Domenica, 27 luglio 2014
Alberto Cellotto - Traviso - Prufrock 2014
Forse proprio partendo dai due exerga (uno di Camus, l'altro di
Baudelaire) bisognerebbe provare a farsi un'idea di questo libro di
Alberto Cellotto, che inaugura programmaticamente questa collana (hence le joie) delle Edizioni Prufrock. Il primo, tratto da La caduta, recita: "Dopo una certa età, ognuno è responsabile della sua faccia". L'altro, dalle Opere postume: "Tutto è numero".
Dice inoltre una nota editoriale; "Traviso è
un tentativo di scrittura breve e intervallata dal protagonismo del
numero che sta tutto nell’alveo di un’ ossessione precisa, cioè quella
per il volto dell’uomo, per quel pensiero che raduna le diverse
combriccole dei volti, quando si percepisce che ogni viso è legato a
ogni altro. Allo stesso tempo il travisare diventa un nascondimento
necessario, forse per provare a uscire dal loop dell’ossessione". Mi
viene sempre da pensare in questi casi, sia detto per inciso, che per
fortuna spesso gli autori sono migliori delle loro dichiarazioni di
poetica o di quelle dei loro editori.
Questi due o tre dati a cui ho accennato tuttavia non aiutano più di
tanto, a parte forse a illuminare un po' il titolo. Ammetto intanto di
non capire che cosa significhi il "protagonismo del numero" (vedo che i
testi sono numerati secondo la serie dei numeri primi 1, 2, 3, 5, 7, 11
ecc., tranne il primo [1] e l'ultimo [72]), ma posso ipotizzare, per
pura speculazione intellettuale, un paio di cose: che il poeta voglia
indicare una unicità, una solitudine (come nel titolo di Paolo Giordano,
ricordate?) dell'individuo (e forse del poeta) che però si riverbera
nelle unicità degli altri o forse vi si può sovrapporre. Al punto,
quindi come accenna la nota, di "travisarlo", come in una specie di
morphing. Restando tuttavia l'individuo di fatto indivisibile, esattamente come i numeri, pur nella serie infinita delle esistenze e del loro comune luogo di
essere. Uno è un altro, per dirla stiracchiando un po' Rimbaud. Ma,
soprattutto in questa poesia, non necessariamente io (il poeta) è un
altro. Per la ragione principale, a mio avviso, che questo libro ha un
evidente carattere concettuale, "esterno", costruito com'è
sull'accostamento, per me un po' artificiale ma peraltro non peregrino,
tra questi due paradigmi, il volto e il numero, e sulla forma,
rigorosamente fissata in sette versi, che però ha una sua precisa
estetica, la stessa fredda estetica indivisibile dei numeri primi. La
struttura stessa dei testi costituisce un "frame", sia in senso
semantico (cornice e sintesi di una conoscenza, in questo caso poetica),
sia in senso cinematografico (fotogramma), costruito con una certa
abilità.
E' il volto allora, se si accetta l'assunto della nota, quel volto che è
la prima evidenza dell'identità e di cui, secondo Camus, dopo le tracce
lasciate da un adeguato numero di anni, ciascuno di noi è responsabile,
ad essere il campo di indagine di questa poesia. Il volto molto
presente o accennato che incontri spesso nei versi (volto e i suoi
"parenti" semantici viso, faccia, orecchio, gola, mento, sorriso, occhi,
guancia), còlto, come qui altre "emergenze" del vivere o altri eventi e
constatazioni, per fotogrammi, come dicevo prima, la cui velocità
lascia nell'occhio uno stascico perturbante.
Il quadro complessivo, nella magrezza della "scrittura breve", è quello
di un ambiente urbano, di una "periferia di zolfo", di "aria pesta", di
strade bagnate, di un grigiore diffuso, "un grigio / viaggiare di visi
giunti / senza vento fin qui". Il tema di fondo è, anche qui, quello di
un malagevole vivere contemporaneo vissuto però individualmente, senza
echi per così dire "civili", un tema che mantiene ancora saldamente la
sua fascinazione un po' manierista nella poesia italiana di oggi. Il
"noi" o il "tu" generico e impersonale che marcano la presenza di
"qualcuno" all'interno di queste cornici suggeriscono non tanto, come
dice la nota, che ogni viso è legato ad un altro, ma che è anche
intercambiabile, direi senza peso "politico", e perciò ininfluente
davanti a un destino invariabile. E che forse travisarvisi dietro è
inutile quanto nascondersi dietro la propria stessa faccia. (g.c.)
Continua a leggere "Alberto Cellotto - Traviso"
Domenica, 20 luglio 2014
Continua e si conclude - spero solo per il momento - l'affettuosa e competente attenzione che Raymond Farina ha prestato alla traduzione in francese di alcune mie poesie di qualche anno fa. Questa volta sono pubblicate sulla rivista on line Recours au poème (v. QUI) diretta da Matthieu Baumier, un sito di notevole interesse dedicato esclusivamente alla poesia, francese ed estera. Ringrazio Baumier per l'ospitalità e l'amico Raymond per questa ennesima fatica. La altre traduzioni di Farina potete trovarle, se volete, a questo TAG.
