Sabato, 30 agosto 2014
Daìta Martinez - La bottega di via Alloro - LietoColle, 2013
Daìta Martinez, nel libro di poesie La bottega di via Alloro, edita LC, 2013, accompagna il lettore, utilizzando elementi narrativi ed evocazioni
di cose, luoghi, emozioni, in un reale vitale topograficamente identificabile. Si tratta di una bottega che un tempo era situata in via Alloro, nella zona
del centro storico di Palermo. Come spiega il prefatore Nicola Romano, via Alloro ‘prende il nome da un rigoglioso albero di lauro (simbolo arcaico e
augurale) che fino ai primi anni del 700 verdeggiava nel cortile d’un prospiciente palazzo nobiliare … dove oggi residuano soltanto antichi palazzi in
parte restaurati, magazzini abbandonati, botteghe artigianali e qualche negozio, è per evidenziare che, nonostante sia cresciuta tra il richiamo di vetrine
scintillanti di moda … ’ l’autrice prova un sentimento nostalgico. Martinez confessa la sua natura perlustratrice e conoscitiva e lo fa con movimenti
metaforici che richiamano forme raffinate della poesia ermetica e intricata del novecento. L’uso del simbolismo e spesso del surrealismo consentono al
verso un’esaltazione sonora ben riuscita che fa assaporare al lettore i cromatismi della pregiata tecnica versificatoria. La visione delle cose restituite
e riconosciute in modo contrastato, a volte inespresso con parole nominate in spazi visibili ed echeggianti, linguisticamente impenetrabili, è collocata in
luoghi e spazi perfetti perché pronunciata nel mistero emozionale della parola ‘via’. La ‘via’ per Martinez ha la definizione consolatoria della
ri-creazione del mondo inteso come condizione umana in una situazione di continua percorrenza, di perenne cammino. ‘Via’ come vita che incarna bellezza
lungo un viaggio che riprende l’accudimento degli esseri viventi e persino degli assenti, cioè di coloro che in quella bottega sono ‘passati’, hanno amato,
medicato, creato, ritrovato, incontrato, riconciliato anime. L’esperienza dell’incontro è il tema dominante dell’intero percorso di questo lavoro poetico
che si immerge nella scrittura contemporanea con un peso specifico significativo. Riaffiorano attese, storie, personaggi, alcuni particolari della
quotidianità, della molteplicità, corrispondenze, destini che rimandano a creature e immagini della natura che assumono forme e stati d’animo. Intravediamo
emozioni, sapori, odori, atmosfere, misteri, luci, temi, preghiere, desolazioni, sconfitte, disillusioni, cose lievi, riferimenti alla memoria
inconsolabile di cose che non ci sono e non accadranno più. Resta visibile, invece, la diversa prospettiva di chi rimane nei paesaggi modificati, nelle
appartenenze del ricordo, i volti della metrica che sviluppano geografie contrarie, eppure simili, animando sensazioni e ritmi quasi a pulsare i cuori di
chi passa, guarda e qui, legge. (rita pacilio)
Continua a leggere "Daita Martinez - La bottega di Via Alloro, nota di Rita Pacilio"
Sabato, 23 agosto 2014
Scrittore onnivoro, come è stato definito, e molto altro (come Lunetta , vedi post del 2 agosto), Gentiluomo ha detto di sé "Sono un manipolatore di parole, mi piace giocarci, metterci
le mani, sporcarmi". Quindi sta bene tra questi post estivi (con Lunetta appunto, e Villa) che riguardano una scrittura di ricerca, che appunto manipola il linguaggio ma che è anche ilare o drammaticamente ironica e che spesso si fa beffe del linguaggio stesso, lo contamina con inserzioni che "stonano" il tessuto poetico (o quel che comunemente si intende tale) e tendono a farlo scoppiare dall'interno. Di modo che poi a chi legge rimane una specie di ansia da completamento, una voglia endogena e maligna di ordine che però, per il bene della poesia, di questa poesia, va fieramente combattuta. "Sul più bello della storia d'amore la memoria / si disfa, si sfilaccia, si tagliuzza e non c'è più modo / di ricordarsi cosa succede dopo". Cosa che in effetti non importa sapere, va bene così, la poesia - come quasi sempre - è "un altro pezzo del mondo staccato e corroso", la parte per il tutto impossibile da abbracciare, da scrivere. Giusto quello che volevo dire. E' ciò che fa il poeta quando, come qui, mette in campo o finge di mettere in campo il proprio io non come "esemplare" (il tutto di una parte come nella lirica), ma come "pezzo del mondo", ivi abitante e (parola che ricorre) in transito. (g.c.)
Continua a leggere "Paolo Gentiluomo - da L'onnivoro digiuno"
Domenica, 17 agosto 2014
Enzo Campi – Ligature - CFR, 2013
È accattivante il ritmo e la sonorità, indiscutibilmente struggente per intensità e contenuto, del poemetto Ligature – CFR, 2013 di Enzo Campi.
