Mercoledì, 26 marzo 2014
Bene, ho recuperato l'antologia beckettiana di Gabriele Frasca. Questo mi permette di fare un doveroso addendum al post della scorsa settimana, dedicato all'ultima poesia scritta da Beckett prima della sua morte, a cui Frasca giustamente annette un'importanza fondamentale. Mi fa piacere ritrovare nelle note del curatore alcune parziali conferme a un paio di cose a cui avevo molto brevemente accennato. La prima riguarda l'approccio traduttivo al testo, che mi era sembrato carente o omissivo nella versione di Rosangela Barone e per il quale mi sembrava più giusto tenere ben presenti e sfruttare meglio le due versioni d'autore, quella francese e quella inglese. Dice Frasca a questo proposito: "In virtù della straordinaria importanza della successiva versione inglese (per le scelte formali ancora più oltranzose e per essere, nel senso pieno, l'ultima opera di Samuel Beckett), la traduzione ha, ed è l'unico caso in questa raccolta, attinto da entrambi i testi (in un primo tentativo apparso su "Plural", IV, 8, Lug. - Dic. 1990 [...] l'estensore di queste note aveva, proprio alla luce delle considerazioni inserite nell'ultima parentesi, scelto di operare direttamente sulla versione inglese)".
L'altra cosa riguarda il riferimento al "balbettio", a quella "sintassi in divenire" (dice Frasca), che "occorre a far poesia solo nella misura in cui fare poesia è la generica disposizione delle « arti che lavorano il linguaggio » a consentire l'emersione della «lingua straniera nella lingua»: come bene ha visto Gilles Deleuze, questo testo non solo «fa del balbettio la potenza poetica o linguistica per eccellenza» ma è un'«opera-televisione» in cui prende forma un'immagine, risolvendo cosi una volta per tutte [...] le strategie «impotenti» e «insipienti» nelle a mala pena discernibili distanze dove noi tutti, nella ricerca della parola che sfugge (la parola costantemente mancante, «and here a word he could not catch it», che punteggiava le lacune della terza parte di Fremiti fermi), siamo chiamati a fare corpo con l'autore (mania tropandi)". E aggiunge: "..l'impegno profuso da Samuel Beckett per la traduzione di questo testo (in circostanze fisiche che gli rendevano penosamente difficile ogni tipo di lavoro), a fronte invece di quelli lasciati, per definitiva stanchezza e disgusto, solo nella prima lingua di stesura [...], non può che ribadire il ruolo di esplicita chiusa affidato dall'autore a questo dramaticule del «farsi e disfarsi del linguaggio», o narrazione poietica, o lallazione delle origini (Comment dire/What is the Word è, si sarà capito, una sorta di reticolo della poiesi, e dunque un'autentica «pre-poesia»). Da tale punto di vista, questo testo troverebbe la sua reale collocazione, da explicit liber, nelle pagine di tutte le eventuali raccolte beckettiane (quale che sia il tranquillizzante genere cui si attribuiscono i testi raccolti)" (Frasca allude al fatto che il testo, a seconda delle edizioni, è stato catalogato come "prosa" (Ed. Calder) o "poesia" (Ed. Minuit).
Testo fondamentale, si diceva, poiché, ci dice Frasca "non vuole consegnarsi congedo né affidare alcun lascito testamentario: nel ritmo formulaico delle sue esitazioni, nella «smania» preafasica del vecchio reso smemorato dalla progressiva ostruzione dei capillari [...], si annida invece il senso di un rilancio, quasi un'indicazione di lettura, o di «rilettura», un vettore che, alla luce dell'affermazione conclusiva (quella smania di voler credere di intravedere nelle a mala pena discernibili distanze come dire il «come dire»), riconduce esattamente da dove si era partiti, non per chiudere il cerchio e accompagnare gentilmente all'uscita ma, come nel caso di tanti purgatoriali testi beckettiani, semplicemente per tornare a ripetere («repeat play», «ripetere la commedia», come indicano le note conclusive di regia di Play [Commedia] del 1963), per ricominciare esattamente a dire l'immodificabile «come è» [...].
Consiglio assolutamente comunque di leggere, ove possibile, la bella e argomentata introduzione di Gabriele Frasca e le altrettanto cospicue note ai testi.