Giovedì, 10 luglio 2014
Stefano Guglielmin - Le volpi gridano in giardino - CFR 2013
Spesso leggere o scrivere poesia significa compiere percorsi non lineari, significa entrare in un labirinto di opposizioni/relazioni, di
concetti/spazio-temporali con numerosi nessi che si vengono a stabilire tra le parole e i significati a esse correlati. Evidentemente non bastano, però, i
significati o i sintagmi nominali! Il poeta ricerca, con urgenza e improvvisi cambi di prospettive - con tecniche di replica storica e molteplicità
interpretativa, con virtuosismi stilistici - i modelli della realtà e le multiformi labirintiche sfumature delle condizioni socio-umane remote, le forme
intime e segnate dal passaggio dell’identità dell’essere umano. Cerca e ricerca, con prepotente immagine simbolica, la sua memoria, comunque sopravvissuta
al chiassoso realistico mondo in cui continuamente pur si ricrea, si rinnova. Ne Le volpi gridano in giardino, opera poetica di Stefano Guglielmin
(CFR, 2013), accade questa resistenza; avviene, infatti, il rapporto comunicativo e continuo con il mondo e le cose che non è allusivo o allucinato: si
avverte l’influenza estetica baudelairiana, il suo elegante simbolismo, mai paralisi dolorosa dell’impersonale, ma continua composizione e deframmentazione
del reale e della storicità. Guglielmin condivide e coglie i percorsi della storia da un punto di vista oggettivo e allargato, cioè da spettatore, da
osservatore/ascoltatore dell’essenziale: ogni tradizione classica educa alla precisione e alla trasparenza dell’esperienza capillare lasciando al lettore
la capacità interpretativa delle pluralità dei sensi metaforici. Stefano Guglielmin è un poeta, scrittore, ma è anche un ‘critico’ e, quindi, un
conoscitore della ‘verità (per critica letteraria si intende un genere letterario! Berardinelli). Sono veramente pochi i critici/poeti/scrittori capaci di
trovare e inventare il confronto ‘drammatico’ tra l’opera e ciò che c’è (in senso allargato) nella cronaca del mondo; e Guglielmin sa mostrare la sua dote
preziosissima di appropriarsi di un sentire autentico riconoscendosi nell’uomo/volpe che si espone e descrive con la potenza specialistica del cantore. Il volume racchiude tematiche che occupano sfere personali, aree sociali e storico/culturali che offrono un originale e sorprendente
confine/accostamento tra il dissolversi di elementi che si combinano e ricombinano in presenze/paesaggi antitetici, ma allo stesso tempo, in presenze dalle
tonalità che hanno connessioni che svelano interpretazioni filosofiche (futuristiche aperture). L’opera, emblematicamente sezionata, così come la parola
poetica, incarna la sacralità della Natura e della Vita, nel dettaglio, la coscienza razionale del pareggiamento di ciò che è norma o devianza, di ciò che
rispecchia la scia rivelatrice della nostra origine simbiotica e dell’incompatibile fiducia/sordità madre/figlio (C’è bufera dentro la madre).
L’autore entra in dialogo con le contraddizioni del suo tempo storico in una condizione privilegiata, da conoscitore esperto di terminologie e di immagini
antitetiche che spesso negano oggettivamente e che affermano interagendo linguisticamente, con elegante tono lirico, con le voci del passato ( Canti partigiani): la sua poesia diventa pane, madre, moglie, voce, bocca, (Canti dell’Amore Coniugale) cioè un complesso visionario che
ha un ritmo biologico e psicofisico attraverso cui fluisce e defluisce il corso del mistero remoto dell’acqua/cosmo/esistenza. L’acqua, qui, è
assolutamente/profondamente vissuta come una divinità terrena in cui si afferma la complessa legge della libertà. (rita pacilio)
Continua a leggere "Stefano Guglielmin - Le volpi gridano in giardino, nota di Rita Pacilio"
Giovedì, 3 luglio 2014
Michele Ortore - Buonanotte occhi di Elsa - Vydia Editore 2014
I testi chi qui pubblico sono tratti dall'ultimo libro di Michele Ortore e
rappresentano, a mio avviso, la parte più significativa e più convincente di
una raccolta, a tutti gli effetti un'opera prima, che appare talvolta
discontinua, o per lo stile o per il registro, di una discontinuità che
non è certo addebitabile soltanto al variare della materia trattata o
della ispirazione, e quindi della "tonalità" del canto, o alle semplici
eco - nella scrittura - delle letture dell'autore. Sembra piuttosto
ascrivibile a una ricerca di una originalità propria e di una voce "atta
allo scopo" (e la ricerca è sempre apprezzabile), ad una curiosità di
appassionato che svaria da Ginsberg a Fortini a Rilke alle avanguardie
