Sabato, 30 marzo 2013
Corrado Bagnoli – Casa di vetro - La Vita Felice 2012
Bruno Bandini ne ‘I linguaggi della critica’ (FaraEditore 1996) parla di
pensare e fissare, percepire e presentare, sentire ed esaurire la sensazione in un’immagine, in un’azione, in un oggetto, arte e vita, un procedere per
binari paralleli che aspira al suo punto all’infinito. Nel ‘vuoto’ esistente tra arte e vita, il libero progettarsi dell’uomo, il legarsi, creativo, al
cielo evolutivo della vita (siamo all’osmosi dei due momenti) per un’affermazione del presente e del contingente.
Indicazioni di questo tipo spingono il lettore a prendere in considerazione aspetti ontologici e deontologici di un’opera poetica che in sé racchiude
molteplici significati creativi e fecondi elementi sociolinguistici. E’ questo il caso del volume di Corrado Bagnoli Casa di vetro - poema in Tre quadri, edito La Vita Felice 2012, che, stabilendo le pluralità di senso e dei nessi venutisi a stabilire
tra le immagini, le parole, gli spazi e le cose, traduce una forte concentrazione poetica interagendo con la vita e il mondo. L’andamento narrante che
sembra sfociare in un prosimetro, pur sempre controllato e raffinatamente ritmato, racchiude tutta la sua liricità nella matura intuizione della lingua
poetica magistralmente utilizzata concretizzandola in un testo dialogico che produce concretezza di rifiniture e la capacità di svelare i diversi volti del
reale. Le esperienze impresse nelle immagini sono attraversate dall’autore per mezzo di coscienze che testimoniano l’appartenenza di un secolo di
vita che non si indebolisce, ma che sono presenti nell’esistenza di chi osserva, di chi si esprime e di chi si trasforma attraverso la contemporaneità del
riconoscibile, del vissuto, del quotidiano. Le tracce dello scarto del tempo mobilitano il fluttuare del percorso fascinoso nelle tre fasi esplosive e
implosive del poema connotando il gesto poetico di simbolismo analogico. Le sovrapposizioni della necessità visivo/reale, in qualche modo motivate dalla
genialità blakiana, svelano l’intenzione a rapportarsi alla visione intrigante della simbologia alchemica quasi come per affidarsi a soluzioni rivelatrici
del significato autentico della parola poetica. La lettura del reale si configura in un quadro o in quadri liberati dai loro confini: l’essere umano rimane
inevitabilmente addolorato dalla sua condizione precaria, fragile, esposta alla ferita, alla delusione. Solamente il poeta sa che lo smarrimento è
condizione di ricerca, di domanda, di enigma, di urgenza, di stupore, di risalita. Ecco perché si mescolano le energie cosmiche e ci si libera dai vincoli,
dai limiti: è la stessa fine che assicura il nuovo inizio
La casa, adesso,/è il poeta; il poeta, adesso, è questa/casa di vetro, ferita, aperta, voce./Pietà necessaria, profezia inutile./Ricominciare. (rita
pacilio)
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Martedì, 26 marzo 2013
Mario Ceroli, “faccia a faccia” al Mambo di Bologna (dicembre-aprile 2013) di Elisa Castagnoli
Un solo corpo architettonico e sculturale nello spazio immenso investito dalle opere di Mario Ceroli al Mambo di Bologna da vita a un attento gioco di
rimandi tra le sculture in legno dalle proporzioni smisurate, i quadri e gli oggetti in diversi materiali: metalli, terra, polveri, carta o altro. Le
installazioni creano uno spazio-opera totale, spazio inventato dall’artista come un percorso performativo, scenografico per così dire, riempito di
differenti momenti o esperienze plastiche o pittoriche che entrano in dialogo tra loro, a partire dalla loro intrinseca fisicità, interagendo oltre il
tempo cronologico della loro prima provenienza. Come in una grande opera in situ, Ceroli mette in scena il suo lavoro in senso performativo per quello che
diviene in questo luogo portandosi entro la sua verticalità dominante, antro centrale scavato nella profondità spaziale d’una ex fabbrica del pane di cui
la galleria conserva ancora l’ossatura, lo scheletro originale e l’altezza smisurata.