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Martedì, 18 marzo 2014
"Qual è la parola" , una delle ultimissime poesie, o forse l'ultima di Samuel Becket t, non lo so esattamente, ha una doppia stesura d'autore, in inglese e in francese, probabilmente non definitiva, stando a quanto ne dice l'editore storico di Beckett, John Calder. Pubblicata la prima volta sull' "Irish Times" due o tre giorni dopo la morte dello scrittore, avvenuta il 22 dicembre 1989, quasi un epitaffio, il componimento, secondo Calder, "fu scritto prima in francese e poi tradotto in inglese, è estratto da un quaderno di appunti che il Sig. Beckett iniziò nel 1988 e che egli sperava di elaborare in forma di romanzo breve; non c'è probabilità che altro di tutto questo vedrà la luce". Quindi, in un certo senso, questo poema rappresenta le "famous last words" del Beckett scrittore, il suo "ultimo nastro di Krapp", o meglio ancora la riproposizione nella vita reale di quanto avviene alla fine di "Finale di partita". A parte trovare interessante, per quanto mi riguarda, questa idea di stendere il "soggetto" (per dirla in termini cinematografici) di un futuro romanzo sotto forma di poema, c'è da chiedersi se "qual è la parola" sia un'interrogazione, un dubbio, la constatazione di un insuperabile limite del dire ("comment dire" in francese) o l'approdo di quella disgregazione del linguaggio che l'autore teorizzava (come pure quella dell'azione, se si pensa a un lavoro come "Aspettando Godot"), ipotesi non azzardata considerando opere come "Acte sans Paroles I e II", nelle quali tutta la rappresentazione significativa è trasferita al gesto. La traduzione italiana qui presente, in cui non mi ritrovo completamente, è di Rosangela Barone, tratta da "Poesia" n. 37 del 1991. Devo dire che forse io avrei scelto una traduzione ibrida, che facesse da ponte tra il francese (che possiamo forse considerare l' "originale", ma lo è veramente?) e l'autotraduzione beckettiana in inglese, in un certo senso più "secca" (e forse più vera, direbbe Nadia Fusini parlando proprio di Beckett) su cui la Barone chiaramente si è appoggiata. E ciò in considerazione del fatto che mi sembra evidente che le due versioni non sono del tutto sovrapponibili, ma anzi sembrano essere prodotti di una reale doppia sensibilità linguistica di Beckett, il quale aveva operato nei confronti del francese una vera e propria adozione, non dissimile da quella di altri celebri esuli, "fuggitivi" o giramondo approdati in Francia per restarvi. E questo ci porta alla caratteristica più palese di questo testo, quel balbettio insistente che percorre tutto il dipanarsi dei versi, che si riavvolge, scava la singola parola, la estenua, la spinge più avanti, se ne serve per spingere più avanti la scrittura, fedele all'urgenza di sempre in Beckett di dire, comunque e sempre dire, fino in fondo. Balbettio che ci rimanda a Ghérasim Luca, non a caso citato insieme a Beckett da Deleuze e Guattari nel loro "Millepiani", e ad altri "balbuzienti del linguaggio" , capaci di "mettere in variazione tutti gli elementi linguistici e anche gli elementi non linguistici, le variabili di espressione e le variabili di contenuto". Naturalmente Beckett non è tutto qui e né queste poche righe né questa stessa poesia possono esaurire l'argomento. Segnalo a questo riguardo la pagina che a questa poesia dedica il bel sito www.samuelbeckett.it di Federico Platania (v. QUI), nella quale è possibile trovare altre notizie e suggestioni; e naturalmente l'antologia che Gabriele Frasca ha curato per Einaudi (Samuel Beckett, Poesie, ed. 1999, 2006, 2008), in cui di questo testo è stata data un nuova versione.
