Lunedì, 29 settembre 2014
Totilogia - Involatura sulla poesia di Gianni Toti - [Dia*foria / Edizioni Cinquemarzo 2014
Dopo molti libri di più o meno esordienti alla
ricerca spesso vana di una originalità difficile da afferrare, è bello sfogliare
questo di (e su) Gianni Toti, dovuto alla passione di un gruppetto che
anima la rivista/sito [Dia*foria, in collaborazione con la Casa Totiana
presieduta da Pia Abelli Toti. Libro in cui l'originalità di Toti
emerge come talento e insieme risultato di una ricerca per sua stessa
natura sempre insoddisfatta (la ricerca è di per sé "incompiuta") ma
costantemente perseguita. E risultato di un lavoro e di una maturazione
intellettuale (voglio dire, l'originalità non è una cosa a cui si può
"puntare", come pretenderebbe qualcuno).
Probabilmente non è facile farsi un'idea
esauriente - solo tramite questo libro - della personalità complessa di
Gianni Toti, del suo multiforme ingegno, della sua curiosità artistica
che spaziava attraverso le forme o le inventava, ricercando sempre.
Basta dare una scorsa alla sua biblio-film-videografia (v. QUI)
per rendersene conto. Ex partigiano ("coSmunista", come si definì in
seguito), amico di molti importanti intellettuali del tempo da Pasolini a
Cortàzar, giornalista per moltissimi anni, romanziere, saggista, poeta,
cineasta, autore teatrale e televisivo e, dagli anno '80, artista poetronico (altra
sua definizione), ovvero ideatore e creatore di videoarte a livello
internazionale, e comunque in ultima e definitiva sintesi, come ha
scritto qualcuno, semplicemente poeta, poeta che amava
sperimentare. Tuttavia questo libro è importante, non solo perchè è la
prima raccolta italiana di lavori totiani. Questo volume nasce
dall'esigenza di mettere insieme una buona antologia delle opere di Toti
(purtroppo, per ovvie ragioni, solo quelle su carta) e una serie di
interventi creativi e critici che illuminano Toti o che da Toti
tributariamente sono irraggiati. L'interesse sta anche qui, nell'idea di
fecondità artistica che si riverbera dalla prima alla seconda parte,
delle possibilità non remote che indica di lavorare su una diversa tradizione
(absit iniuria verbis) su cui costruire dinamicamente. E anche nel
fatto che non storicizza proprio un bel niente (come talvolta è difetto
delle antologie), ma anzi vuole essere una porta lasciata aperta. Come
ogni buon lavoro, non deve essere esaustivo. Deve semmai
accendere una curiosità da soddisfare magari investigando ulteriormente,
della dimensione - pure storica, pure politica, certo - della
produzione artistica di quei decenni che scorreva parallelamente, senza
mai incontrarlo, al cosiddetto mainstream, anche al di là della
singola figura di Toti. Che, dal mio punto di vista, è molto
interessante anche come raro punto di contatto e fusione di forme che
comunemente vivono nel disinteresse dell'una per l'altra, anche a
livello cognitivo o semplicemente culturale, in un sistema oppositivo
che vede solitamente distanti poesia e prosa, letteratura e arti
figurative, media fisici ed elettronici. Questa fusione permette, molto
più di quanto avvenga in altri autori, di scorgere una visione del mondo
e del tempo, un panorama di quegli anni attraversati da molti fermenti,
sia politici che culturali, spesso purtroppo decaduti.
Ma il lavoro fondamentale di Toti, al di là delle
forme, qualsiasi forma, è sul linguaggio, inteso nel senso più ampio del
termine, "in una militanza che pone l'accento sulle giunture del segno,
tanto che si potrebbe parlare di realismo intraverbale finalizzato a
disvelare la rete delle apparenze, le miriadi di circuitazioni da cui il
velo di Maya è pervaso", come afferma Stefano Guglielmin in una nota
contenuta nella seconda parte del libro. Anche utilizzando marchingegni in realtà antichissimi come ossimori, paradossi, metasememi, tutti in grado di cortocircuitare il senso canonico, quel che ci si aspetta. Analogamente nei video l'immagine è manomessa, graffiata, rovesciata, sovrapposta, sporcata, blurred, o semplicemente re-inventata. Spingendosi così nella sua opera
sempre più in là, surrealisticamente: se la realtà non è più dicibile,
anzi se si è "cancellato l'indicibile", se i vecchi arnesi non fungono
più, come dice (metaforicamente) nel testo "Necrologio per la metafora" (v. QUI),
allora "Toti ri-comincia ad inventare il linguaggio, ma questa volta
non sbaragliando e spezzettando i significati, quanto ricomponendo i
significati tramite la ri-metaforizzazione del dicibile, per via
dell'in-venzione che sola potrebbe ridarci un futuro, ossia la
temporalità della coscienza, la verbalizzazione che possa riconnetterci a
un altro o altri" (Peter Carravetta, in un'altra nota qui presente).