Questo lavoro in versi conferma l’assoluta autonomia dell’identità letteraria dell’autore che si impone con una voce disegnata, raffinata, creativa e
innovativa. Tutto il percorso poetico dell’autore, attraverso sillabe scandite metricamente, è composto di reminiscenze, vizi e virtù dell’uomo di ogni
tempo. Leggendo con attenzione percepiamo il pensiero complesso di Campi che si svela, a mano a mano, che condivide con il lettore il perimetro dei suoi
componimenti a cui assegna una motivazione filosofica e un gusto estetico: suono, pausa, sagome stilistiche che anticipano il senso delle metafore.
L’autore, con il suo segno, incarcera, il silenzio improvviso e tutto ciò che è mutevole nella contemporaneità. Enzo Campi sa che alla speranza segue la
disillusione e che alla gioia bisogna aspettarsi l’amarezza, infatti ad ogni seduzione corrisponde la sua contraddizione. Un simile lavoro è una sfida per
la letteratura tradizionale: Campi osserva il mondo da un’angolazione obliqua e si premura di assumersi le responsabilità degli sguardi, dei colori, delle
ipocrisie che sul piano inclinato, vengono fuori dalla tragicità delle combinazioni. Gli squarci di inquietudine gratificano e appagano il senso nostalgico
che il tempo convenzionale porta in sé. I parametri non sono, però, censurati: il poeta si impone di risanare il cattivo gusto con la voce fatale del bello
a cui mescola la necessità del contatto con la memoria, del controcanto ideologico, di cui se ne fa una ragione. L’autore crede nel movimento
della poesia: ecco perché lega alla scrittura poetica il senso delle cose terrene e ripercorre le intuizioni rimpiante come ligature
valoriali, cioè possibili alternative per la libertà dall’ombra. (rita pacilio)
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Sabato, 9 agosto 2014
Dopo Lunetta, Emilio Villa, l'uomo che più di tutti ha tentato di sconfiggere la ma ledizione babelica attraversando linguaggi moderni e remoti. Un importante testo, "vera e propria dichiarazione di poetica in versi", accompagnato da un saggio di Flavio Ermini, entrambi tratti dal libro "Parabol(ich)e dell'ultimo giorno", a cura di Enzo Campi, Le Voci della Luna - Poesia / DotCom Press, 2013, pubblicato in occasione del decennale della morte. Un volume collettivo che raccoglie opere dell'autore, e contributi critici e scritti dedicati di Daniele Bellomi, Dome Bulfaro, Giovanni Campi, Biagio Cepollaro, Tiziana Cera Rosco, Andrea Corlellessa, Enrico De Lea, Gerardo de Stefano, Marco Ercolani, Flavio Ermini, Ivan Fassio, Rita R. Florit, Giovanna Frene, Gian Paolo Guerini, Gian Ruggero Manzoni, Francesco Marotta, Giorgio Moio, Silvia Molesini, Renata Morresi, Giulia Niccolai, Jacopo Ninni, Michele Ortore, Fabio Pedone, Daniele Poletti, Davide Racca, Daniele Ventre, Lello Voce, Giuseppe Zuccarino, Enzo Campi. Insomma un libro di sicuro interesse, non solo per chi persegua una scrittura sperimentale, ma anche per quelli che nella loro scrittura cercano spunti per assumersi qualche rischio, deviando almeno un po' l'ordinario flusso della corrente.
Linguistica
Non c'è più origini. Né. Né si può sapere se.
Se furono le origini e nemmeno.
E nemmeno c'è ragione che nascano
le origini. Né più
la fede, idolo di Amorgos!
chi dici origina le origini nel tocco nell'accento
nel sogno mortale del necessario?
No, non c'è più origini. No.
Ma
il transito provocato delle idee antiche - e degli impulsi.
E qualsivoglia ambiguo che germogli intatto
dalle relazioni
dalle traiettorie
dalle radiazioni
dalle concezioni
luogo senza storie.
Luogo dove tutti.
E dove la coscienza.
E dove il dove.
Per riconoscere l'incommensurabile semenza delle vertigini adombrate
le giunture schioccate nei legami
la trasparenza delle cartilagini
il cieco sgomento dei fogliami
agricoli nelle forze
esteriori, e l'analisi fonda
incisa nel corpo dell'accento.
No.
Non c'è più. Né origini nei rami. né non origini.
Chi arrestava i sintagmi sazi nel sortilegio della consistenza
usava lo spirito senza rimedio nel momento indecisivo
come un compasso disadatto, non esperto, così non si poteva
agire più niente, più, ombra ferita e riferita, proiezione
senza essenza, così che speculare sul comune tedio
un gioco parve, e ogni attimo-fonema
ancora oggigiorno sfiora guerra e tempo consumato, e il peso
corrompe dell'ombra dei tramiti dell'essenza.