Tale spazio-cattedrale dove gli oggetti, le opere silenziosamente entrano in contatto tra loro vuole essere pensato come luogo di confronto, di dialogo o
forse, semplicemente, di interrogativo aperto posto giustamente in questo “faccia a faccia” metafisico evocato dal titolo dell’esposizione tra la
finitudine del soggetto e la sua duplicazione nel pensiero, nel linguaggio verso un infinità che può essere invocata, immaginata, pensata o meglio qui
posta come un interrogativo di linee che s’aprono verso l’alto senza saperci dare risposta certa sulla loro direzione o provenienza. Dominano la
verticalità di scale e altri oggetti sospesi, tendenti verso l’alto, l’ altrove come la ricerca del senso, dell’umano, del divino, del sacro forse a
partire dalla pienezza sensuale della materia, dalla carnalità del mondo, il legno scolpito in primo luogo.
Domanda inesausta che rimbalza come un’eco in questo spazio sacrale vuoto, ricerca, interrogativo aperto all’infinito piuttosto che affermazione sul senso
e, ancora, inadeguatezza al qui e all’ora aprendo a questo varco, suggerendo questo passaggio verso un’ altrove come orizzonte, termine di raffronto
metafisico.
Strutture verticali in generale, bandiere bianche d’un campo di pace puntate verso l’alto, liane attraversano lo spazio in diagonale, oppure sagome d’un
mondo svuotato, planisferi, mappamondi, carte della terra viste come distese rilucenti ritagliate sulla superficie terrestre dall’esterno e a distanza.
L’uomo di Leonardo, l’uomo al centro del cosmo per eccellenza, figurato nella sintesi essenziale, nella quadratura perfetta del cerchio, è fotografato come
l’artista stesso disteso sull’installazione in legno all’ingresso della mostra; la figura guarda verso l’alto ma, come in altre sculture successive è posta
dietro una rete, dentro una scatola-gabbia o inquadratura, visto in questa riduzione depersonalizzante di sagome a duplicazione o in contorni astratti
oltre ogni singola incarnazione.
Ancora contorni esterni ritagliati nel legno di figure svuotate, astratte, spogliate d’ogni identità individuale non rappresentano l’umano ma lo
interrogano, lo indirizzano, aspirano a ritrovarlo come la presenza del divino in loro percorrendo in senso metafisico questo viaggio dal pieno della
materia- legno forma primaria, terra, paglia, polveri colorate-in sinestesia nello spazio circostante e verso l’alto, verso questa altra dimensione
evocata.
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Giovedì, 21 marzo 2013
Francesca Del Moro - Gabbiani ipotetici - Cicorivolta Edizioni, 2013
Il gabbiano che attraversa trasvolando con qualche incertezza, qu alche
dubbio e qualche ferita, ma molta determinazione questo libro di Francesca Del Moro
è - secondo l'avvertenza di Giorgio Gaber in esergo - l'alter ego, o
meglio ancora il deuteragonista de "l'uomo inserito che attraversa
ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana".
Non sono però separati, anzi "ci si sente come in due". Ovvero, come
titola un testo, "squilibrata e sana", qui e altrove, dentro e "fuori"la
vita.
E' questa bipolarità tra il rasoterra e il volo, io credo, ad essere
creativa, questa coscienza dolorosa e sopportata, nel vero senso del
termine, portata sulle spalle. Se tu ne prendi atto e sei capace di
dargli un nome, di scriverlo, allora il dolore non è "sordo", anzi
acquista una voce. Una voce potente.