Una "titanica, e forse proteica, vocazione alla ricreazione" che
sembrava potenzialmente infinita. (...)
Continua a leggere "Totilogia, involatura sulla poesia di Gianni Toti"
Domenica, 21 settembre 2014
Parto dall'esperienza di giovedì scorso a Milano, in occasione della
presentazione del libro antologia "Totilogia - involatura sulla poesia
di Gianni Toti" (libro di cui spero di parlare a breve), durante la
quale ho letto due o tre testi di Toti, e li ho letti come mi andava di
leggerli. L'esperienza in sè, divertente e positiva, è qui solo
l'occasione per qualche breve riflessione, un po' a ruota libera, sul dire, leggere, recitare (che sarebbe già un bel titolo per un saggetto). E leggere altri da sé stessi, soprattutto, testi di autori che non siamo noi.
Diamo per scontato che solo l'autore sa come andrebbe letto un suo
testo, e forse nemmeno lui, dato che, come credo, il testo poetico può
sempre essere soggetto ad "illuminazioni" di senso (e anche di suono)
anche per l'autore stesso. In genere l'autore ha comunque un'idea
precisa sul da farsi. Credo ad esempio che Ungaretti avrebbe letto "I
miei fiumi" cento volte allo stesso modo che in questa registrazione,
piuttosto nota. Penso anche che sarebbe difficile, avendo sotto mano
questo documento, darne una versione molto diversa, a meno che non se ne
voglia fare una cover rap o una citazione intertestuale. E che dire di Ghérasim Luca e della sua ancora oggi sconvolgente Passionnément?
Ma mettiamo il caso di non avere l'autore sotto mano, perché assente,
distante, non documentato o semplicemente morto. Purtroppo (o per
fortuna, da un'altra prospettiva) il testo poetico non è una partitura
musicale, in cui gli accenti, le misure, le pause ecc. sono più o meno
chiaramente identificati. Se questa "mancanza" lascia spazio a un certo
margine di autonomia interpretativa, tuttavia sapere come
leggere un testo di un altro è, in via generale, una presunzione, e
questo vale ovviamente anche per me. Perciò affermazioni del tipo che la
poesia (quale? tutta?) andrebbe letta lentamente, staccando con ampi
vuoti come questi le parole in modo che
l'ascoltatore possa intendere e
gustare a pieno il senso delle parole, mi
lasciano qualche perplessità, se non altro perché la poesia non è fatta
solo di parole ma di molte altre cose. Come del resto mi lasciano un po'
dubbioso le "scuole" in cui viene insegnato a dire la poesia e gli slam
nei quali la spettacolarizzazione scenica della lettura fornisce
talvolta una fin troppo comoda mascheratura alle carenze qualitative del
testo (in questo caso il proprio, quindi lasciamo perdere). Forse -
ecco, appunto - oltre al dire bisognerebbe anche insegnare il capire criticamente il testo (o autocriticamente, se si tratta di roba propria).
Un buon punto di partenza resta a mio avviso la sensibilità personale
del lettore, per quanto possa apparire fumoso questo concetto. Se uno
parte dalla tecnica probabilmente restituisce all'ascoltatore la
tecnica, non so se mi spiego. Se uno parte dall'empatia, dal
riconoscimento delle percezioni anche emotive che il testo gli ha già
dato prima, privatamente, può anche darsi che riesca a
restituirle a chi ascolta (tra l'altro sono sempre stato convinto che la
poesia andrebbe sempre letta a voce alta, anche nel chiuso della
propria cameretta, e questo rimane un buon inizio). Sensibilità e
occhio. Perchè l'autore, a parziale correzione di quanto dicevo
all'inizio, qualche segnale di "partitura" o di sotto testo, per dirla
in termini teatrali, lo dà. Credo sia utile, a mio avviso, considerare
la punteggiatura se c'è (nei testi contemporanei sempre più assente), le
interlinee, i rientri le indentazioni e gli allineamenti al margine
destro, che raramente un autore mette lì a caso, ed altri arnesi come
gli enjambement. Tutta roba che serve a dare un ritmo, le sospensioni, i
silenzi. Ma soprattutto credo che sia necessario intendere il tono del
componimento, se sia di modo maggiore o minore, se sia ad esempio grave
o ironico, se contenga un'ossessione o una liberazione. Lo so, sono
cose ovvie, ma forse non tanto a giudicare da quello che sento in giro.
