Venerdì, 26 aprile 2013
Fortuna Della Porta - Metafisica dello zero - LietoColle 2012
Per riuscire a valicare l’architettura creativa del poeta bisogna premunirsi di uno spiccato spirito duttile e astuto; diventare una Penelope ermetica e
silenziosa che si lascia attraversare, con pacata follia e virtù amorosa, dagli innumerevoli versi come stratagemmi o corteggiatori che le balzano
incontro. Così come Ulisse che si svela ora uomo, ora luce sacra, la poesia di Fortuna Della Porta, nel suo ultimo lavoro per la collana Gral, LietoColle,
2012, arriva incarnazione densa del mito e reinventa il destino umano con la capacità di dare lettura del rovescio di una storia che ritorna per
le generazioni liberate dalla polvere del passato. Per noi, lettori/Penelopi, il linguaggio qui assume il ruolo epifanico di un’apparizione che non si
limita a suggerire verbalità fonetiche dei dialetti campani, ma traccia guizzi di sguardi snodati simili a esercizi asimmetrici in riferimento a memorie
infantili, a cadenze, a canti quasi corporali, come ballate rappresentate in una mimesi che sembrano ricordare Valéry e le sue ‘transitions’. Ci si trova
di fronte a una poesia che rimodula la trama stilistica: il significato trascende lo stesso atto poetico sormontando ogni rituale magico che rischia di
intaccare il reale e i rapporti interpersonali. Sono le lingue che formano i paesaggi intimi e gli spazi culturali su cui l’uomo ha prodotto le intenzioni
più ambigue e segmentate delle proprie esperienze. Le traduzioni linguistiche hanno tentato di oggettivare e omologare le diversità emozionali e pensanti
di numerosi individui che, nella lingua, avevano già scritto la propria sorte con tentativi, spesso maldestri, di conservarne, il quadro intellettuale.
Della Porta è una voce narrante del venturo dell’umanità e, del suo presente, ne denuncia i moderni individualismi e le stereotipate convenzioni. Attinge
alle esperienze assimilate per creare un’altra inevitabile quotidianità: considera la poesia ‘seme’, ‘costruzione’, ‘matrice che permette il cambiamento
possibile’ conservando il pensiero e il ‘modo di esistere’ del passato. Il mutamento sociale è nell’atteggiamento del tempo che passa inesorabile, quindi,
che non può svanire senza aver lasciato in noi la traccia della passione vitale verso l’estetica del frammento, della conoscenza, dell’accumularsi dei
saperi che ci consentono di sfuggire ai miseri limiti della materialità e della superficialità. (rita pacilio)
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Venerdì, 19 aprile 2013
Il fascino dis creto della rilettura consiste essenzialmente, al di là
degli apparati critici o delle ragioni intellettuali, nel chiedersi -
davvero - perchè qualcosa ci piace. Ciò è tanto più vero oggi, quando le
reti "socievoli" (chiamarle sociali mi pare eccessivo) cercano di
costringerti a un semplice click su di un bottone. Sintesi che poi non
porta a niente, come quella di chi pretende di fare politica apponendo
on line un "si" alle idee di altri.
Devo ammettere che di tanto in tanto le riletture hanno per me una
necessità disintossicante, di tutto il leggere (di poesia) troppo e
spesso male. A questo scopo una poesia come quella che trascrivo qui
sotto funziona egregiamente.
Franco Fortini - Il seme (da Questo muro, 1973)
Caduti i cartocci giù
le foglie luccicano come piccioni
della magnolia altissima. Sotto i cedri
dove la luce del pomeriggio è fitta
vedo l'erba crudele acida profonda
e l'interrogazione ritorna
ai colpi di vento si curva
si divide ritorna ma dicono i merli di no
camminando o fermi.
Mio padre
s'inteneriva sulla propria morte
udendo l'allegretto della Settima.
Negli angoli dove c'è a marzo maceria
con gran pianti i bambini seppellirono
gli uccelli caduti di nido. Ma nulla
sa più di noi e discorre da sola
coi suoi corni e le trombe la musica
tra questi muri sudati.
In luogo di lui ci sono io
o mio figlio o nessuno.
Tutti i fiori non sono che scene ironiche.
Ormai la piaga non si chiuderà.
Con tale vergogna scenderò
i seminterrati delle cliniche
e con rancore.
Non è ancora luglio
non ancora scaldato asciutto assoluto
il seme.
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Venerdì, 12 aprile 2013
Tre poesie di Lorenzo Calogero, poeta tanto grande quanto oggi sco nosciuto ai più, nella duplice versione inglese e francese ad opera di John Taylor e Valérie Brantôme,
che a mio avviso hanno ben interpretato, anche in qualche caso
superando i limiti insiti in ogni traduzione, l'intima e dolorosa
liricità dell'autore. Spero vivamente che questo interessante
esperimento possa avere un seguito.