Qui la voce (poetica) è arrabbiata, anzi incazzata. Lo dico pur sapendo
che a Francesca non piace, perchè sa di clichè, come scrive in suo
testo. Ma so anche, come scriveva Bukowski da qualche parte (cito a
braccio) che la gente è matta, e se non è matta è arrabbiata, e se non è
né matta né arrabbiata (vuol dire che) è semplicemente stupida. Cosa,
quest'ultima, che credo sia la vera discriminante, poiché esclude
implicitamente l'arte.
Se si parte da questo presupposto (o discriminante) perfino parlare di
poesia femminile ha poco senso, e questo mi solleva poiché sono convinto
che non sia un genere, esattamente come (appunto) quella "arrabbiata" o
quella "giovane". Direi che tutto dipende dai filtri (anche psichici, e
dall'intelligenza, anche ma non basta) attraverso cui l'esperienza
(magari brutta) subisce la sua metamorfosi in significato, come un
kafkiano insetto mostruoso che torna ad essere Gregorio. Diciamo, per
spiegarla diversamente, che qui, come sosterrebbero altri, c'è una forte
correlazione tra l'io analitico, quello
dolorante/corporeo/affettivo/sentimentale e quello etico, o narrante.
Insomma, per un poeta non basta prendere atto di un amore
finito, di un disagio esistenziale o femminile, della morte di un amico
caro, delle ingiustizie, della sconfitta politica e magari farsene una
ragione. Semmai, al contrario, gli interessa fare dell'esperienza
qualcosa di irragionevole. Come forse farebbe un gabbiano.
Tutto naturalmente è molto più "concreto", nei testi, di quanto possa
apparire da questo discorso. La sordità del dolore di cui dicevamo viene
contrastata dal lavoro di scrittura. Qui in effetti la scrittura, anche
con i suoi eventuali "inestetismi", è importante perchè sonora, fàtica.
Diretta, "primaria", spesso tutta d'un fiato ("frenetica" dice Adriana
Soldini nella prefazione), a volte scatologica, apparentemente
spontanea, è fondamentalmente priva di trabocchetti metaforici, di roba
da decifrare. Dice quel che deve dire, anche in maniera percussiva, e
tuttavia restituisce, nei testi migliori, una leggerezza antieroica, una
donna che non vuole essere emblematica, semmai vorrebbe essere felice.
La narrazione è comportamento vissuto, e quindi etica. Il linguaggio è
selezionato su un registro volutamente "naturale", e quindi scelta
ideologica, di non separazione tra il dire e il poetare (e infatti
Francesca, in un testo intitolato "Soancheioscriverecazzateermetiche",
ironizza su certe maniere: "da estenuati ossari / promanano lacerti
d'urlo...")
Certo "Gabbiani ipotetici" ha le sue discontinuità, i suoi momenti alti
e quelli bassi, come naturale. Un esempio per tutti: non è facile - non
è mai facile - fare una poesia politica o "civile" che sia
anche "bella", che sia qualcosa di più di una invettiva. Il problema, a
mio avviso, sorge quando in essa, secondo una classica distinzione, i
valori secondari (il principio di realtà, la cultura, il sociale, il
politico) prendono il sopravvento su quelli primari (la libido, i sensi,
il "cuore", l'umano, il primordiale). Il difficile sta lì, in fondo, in
questo tipo di controllo artistico di sé come autore. Eppure in una
poesia come Dimenticare Genova (v. qui sotto), Francesca ci
riesce. E lo fa semplicemente cambiando direzione, precisamente
all'ultima strofa. Il passaggio da un ricordo plurale che svanisce
(avevamo paura...chi se lo ricorda ormai...) a una singola marcatura che
quel ricordo rinfocola avviene bruscamente con la messa a fuoco di un
primo piano, con una singola metafora (il cuore) vecchia come il mondo
ma efficace. Con una specie di passaggio cine tra un campo lungo e il
dettaglio le cose, l'umano, il politico, si conciliano.
Ma a parte queste considerazioni forse marginali, questo libro si
aggiunge alle cose più interessanti che ho letto ultimamente, quasi
tutte scritte da donne. E se questo smentisce ciò che ho appena detto
sul "genere", pazienza.