Dovendo fare un esempio, citerei intanto una delle poesie di Toti che
ho letto a Milano, tratta dal libro. Ironia e critica di certi artifizi
lirici, con un pizzico di surrealismo che però dichiara un principio di
realtà assoluto:
(NECROLOGIO PER LA METAFORA)
non paragonava più niente a nessuno /
non diceva più alla sua donna
che era come una rosa / che era una rosa /
non ripeteva neppure più alla sua rosa
che era come la sua donna / che era la sua donna /
ma quando lei arrivava sei come te ripeteva
e quando aspirava una rosa sei come una rosa constatava
e gli veniva quasi da piangere perché //
la sua donna era solo la sua donna
le rose erano le rose
e tutte le donne del mondo tutte le rose
il come era abolito nessuno lo sapeva più distinguere
tra il volto e lo specchio / finalmente …
Gli slash (/) sono sospensioni, quelli doppi (//) una sospensione
allungata prima della conclusione, i grassetti i punti che a mio avviso
in lettura andrebbero enfatizzati, proprio dove il poeta mette in
discussione l'usurato "come" della metafora, annullandolo. Mi sembra
abbastanza intuitivo, tutto sommato, ma naturalmente non definitivo,
perchè in qualche modo la lettura è sempre una forma di prevaricazione
del testo.
Anche se possiamo non essere completamente d'accordo con U. Eco quando
afferma: "un testo vuole lasciare al lettore l'iniziativa
interpretativa, anche se di solito desidera essere interpretato con un
margine sufficiente di univocità", è indubbio che in quel margine
risiede il diritto creativo e inalienabile dell'autore, di cui chi
legge, più o meno professionalmente, deve tener conto.
Concluderei invitando alla lettura di una poesia che amo molto, tratta da "Variazioni" di Amelia Rosselli:
Tutto il mondo è vedovo se è vero che tu cammini ancora
tutto il mondo è vedovo se è vero! Tutto il mondo
è vero se è vero che tu cammini ancora, tutto il
mondo è vedovo se tu non muori ! Tutto il mondo
è mio se è vero che tu non sei vivo ma solo
una lanterna per i miei occhi obliqui. Cieca rimasi
dalla tua nascita e l'importanza del nuovo giorno
non è che notte per la tua distanza. Cieca sono
che tu cammini ancora ! cieca sono che tu cammini
e il mondo è vedovo e il mondo è cieco se tu cammini
ancora aggrappato ai miei occhi celestiali.
E' evidente il meccanismo di ripetizione, reiterazione, circolarità, di
isolamento della parola, di verso costruito sul fiato, un testo in cui,
come in altri "l'idea non era più nel poema intero [...] ma si
straziava in scalinate lente, e rintracciabile era soltanto in fine, o
da nessuna parte" (Rosselli, in "Spazi metrici"). E' in funzione di
questo, del suo precipitare di parole-pietre e altro ancora che
bisognerebbe pensare la sua lettura, probabilmente. E' un terreno
aperto. Voi come la leggereste?
Giovedì, 11 settembre 2014
Giovedi 18 settembre prossimo, a partire dalle ore 19, e fino a Sabato 20, presso la Galleria Ostrakon, Via Pastrengo 15, Milano, si svolgerà la terza edizione di "Tu se sai dire dillo", rassegna poetica ideata da Biagio Cepollaro, dedicata a Giuliano Mesa e articolata su tre giorni di incontri, dibattiti, letture, video, intorno alla figura di Paola Febbraro, al lavoro di diffusione e conoscenza di Emilio Villa promosso da Enzo Campi e all'antologia di opere di Gianni Toti, ideata e curata da Daniele Poletti e da [Dia*foria, oltre al lavoro di e sulla critica letteraria portato avanti da "In realtà la poesia" e a letture di Cepollaro di lavori dello stesso Mesa. Il programma completo è scaricabile QUI. Ci vediamo là il 18, spero di incontrare qualche amico.
Continua a leggere "Tu se sai dire dillo - Villa, Toti, altri a Milano"
Sabato, 6 settembre 2014
Alessandro Ghignoli - La trasmutanza - Sigismundus Editrice 2014 "Ai luoghi e alle lingue lasciate / ai luoghi e alle lingue trovate":
la dedica di questo libro offre già una serie, per quanto breve, di
considerazioni. A partire dalla apparente opposizione che contiene:
luoghi e lingue non sono persi e poi ri-trovati, sono stati lasciati e
quindi, inevitabilmente, abbandonati. E ipotizzo che siano stati
riconosciuti frusti e inservibili al dire e - quindi - abbandonati al
loro destino o al loro riuso da parte di altri, certo ad un più basso
livello di valore. Perchè è difficile inizialmente sfuggire
all'impressione che Ghignoli sia mosso, oltre che da una vena certo
sperimentale e pure provocatoria, anche da una certa sfiducia nelle
capacità per così dire plastiche della lingua dell'oggi e del qui, in un
suo ormai insanabile logoramento. E quindi dalla necessità di trovarne
una "nuova", una nuova techné, una diversa abilità artigiana. Di
distanziarsi anche da una modernità insostenibile, intraprendendo
proprio nella scrittura un viaggio da cui ’i’no spero di tornar giammai, come dice Cavalcanti in un esergo.