E codesta sarebbe. Questa la fine concepibile:
se attraverso l'idea massima del pericolo e dell'indistinto
si curva l'anima estrema nell'attrito di idrogeno e ozono e i giorni
acerbi sommano giorni ai giorni quotidiani nell'araldica
prosodia delle tangenze,
soffocando ogni flusso di infallibile irrealtà in:
i verbi
i neologismi.
Chi le braccia levava saziate di viole nel palpito assortito
oggi paragona ogni rovina paragona allo spirito
immune che popola e corruga a segmenti il nembo
delle testimonianze storiche, delle parabole nel grembo
confuso delle parrocchie e nelle larghe zone
di caccia e pesca e d'altre energiche mansioni culturali.
E non per questo celebro coscientemente il germe
sepolto, al di là,
e celebro l'etimo corroso dalle iridi foniche,
l'etimo immaturo,
l'etimo colto,
l'etimo negli spazi avariati,
nei minimi intervalli,
nelle congiunzioni,
l'etimo della solitudine posseduta,
l'etimo nella sete
e nella sete idonea alle fossili rocce illuminate
dalle fosforescenze idumee, idolo di Amorgos!
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Sabato, 2 agosto 2014
Quattro poesie di Mario Lunetta, un poeta (e molto
altro) che piaceva molto al compianto Luigi Di Ruscio, quattro brani che mi paiono utili per rinfrescare la mente
in questa stagione bischera e mi sembra vadano bene per il tempo
ordinario, ma con poche speranze, che viviamo. Testi nei quali tra ironia e
cattiveria Lunetta, partendo da eventi anche apparentemente minimi che rapidamente deragliano verso la catastrofe, mette in scena la sua particolare critica della
realtà attuale.
Dice Francesco Muzzioli, nella prefazione a "Magnificat", Ed. Tracce 2013: "Nella
sua fase recente, diciamo all’incirca nell’ultimo decennio, la
scrittura di Mario Lunetta – questa formidabile “scrittura ininterrotta”
che senza posa attraversa tutti i generi, dalla poesia alla narrativa,
dal teatro all’aforisma, dal saggio critico all’antologia e via dicendo –
si è attestata su di una visione assolutamente disincantata e
sarcastica della degradazione economica, morale e culturale del nostro
mondo odierno. Diagnosi senza speranza, è vero, però lucida e attiva,
che non conduce nel vicolo cieco della rassegnazione, né tanto meno alla
rinuncia del silenzio, ma insiste a percorrere in lungo e in largo il
panorama dell’orrore contemporaneo esercitando ad ogni passo la sua
“scherma fantastica” (la fantasque escrime di cui parlava Baudelaire)
contro la moltitudine delle storture e delle stupidità sociali. Chi
supponesse che questa poesia “virata al nero” diventi monotona, perché
la lingua andrà sempre a battere per forza là dove il dente duole,
sarebbe in errore. Non è affatto così, sia perché all’uniformità
dell’omologazione imperante risponde una corrispettiva diffrazione e
variazione stilistica; ma soprattutto perché il divenire abitudine
dell’orrore (il fatto che ormai ne siamo anestetizzati e l’ennesimo
scandalo provoca una sensazione di déjà vu), non essendo altro che
l’ispessirsi dell’orrore medesimo, è proprio il bersaglio che s’intende
colpire. Naturalmente, nessun palliativo è accetto e nessuna facile
illusione di orizzonti luminosi o di carismatici messia in arrivo, né
tanto meno di “luci in fondo al tunnel”. I margini di manovra sono
assolutamente stretti – Lunetta lo sa bene, in un panorama dove i pochi
compagni di lotta stanno scomparendo ad uno ad uno – e sono tutti nei
termini di un minimo “tuttavia”, o “todavía” come ormai preferisce dire
l’autore, al modo di un donchisciottesco hidalgo". Da aggiungere,
come ovvio corollario, quanto Lunetta ha affermato in una intervista
rilasciata a Simone Gambacorta, in risposta alla domanda sul "fare"
poesia: "Detesto il lirichese, oggi così di moda in questo nostro
stupido paese. Mi ritengo un poeta dialettico, che non guarda solo il
proprio ombelico e non celebra le proprie pulsioni individuali. Il mondo
è vario, anche se sempre più omologato nella volgarità, e un poeta deve
avere il coraggio e la consapevolezza di guardarlo e confrontarvisi.
Per farlo, occorre rinunciare alle scorciatoie del lirismo e dell’elegia
– Baudelaire diceva che “tutti i poeti elegiaci sono delle canaglie” –
per misurarsi coi linguaggi complessi. Quindi, non emozionalità di primo
grado, ma lucidità e straniamento".
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