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Mercoledì, 13 marzo 2013
Caterina Davinio - Aspettando la fine del mondo - Fermenti editrice, 2012
con traduzione a fronte in inglese di Caterina Davinio e David W. Seaman, note di Ermina Passannanti e David W. Seaman
Libro, questo di Caterina Davinio, di due viaggi e - ovviamente - di due ritorni. Si va in Africa per qualche safari, come succede nella prima parte del libro, nel Poema I - Africa e altro, oppure, nella seconda, a Goa in India (Poema II - Sciamani (Goa)), luogo deputato della cultura hippie (e post), della musica, dello sballo in riva all'oceano. Si parte, a volte alla ricerca di qualcosa che non sia una semplice abbronzatura e, se non si è dei totali edonisti, si ritorna nella migliore delle ipotesi con qualche riflessione, o - per usare un detto - qualche "presa di coscienza". Intendiamoci, quel qualcosa che si cerca può essere la natura, il buon selvaggio, l'ancestrale culla della civiltà, l'incontaminato, sé stessi. L'importante è farlo con la consapevolezza che si parte con una buona dose di romanticismo rimbaudiano (o, appunto, posthippie) nel bagaglio, è inevitabile. Poi quel che conta, se non si rimane nell'hortus conclusus di un villaggio vacanze, è trarre qualche utile insegnamento dalla realtà (disillusioni comprese), magari passandolo poi al setaccio fitto del linguaggio poetico, ricordandosi però che se la realtà è "crudele" deve esserlo anche il linguaggio, almeno nel senso artaudiano della cosa. Lo dico non a caso, ma proprio perchè ho già avuto modo di parlare del lavoro di Caterina, ad esempio a proposito de "Il libro dell'oppio" (v. QUI), in cui la lingua sperimentava una capacità - abbastanza lontana e certo superiore rispetto a questo libro - di "sprofondare" nella realtà. Realtà che era, in quello ma anche in "Fenomenologie seriali" (v. QUI), non solo intimamente soggettiva, ma anche eminentemente "comune", ovvero civile. Ma il libro è ben scritto, ed ha la sua ragion d'essere.
Giacché si parte - diciamo così - "occidentali" e, siamo onesti, senza nemmeno tanti sensi di colpa per ciò che l'occidente ha fatto a quei paesi. Con il nostro sistema concettuale, metaforico, ideologico da mettere alla prova, con la nostra ragione, "un'arma contro qualcosa più forte della ragione", avverte Davinio, "una spada che taglia una piuma", cioè uno strumento del tutto inappropriato o ridondante. E si torna occidentali (consapevoli di poter tornare), dopo aver scalfito appena la superficie, perchè non possiamo permetterci di andare in fondo, o a fondo davvero, siamo sempre noi e "gli altri", coloro che rimangono lì, in una realtà non indeterminata che l'osservatore, per quanto benevolo, poetico, politico, empatico non riuscirà minimamente a modificare (e dove il Rimbaud di "io è un altro" non funziona). Che fare allora? L'artista, anche se ha a che fare con una semplice superficie, riesce a incresparla, fare riecheggiare in sé anche semplici frammenti, trovare uno spirito in questo "altrove", cogliere dei segni nei suoi bagliori, segni di una fine che non sta tanto nella constatazione che i tropici, per dirla con Lévi-Strauss, sono diventati "tristi" anche grazie a noi, ma che in realtà non possiamo andare, con il nostro bagaglio, a rifugiarci in quei luoghi né fisicamente né come mito, perchè forse l' "altrove" che cerchiamo è in noi, quasi come un pre-giudizio. Così, in attesa della fine del mondo (ma quale, davvero) questo "andare verso" diventa speculare (ma molto meno tragico perchè consunto, commerciale) all'altro andare, quello in senso contrario, quello dei migranti in fuga da fame e guerra che si affacciano alle nostre coste altrettanto tristi. Come - se posso fare un accostamento (che non vuole essere valoriale) con un'altra opera in cui la direzione è rovesciata e l'impatto è in qualche modo subìto - ne "Il mondo è vedovo" di Paola Turroni (v. QUI)
Ma in fondo, per aspettare la fine di questi mondi (il qui, l'altrove, la realtà, il mito) un posto vale un altro. (g.c.)