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Mercoledì, 12 marzo 2014
Cinzia Demi - Ero Maddalena - Edizioni puntoacapo, 2013
Per afferrare tutta la grandezza/bellezza di un’opera poetica bisogna fondersi con la liricità del verso, lasciarsi possedere dal significato delle
immagini, attraversarle come fossero piazze vuote o stracolme di aloni, albe, crepuscoli, vortici di esperienze passate e ricomposte. Il poeta, che
scansiona il reale, rinviene con maestria le voragini che appartengono al mondo e ai suoi altrove, molto spesso luoghi timorosi della Luce e del
plurisimbolismo in essi contenuto. Cinzia Demi nel suo lavoro poetico Ero Maddalena, Edizioni puntoacapo 2013, si inserisce con
consapevolezza raffinata nel surrealismo novecentesco per far emergere parole ed energie dallo stato inconscio, affinché la scrittura poetica possa
liberarsi completamente dei segni inibitori e delle finalità preordinate. L’autrice supera ogni razionalità partendo da una figura biblica, Maddalena, personaggio sotteso da una frangia di immaginario. Maria Maddalena o di Magdala è stata, secondo il Nuovo Testamento, una donna
discepola di Gesù e venerata come santa dalla Chiesa cattolica. Questo personaggio conserva una profondità di spunti riflessivi che ci spingono a ricrearlo
per scoprirlo ogni volta, attraverso gli influssi epocali/storici, fino a ritornare al punto enigmatico, arcaico e iniziatico della figura misteriosa che
rappresenta. Demi, per tutto il suo percorso poetico, riveste di un modo costante la presentazione della donna, quasi sempre votata alla tragica esperienza
del ruolo che ricopre: rende possibili le voci e gli aspetti di un’ombra irreale, che vaga nei vasti dintorni della storia umana, come un evento che si
svela in ogni istante della quotidianità. Maddalena siamo anche noi, infatti, donne erranti in identità che continuamente perdiamo e che continuamente
ritroviamo; Maddalena è la nostra forma inconscia che dialoga con il nostro sé: è l’ulteriore presa di coscienza del disagio socio-psicologico con cui ogni
figura femminile deve fare i conti. Articolazioni senza volto e nazionalità: donne, madri, figlie, di oggi e del passato, distrutte e poi purificate dallo
slancio restaurativo dell’animo umano, sono le protagoniste di questa silloge, preziosa ed elegante, in terzine originali intrise di classicità e
modernità. Le Maddalene perseverano nel mutarsi espansioni di un vissuto nei vissuti: infatti, la donna di Magdala erano e sono tutte le donne che si
proiettano nel mondo in un modo baudelairiano superando, quindi, l’astrazione simbolico/fittizia per calarsi nelle vicende umane più semplici, più sommesse
o precarie, passionali e dolorose. L’autrice contrassegna radici storico/sociali celebrando l’esistenza del percorso poetico/analogico e tracciando
strutture freudiane che si confermano e si contraddicono nel convenzionalismo del riscatto emozionale. La fuga, i tranelli, la nausea, il nome che cerco, un bacio, il portone, il respiro, la chiesa, il sepolcro, la pietà, la semina, le pietre, la cura: parole tematiche e anche
allegoriche che evocano intenzioni precise, implacabili, mettendo spalle al muro l’io neurovegetativo del lettore e che sanno riportarci nel complesso
creato-universo di ripudio/offesa, accoglimento/perdono. (rita pacilio)
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Mercoledì, 5 marzo 2014

Francesco Macciò - Sotto notti altissime di stelle - Matisklo Edizioni 2013 (ebook)
Due parole intanto sulle Edizioni Matisklo, una iniziativa di Cesare Oddera e Francesco Vico, una casa editrice che produce e pubblica unicamente ebook, anzi veri libri digitali dato che si tratta di pubblicazioni nei maggiori formati correnti (pdf, epub, mobi) e con regolare ISBN, con un catalogo attuale di una dozzina di autori, tra cui il Mirko Servetti a cui avevo dedicato un post (v. QUI) prima che il suo libro uscisse, e Francesco Macciò, autore di questo "Sotto notti altissime di stelle".