nostrane passando per l'Aragon a cui allude il titolo (la Elsa è la
Triolet musa e compagna del poeta francese) e che sembra lasciare a
volte il suo persistente alone (un esempio, Si può pensare dopo le idee:
"Ci siamo sciolti al chiaro di luna / nel petrolio ostiense salato /
come teneri barbari senza domande, invasioni / da vivere, vini da bere
nei teschi; / mani e polsi e vertebre stellate / gocce di latte lungo la
schiena / e porte vuote del senso da aprire con diamanti / nelle notti
del Circo Massimo [...]", insomma, non solo Ginsberg ma forse anche
Blake, no?). Ma il problema - ammesso che sia tale - si esaurisce qui,
ed è comunque del tutto aggirabile, dato che non si tratta nemmeno di
calchi o manierismi, ma - non raramente - di un gioco ricombinatorio di
marca postmoderna (uso a malincuore questo aggettivo, talmente logoro),
forse consapevole forse no e non sempre azzeccato (ma M.G. Calandrone
nella prefazione afferma: "Ecco dunque il lavoro segreto di questa
poesia: studiare, adoperare le parole in funzione di numeri primi e
ennesime potenze e, in questo, disfarsi del senso semantico in direzione
del ben edificare, quasi che Ortore provasse e riprovasse allo scoperto
le sue formule"). Ecco, giustamente, "provando e riprovando". Ovvero il
motto della scuola galileana, ove il "riprovare" non è - solo - il
provare di nuovo, ma anche il rifiuto del non significativo, il vaglio
critico, o magari autocritico. E' nello scarto, mi sento di dire a
Michele, cioè nella consapevolezza della inefficienza o del successo di
una soluzione che il poetare, come la scienza, raggiunge la sua luce,
ben oltre il "ben edificare" che dice Calandrone. Come ben sapeva T.S.
Eliot, confidando nel suo "miglior fabbro".
Le poesie che qui ripropongo, da altro punto di vista, raggiungono bene
una compiutezza espressiva, anche originale, uno stile proprio, ma
soprattutto alcune delle qualità che a mio avviso, come ho avuto modo di
scrivere altrove, definiscono una buona poesia. Sono cioè le poesie che
più sembrano trasmettere il coinvolgimento personale, l'esperienza
sentimentale, il tempo vissuto, , l'engagement, la capacità di
comprendersi e di approfondire questa comprensione, controllarla e darle
forma, farsi tramite di interrogazioni che non riguardano - o non
riguardano più, una volta scritte - solo l'autore, l'incertezza e il
dubbio, il senso di precarietà o l'ansia della perdita che accompagnano
anche i momenti più felici ma temperati però da una solido ottimismo
della parola, della sua capacità se non di salvare il salvabile (sia
esso il bene o il semplice ricordo che non si vorrebbe vedere
dissolvere) almeno di darne una suggestiva immagine latente. Ed anche
quei testi che, allorquando manipolano una materia non strettamente
sentimentale o affettiva come un pensiero politico o sociale o il
mutevole orizzonte della natura o un moto di coscienza, lo fanno con
inventiva, con capacità di giocare su più piani di senso (v. Il cappello di Talete o Polvere di statue o Nuvole rosse in Birmania)
o quelli in cui anche i riferimenti ad altre culture o alla cronaca
vengono filtrati da una sensibilità tutta "nostrana", anche ironica,
come in In memoriam Edoardo Sanguineti. Il mondo di Ortore si
presenta vario e articolato, certo non facile e certamente con i suoi
dolori o smarrimenti, ma direi privo di quel senso di catastrofe
incombente che anima molta altra poesia di giovani. C'è in definitiva
una riserva di speranza, molto probabilmente alimentata non solo come
dicevo prima da una fede nella parola e nel suo potenziale poetico, ma
anche da un senso, molto larvatamente espresso ma presente, di futuro.
Anche nel senso di una poesia che abbia altri "tempi" (e una sua
proiezione in avanti), altre cose da dire (quelle che esplora Michele o
altre) al di là di quel costante "presente" di cui spesso mi sono
rammaricato. Una poesia in cui non c'è addio, ma semmai un arrivederci,
una "buonanotte", in cui anche il confronto con la morte non è un
rammaricato ripiegamento ma è un disvelamento, un andare oltre i
"paraventi", la possibilità di un diverso ma non meno pregnante dialogo.
In questo senso parlavo di sentimento del futuro, di una attesa
inesausta, quasi religiosa, per la quale si può scrivere a chi non c'è più (nella bella e
dolente Dead line): "Tu rimani invisibile
nel tempo, sebbene come ho detto / lo sia sempre stata, e non slacciarti
il reggiseno nel frattempo / e aspetta se c'è da aspettare, respira
quest'assenza / che ora, come una volta, abbiamo in comune". (g.c.)
Continua a leggere "Michele Ortore - Buonanotte occhi di Elsa"
|