Antica e nuova lingua, come un linguaggio sorgivo, ancora carico di
sviluppo, di ulteriore "volgarizzazione", come lo era quello di
Guittone, anche lui qui citato. E quindi di speranza e futuro, non tanto
paradossalmente, proprio perchè è il tentativo di una lingua nella
quale le parole riacquistino un loro "pieno", una loro giusta
pesantezza, magari anche spigolosa, rispetto alle cose.
Una lingua (o meglio, il suo amalgama) spesso di invenzione, una lingua as is,
senza garanzie per così dire, il cui utilizzo e la cui comprensione è a
rischio e pericolo del lettore, come pure in larga misura la scelta di
prosodia e ritmo, stante la pressoche assoluta mancanza di segni di
interpunzione o altri segnali delimitanti. A questa lingua si
aggiungono, in particolare nella sezione Discordo de la Esperia,
svariate inserzioni di castigliano, che Ghignoli frequenta soprattutto
come traduttore, e qui l'impasto linguistico arriva a creare anche una
perturbazione musicale, una interrogazione all'orecchio, come un buon
brano di world music. Incidentalmente vale la pena ricordare che il
"discordo" è una forma poetica di origine provenzale che prevede tra le
altre cose appunto l'uso di lingue diverse.
Se parlo di invenzione non è per sminuire o fraintendere il lavoro di
Alessandro ma perchè è ininfluente per il lettore accertare la "verità"
di quel linguaggio o la sua attestazione filologica (per quanto basti
aprire almeno Dante o Jacopone per trovarvene gran parte), sapere se una
parola o l'altra sono recuperate oppure inventate di sana pianta. Anzi è
proprio la sua "falsificabilità" ad libitum (o il suo margine di
ulteriore torsione) a dargli autorevolezza, un'aura di "codice" che il
lettore è chiamato ad interpretare. E certo in queste scelte non c'è
niente di nostalgico, questo non è un recupero di ortodossia, non è una
messa in latino per intenderci, è un lavoro semmai di sublimazione culturale, e qui uso un termine alchemico con qualche ragione.
Poichè mi piace intendere la trasmutanza proprio come un alchimistico
passaggio, una trasformazione, forse definitiva o forse dinamicamente
reversibile, un ciclo degli elementi secondo i canoni classici o un
percorso di perfezionamento introspettivo, secondo il carattere
allegorico che C.G.Jung assegna nei suoi scritti all'alchimia. Ghignoli
ne dà un assaggio fin dal primo verso: "m’auna e parte la trasmutanza",
la trasmutazione mi unisce e mi divide, in Replicazioni, la
prima sezione del libro, costituita interamente da testi ciascuno
organizzato non casualmente come una struttura invertibile a piacere,
con un inizio un centro e una fine perfettamente rovesciabili, qualcosa
"simil a questo ritorno dell’ire", come scrive Ghignoli più oltre.
Trasmutazione che è anche un divenire, una trasformazione del mondo non
sempre comprensibile e non sempre in meglio, che in questo caso lacera,
divide ("parte"), in altre parole viene subìta. Trasformazione anche
dell'individuo, dell'uomo, perché trasmutare è in fondo anche la
speranza del poeta, per sé stesso e per il prodotto del suo lavoro, la
ridefinizione e lo spostamento dei limiti propri e delle possibilità
espressive della forma che ha scelto. Ghignoli getta nel suo atanor il
mercurio della lingua e lo zolfo di una vena critica e etica che
sostanzia questi versi, critica di sé, della propria vita, dell'oggi che
viviamo, dell'imbarbarimento dei costumi o di questo paese (l'Esperia
che i Greci individuavano ad occidente, quella del Discordo citato prima), con i suoi disastri emblematici e/o metaforici, come nella sezione De mundizia,
di un personale lamento esistenziale. Per quanto la lettura possa
apparire aspra come l'ascesa al Monte Ventoso di petrarchesca memoria,
questo di Ghignoli è un libro che lascia insieme qualche sconcerto e
un'intima soddisfazione. Originale e antico, un unicum forse non
replicabile, né da Ghignoli né da altri. (g.c.)
Continua a leggere "Alessandro Ghignoli - La trasmutanza"
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