Macciò ha un notevole curriculum artistico, ha cultura ed esperienza, ha una formazione, anche professionale, di tipo umanistico. Tutto ciò si sente, in questo libro, che è scritto indubbiamente con una notevole maestria, prosodica e linguistica. Si sente e pesa, per qualche ragione che vedremo. Comincio col dire che su molte affermazioni della articolata prefazione di Luigi Surdich sono sostanzialmente d'accordo, e servono bene a dare un'idea complessiva al lettore: il libro, diviso in cinque sezioni, può essere inteso essenzialmente come un ampio canzoniere in cui spazio (fisico e mentale) e tempo (dell'esistenza reale e del sogno), orizzontalità (dell'impatto con la realtà) e verticalità (dell'aspirazione), insieme al ricordo, all'emozione improvvisa, alla riflessione, sono pareti di una pluridimensionalità in cui Macciò si trova a suo agio, sperimentando spesso il limite, come afferma proprio Servetti in una nota introduttiva, tra Ineffabile, qualcosa che ha ancora una possibilità oggettuale (per quanto difficile) di essere "detto", e l'Indicibile, "il limite stesso entro cui il linguaggio, urtando, si infrange". Una impossibilità, e qui si torna a quanto osserva Surdich, che Macciò tenta di superare, tra gli altri mezzi, oltrepassando lo stagno del "presente", quel presente che un po' ammorba la poesia contemporanea, col tenere aperta sempre una porta col passato (e con il suo carico emozionale) e con i luoghi (che, nascendo fisici, diventano poi luoghi della memoria o metafisici o spazi della speranza), ma anche con la storia, piccola o grande che sia, e con quelle che l'autore chiama "compresenze", siano esse fantasmi che potrebbero riapparire, ombre di morti, o chi comunque ha fatto o fa parte della nostra vita. Con un interessante riflesso stilistico, poiché la porta con il passato è aperta anche da e per la tradizione, comprese forme di sperimentazione del linguaggio che hanno acquisito nel tempo un loro statuto.
Ecco perciò la rilevanza che ha ciò che il prefatore chiama "l'area delle scelte stilistiche". Che è una delle altre ragioni per cui a me questo libro interessa (interesse che implica necessariamente una critica): perchè Macciò è riuscito a costruire un autentico monumento barocco, un canzoniere in cui il ricciolo, il ghirigoro, la superfetazione, la citazione, la mise en scène sono presenze costanti e firme d'autore. Non mi riferisco soltanto a ciò che qualcuno chiamerebbe "echi" di numerose presenze novecentesche, ascendenti poetici, revenants culturali. Chi è che non ne ha? No, direi che in questi testi, c'è talvolta qualcosa di più, come una identificazione stilistica, un forte rispecchiamento che a tratti emerge e ti dà l'impressione di leggere non solo Macciò, ma anche Saba, Pascoli, Giudici e non pochi altri. No, non solo a questo mi riferisco, ma anche a quella "area delle scelte" di cui parla Surdich, che "prospettano l’allineamento e la convivenza di una pluralità di opzioni" e che determinano, non a caso, un "quoziente di concentrazione espressiva che i versi esibiscono" (corsivi miei). E che è piuttosto vasta: una varietà di di toni e di registri stilistici, segni grafici, lessico dialettale e letterario, terminologia tecnica, vocaboli di lingue straniere o antiche, figure retoriche, una serie insomma di "offerte pluridirezionali" da cui l'autore ricava "il materiale verbale per un amalgama piuttosto che per un pastiche", consegue "il traguardo della letterarietà" (sempre Surdich, altro corsivo mio). Come non essere d'accordo, in effetti è così, come è evidente in testi quali "Carnevale a Venezia" o "Il viaggio" (v. sotto), come se (ma per carità, è solo un'impressione) l'autore non volesse lasciare del suo bagaglio nulla o poco per strada, oppure, per dirla altrimenti, volesse tenersi in perfetto equilibrio tra l'asse della selezione e quello della combinazione.
E' per questo forse che la sezione che personalmente trovo pù genuina, più liricamente "vera" (prendendo questi aggettivi con le dovute cautele) è "La Corsica con i tuoi occhi" (ma anche, pur se diversamente, "Il monte di Bormano"), dove certamente tutta la mediazione culturale viene depotenziata a favore del lato "sentimentale" e affettivo, c'è (ovviamente c'è) ma rimane nell'ombra, non esibita perchè non funzionale, non necessaria, non significante, esattamente come non lo sarebbe quella selezione linguistica serratamente controllata che abbiamo visto. Forse per la semplice ragione che servono parole semplici per parlare d'amore.
E tuttavia, sia chiaro, sono proprio la sua complessità aerea e (ancora) verticale, l'ornato e il décor, l'esibizione e il nascondimento, proprio il suo essere - come dicevo - "barocco", ad assicurare a questo libro un indubbio interesse. (g.c.)
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