"
(concetto quanto mai vago) da cui quella espressione ha preso le mosse.
Se non è lecito - per fare un piccolo esempio - dubitare della "verità"
(personale) implicata in versi come questi: "Chissà se lui sente / la
carezza dei miei occhi / sulla sua schiena / ogni volta che esce", è
però legittimo dire che una verità personale rimane, anche se si volesse
tentare di farne una "immagine gentile" - per usare parole di Francesca
- ad uso del lettore. Analogamente, in un testo come Segno il percorso fin qui
(v. sotto) - che peraltro mi ricorda certe cose di Sylvia Plath - si
capisce bene e si può certo condividere la carica emozionale e dolorosa
che lo alimenta ma mi pare inevitabile registrare, specie nella seconda
parte, almeno due note di fondo, un evanescente patetismo, un passivo
compianto, una vocazione ad addossarsi la "colpa", molto lontani dalle
poesie di "Gabbiani" che citavo e presenti qui invece in diversi altri
testi. Poi certo l'autrice è capace di ironia e autoironia come in Stupido, di raccontare un dolore anche più profondo come in Ho pianto tanto tanto e tanto o in Pensiero assurdo,
perché Francesca, se vuole, strumenti ne ha a sufficienza. Capisco
quando dice, anche qui flagellandosi, di essere "un cliché / come del
resto, hanno detto, / le cose che scrivo", ma mi sento di respingere con
forza questa affermazione. O quando dice sconsolatamente "mi fermo. /
Non vale la pena scrivere / di questo non vivere". La preferisco quando
afferma "Scrivere qui / è quel che mi resta / ma mi sento un po’
meglio". Certo, la poesia non può essere solo un'attività consolatoria,
qualcosa di catartico, come è convinzione di troppa poesia femminile, o
elaborazione del lutto. Ma scrivere vale sempre la pena, e continuare a
scrivere bisogna. (g.c.)
Continua a leggere "Francesca Del Moro - Le conseguenze della musica"
Venerdì, 5 dicembre 2014
Una recensione di Viviana Scarinci al mio poemetto "Camera di condizionamento operante" uscito nelle Edizioni dell'Arca Felice di Salerno, a cura di Mario Fresa, nell'ormai lontano 2009. Ringrazio sentitamente Viviana per due ragioni, la seconda delle quali è la più importante: per aver scritto con molta acutezza della mia poesia, cogliendone le ragioni non strettamente personali e semmai l'idea di fondo; e di aver ripreso, come mi ha detto, una vena e una voglia di scrivere criticamente di poesia, "sulla" poesia. Una cosa che sa fare bene (due begli esempi QUI e QUI) e che devo dire mi mancava un po'.
A volte la funzione di una domanda non è tanto quella di ottenere una risposta quanto di guadagnarsi un varco che schiuda sulla continuità di un discorso altrimenti discontinuo. Soprattutto se si tratta di poesia, la domanda assume di riflesso le stesse pause, ingiunzioni, esitazioni di un’inchiesta in cui non esistono risposte ma aperture su vere proprie camere di condizionamento.
Camera di condizionamento operante è un libriccino edito da Edizioni L’Arca Felice, l’autore è Giacomo Cerrai. Si tratta di un poema che fin dal titolo si rifà alla cosiddetta Skinner box che più o meno tutti abbiamo presente: quella gabbietta o scatola di vetro in cui viene posto a scopo sperimentale un topolino affamato. La gabbia è attrezzata per elargire cibo se il topolino apprende che c’è modo di averne in abbondanza. Ciò avviene secondo la forza che la cavia capisce di dover imprimere sul pulsante preposto all’elargizione. (continua a leggere QUI)
***
Il poemetto è scaricabile liberamente dall'Area download (v. barra laterale destra), in formato pdf o epub. Chi desiderasse una copia cartacea può provare a contattare l'editore, ma dubito che ne abbia ancora copie. Su "Camera" aveva scritto in precedenza Daniele Santoro (v. QUI)
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