Lorenzo Calogero è un altro dei grandi poeti italiani in cui si è
incarnata insieme una esistenza difficile e quella strana parabola - che
si è consumata soprattutto dopo la sua morte - di indifferenza,
notorietà disperatamente inseguita e di nuovo dimenticanza. Nato nel
1910, aveva infatti atteso fino al 1956 che qualcuno si accorgesse della
sua arte, Leonardo Sinisgalli, che sarà suo amico fino alla morte e che
gli scriverà la prefazione a "Come in dittici", pubblicato in
quell'anno, sempre a sue spese come i precedenti. Muore nel 1961, (v. il
resto della biografia QUI)
ed è solo l'anno dopo che scoppia il "caso" Calogero, quando personaggi
come Giorgio Caproni e Eugenio Montale scrivono articoli di vivo
apprezzamento, a seguito della pubblicazione presso l'editore Lerici,
nella collana "Poeti europei", del primo volume della vasta opera
poetica di Calogero. Il secondo volume seguirà, sempre presso Lerici,
nel 1966. Poi l'editore, che avrebbe dovuto pubblicare un altro tomo,
chiude le attività. Comincia così, salvo sporadiche e parziali
pubblicazioni, la parabola discendente del "caso" Calogero. Rimane da
essere esplorata, studiata e sperabilmente pubblicata ancora una
sterminata produzione di poesie, scritti vari, lettere contenuta nel
vasto archivio dell'autore. (g.c.)
Ella ha anche un corpo, un corpo violento
. . .Ella ha anche un corpo, un corpo violento
nella luce della chiarità fantastica
nella chiara lievità dei sentieri che subirono
altri occhi, in questa chiara densità della luna
che per tutti ebbe vita e calore.
Io non ti sapevo cosí erma,
sulla rupe di una città fantastica,
come ella ti amò un giorno.
Io non sapevo di una tiepida veste
cosí arduo, arido il calore
il calore tiepido di tutti i tuoi occhi
che si sparsero dalla palpebra
alla mano nel calore beato di una delusa,
disillusa tua poesia,
e un viso era tenero o una tenera spoglia.
da Quaderni di Villa Nuccia, Poesie, p. 160 She also has a Body, a Violent Body
. . .She also has a body, a violent body
in the light of the fantastic clarity
in the clear lightness of the paths that other eyes
followed, in this clear density of a moon
possessing life and warmth for everyone.
I didn’t know you were so alone,
on the cliff of a fantastic city,
how much she loved you one day.
I didn’t know that in a half-warm coat
the heat could be so arid, arduous
the half-warm heat of all your eyes
strewn from your eyelid
onto your hand in the blessed heat of your
disappointed, disillusioned poetry,
and your face was tender or tender spoils. Elle, a aussi un corps, un corps violent
Elle, a aussi un corps, un corps violent
dans la lumière de la clarté fantastique
dans la claire légèreté de sentiers qui subirent
d’autres yeux, dans cette claire densité de la lune
qui eut pour chacun vie et chaleur.
Je ne te savais pas si solitaire,
sur le roc d’une cité fantastique,
comme elle t’aima elle, un jour.
Je ne sentais pas d’un vêtement tiède
à quel point ardue, aride fut la chaleur
la chaleur tiède de chacun de tes yeux
courant de la paupière
à la main, dans la chaleur bienheureuse d’une poésie tienne,
déçue, désenchantée,
et tendre était ce visage ou tendre sa dépouille.
***
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Giovedì, 4 aprile 2013
In questi versi di Giuseppe Samperi (che abbiamo già incontrato QUI) persiste ancora, soprattutto in quelli da "Isolandomi di inchiostro", la scrittura o la sua forma o il suo antico emblema,
l'inchiostro, nel senso metaforico di cui avevo già parlato
precedentemente. Aggiungerei, rispetto a quello che avevo detto, che
sembra che Samperi
ami pensare di attraversare la vita versando inchiostro. Il che
peraltro sarebbe già una bella professione di fede. Quindi è naturale
che lui si "tinga" di poesia, che la parola tracciata sia lenitiva come
sciroppo per la tosse, l'inchiostro è cercato, scorre in tubature,
l'inchiostro isola più di quanto possa esserlo
già un isolano. Il tutto sempre in bilico, per dirla con Jakobson, tra
metafora e metonimia (o forse la sineddoche), in breve tra l'ampliamento
del senso per assonanze e somiglianze e la tentazione di fare
dell'emblema (in questo caso l'inchiostro) un totem, una parte per il
tutto. Non so quanto perseguibile ancora, ma fatto salvo quanto avevo
già detto a proposito de "Il miliardesimo maratoneta", comprese le
qualità intrinseche di questa scrittura, a cominciare da suggestione,
sintesi e leggerezza.
Negli altri
testi, quelli tratti da "Vocativi filiali" il discorso è un po' diverso,
trattandosi di poesie differenti per forma e contenuto. La struttura è
più compatta e di diverso peso, la versificazione più canonica e forse
un po' più spigolosa, l'apostrofe (a differenza degli altri brani in cui
scrittura e inchiostro sono immagini di una estensione del sé, di una
ruminazione) è rivolta all'esterno, a un "tu", sia esso la madre o
altri, la poetica è quella di una insistita negazione, una negatività in cui la carta trascolora, gli idiomi tornano oscuri, il segno prende
il sopravvento sul suono, sulla voce. E forse il fido "inchiostro" di
Giuseppe non soccorre a lenire. (g.c.)
Continua a leggere "Giuseppe Samperi - Oltre gli strappi, inediti"
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