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Mercoledì, 6 marzo 2013
Dopo i testi apparsi su Les Carnets d'Eucharis, tradotti i n francese dal poeta Raymond Farina (v. QUI), quattro altre mie poesie, sempre nella versione francese di Farina, sono apparse sul n.58 (autunno - inverno 2012, dedicato all'artista Gérard Titus-Carmel) della rivista di letteratura "Diérèse", fondata e diretta da Daniel Martinez. Ringrazio ancora una volta Raymond Farina per la sua empatica attenzione, il suo impegno nonché la sua estrema gentilezza. I testi risalgono a vari periodi, tra il 1992 e il 2007, e sono, direi, abbastanza diversi da quanto ho scritto ultimamente, ad esempio nell'ultimo libro che ho pubblicato, "Diario estivo e altre sequenze".
Fine turno
L'amaro in bocca non è neanche fiele ma la polvere delle carte l'ondeggio della polvere in un sole che però è fuori e questo amaro non è neanche un facile cucchiaio d'argento non è medicina ma è tempo che cola come filo spinato l'intollerante tempo ragazzo di quando c'è il sole fuori e il desiderio è oltre i vetri doppi - altrove - . . . E' la realtà quella? Fuori la realtà forse fuori l'immaginazione si incontrano in un prato vero finché desiderato a lungo, forse in una ragazza d'autunno aeroplani di noia lanciati aspettando il fine turno mentre la polvere delle carte si posa il bianco di esse ingiallisce come il sole di fuori stanco così reale perché aspettato così a lungo...
Fin de roulement
L'amertume dans la bouche n'est même pas le fiel mais la poussière des papiers le flottement delà poussière dans un soleil qui est cependant dehors et cette amertume n'est même pas une banale cuiller d'argent n'est pas remède mais temps qui passe comme fil barbelé l'intolérant temps adolescent de quand il y a le soleil dehors et le désir au-delà des doubles vitres - ailleurs -... Est-ce là la réalité? Dehors la réalité peut-être dehors l'imagination se rencontrent dans un pré vrai tant qu'on le désire longtemps, peut-être dans une jeune fille d'automne des petits avions d'ennui lancés en attendant la fin du roulement alors que la poussière des papiers se dépose leur blanc jaunit comme le soleil de dehors las si réel parce qu'attendu si longtemps...
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Domenica, 3 marzo 2013
Rilancio volentieri la notizia di una iniziativa che sembra promettere bene, un nuovo sito dedicato alla poesia e alla ricerca, anzi alla
“esplorazione” della parola, obbiettivo giustamente ambizioso. Si tratta di f l o e m a, ideato e organizzato da Daniele Poletti e Pierfrancesco Biasetti. Di seguito
pubblico l’editoriale (o la poetica, se preferite):
“…l’arte e l’epos greco […] continuano a suscitare in noi un godimento estetico e costituiscono, sotto un certo aspetto, una norma e un modello
inarrivabili.”
Karl Marx
: “L’arte greca e la società moderna”
(Grundrisse, 1857-1858)
Nella società in cui viviamo, dove è più facile abbattere un albero per costruire un marciapiedi o un rondò, invece che girargli intorno, mantenendo
l’erettile architettura, f l o e m a si propone di mostrare ciò che la sega, se meglio adoperata, poteva evitare: la sezione di un tronco.
Nessuna postura pseudofuturista o rivoluzionaria, sappiamo di essere piccoli e forse minoritari, ma ciò che ci spinge a ritagliarci uno spazio nel mare
magnum della rete e della cultura nazionale e oltre è la necessità di mostrare che “si possono suonare le foglie”, e lo si può fare probabilmente anche
grazie a ciò che sta dentro il tronco. (Continua qui)
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