Mercoledì, 27 febbraio 2013
Marco Bellini - Sotto l’ultima pietra – La Vita Felice 2013
La poesia si mette al servizio del concreto diventando il recupero immediato degli attimi del reale quando il poeta riesce a cogliere il senso
dell’esistenza con naturalezza, quasi innocente, consacrando la memoria popolare, l’appartenenza al mondo. La bontà poetica di Marco Bellini in Sotto l’ultima pietra, LVF 2013, emerge nella spiritualità delle mappe geografiche, nell’oggettività dei vissuti temporali, nel ritmo interno ed
esterno alle cose che trascorrono fino all’inconoscibile e inafferrabile mistero della morte. La padronanza del verso libero e dell’utilizzo di singoli
segmenti fluidi, apparentemente semplici, costruiti seguendo una metrica sciolta, spesso sincopati, non ci portano verso un destino prestabilito del verso,
ma ci inducono a cercare un istinto di significato stilistico elegante e curatissimo fino al suo dettaglio più sperimentale/colloquiale/lirico. Bellini
invita i lettori a fare un percorso intuitivo, geografico, geometrico, identitario e, a volte, esorcizzante: un valicare flessibile, paradossalmente
introspettivo, adempiendo una scoperta di ordine mentale nelle realtà umane e territoriali alternate da tematiche narrate in immagini e racconti di culture
vicine e lontane che si collegano con l’esistenza più vasta e profonda dell’intero universo. I significati arcani dei luoghi, le antiche saggezze delle
donne che si riconoscono in un ruolo di subordinazione, l’intolleranza sociale, la morte e i suoi inganni si concentrano in un dire poetico moderno che può
somigliare, non solo per il variare tematico, alla poesia filosofica perché, abile al canto, è capace di educare, e, intenzionalmente, è dotata di
complessa autocoscienza con una funzione analogica, fondativa e discorsiva. La poesia si piega, così, al compito della conoscenza, la
approfondisce, rinnova il suo sguardo su se stessa e si rende disponibile all’approdo dell’esperienza dell’istante rigenerato. La latitudine
geografico/semantica è funzionale alla visione della parola poetica come profondità della realtà che accompagna il lettore verso la verticalità del
parossismo dialettico caratterizzato da sguardi affidati sia a fragilità umane innestate nelle culture dei contesti, sia a incursioni di alibi e sottintesi
che possono riformulare le ricognizioni dei paesaggi circostanti dal mutare delle proprie parvenze. Il tempo diventa un incipit, un punto da cui ripartire,
un gioco d’infanzia, una sistemazione ambientale in cui è possibile approfondire e denominare, in forma retroattiva, l’umanità contaminata dalle azioni
discontinue e intossicate dai comportamenti amorali pregressi. Bellini osserva, narra e ricuce percorrendo località prossime al fiume Adda: propone con il
suo tracciato letterario-zonale un riattraversamento delle esperienze concrete degli spazi, lì dove le vicissitudini umane non vengono visitate come
reliquie, ma come humus intellettualmente utile e sempre fecondo da suggerire come lezione storico/filosofica che può dettare suggerimenti e moniti.
Bellini scava nel corpo materico dell’intero cosmo, fino all’ultima pietra, rimettendo in circolazione più realtà sopravvissute ai luoghi, più ideologie,
più voci per resistere all’amplificazione dei codici che traducono l’estrema metafora dell’ignoto che coincide conquell’immobile puntino di luce al centro dell’universo dove ogni cosa si incontra e ogni cosa si interseca verso l’altra sponda del fiume (Charles Wright). (rita pacilio)
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Giovedì, 21 febbraio 2013
Alessandro Assiri, In tempi ormai vicini, Ed. CFR
Alessandro Assiri, poeta noto e “scafato” nel senso di “avvertito, che ben conosce la poesia contemporanea oltre a quella letteraria, critico ed edotto di
come funzioni la macchina del successo letterario”, si presenta con un libro dal titolo ambiguo: i tempi possono essere vicini perché prossimi a venire e
perché appena scorsi, tanto che ancora ne recuperiamo oggetti, memorie, scaglie usurate d’eventi, frammenti d’identità, pulsioni , evocazioni,
consapevolezze dure come piccole pietre.
Le liriche del libro, suddivise in quattro sezioni dai titoli suggestivi, danno ragione dello sguardo strabico del poeta che coglie frammenti di un passato
prossimo per rivisitare il presente e compiere anche l’azione contraria, dal presente al passato. In questa continua operazione transitoria l’io lirico è
pressoché assente: spia dietro le scelte dello sguardo e si ritaglia il compito del lessico e del metro.
C’è un’ironia amara che pervade l’intero libro, anche le frasi fatte, il raccogliticcio verbale, sono uno strumento affilato di penetrazione dentro una
realtà attuale che non si ama, così come non si è saputa amare con dura consistenza quella della gioventù che travestiva i giorni con un eskimo di sogni.
Nessun rimpianto, però, macchia questi rimasugli, né essi sono utilizzati a pretesto per rimpianti o per acrimonie; anche se non è ben chiaro perché il
tempo abbia spinto in una direzione variata e contraria, la nuova realtà ci colpisce su cicatrici ormai chiuse e il dolore è ottuso dagli antidolorifici.
Ciò che si è perduto non può tornare, può essere rimpiazzato ma l’intervento mostra ancora più chiaramente la il logos e il topos del dolore: “
(…..) Rifatto fino al nome assolvi la vita che hai perduto/ un po’ da militante e un po’ da dissociato/ prima sedicente poi compagno che ha
sbagliato.”.
Questa ironia, riscontrabile un po’ in tutte le poesie, ora leggera ora pungente, riverbera sull’autore stesso al quale resta come un’arma un po’ spuntata
per dire di sé nei tempi , e il suo sé corrisponde a quello di tanti suoi coetanei.
Assiri poeta non ama stupire né recriminare: appartiene alla quota scarsa delle persone che non si chiamano fuori dal gioco o che colpevolizzano sempre gli
altri, il caso,ecc.., per i fallimenti personali e collettivi; la sua denuncia è una autodenuncia e, soprattutto, non ha carte a discolpa né le chiede.
La sua poesia è dimessa. colloquiale, a volte brevissima riuscendo però a sfuggire all’aforisma e alla sapienzialità: “ Sul muretto coi brufoli a parlare fino a tardi/ dell’omino coi baffi con sto nome da birra e sta faccia da schiaffi.”
Chi ha gli anta alle spalle ha vissuto una scena come questa e non saprebbe descriverla meglio: poche parole essenziali, precise, scavate nei meandri della
memoria.
Qualcuno potrebbe obiettare che così operando la poesia non ci porta a nessun passo in avanti. Ma quando mai è successo?
La poesia- azione appartiene alle sue origini, alla sua pratica impellente, da gulag o da frontiera; ci resta una poesia che contiene, quando ci riesce,
l’esubero del sentimentalismo , e i materiali di costruzione dell’identità.
Può dirci dei mali e dei tempi a suo rischio e pericolo: a rischio dell’invettiva o di procreare un ibrido fra un io travolto dal presente e smarrito fra
sirene e miraggi contemporanei.
La lucidità di Assiri è preziosa perché non ambisce stupire, né commuovere, neppure farci troppo riflettere: i suoi versi ci fanno ritrovare un amico con
il quale conversare sorridendo con un po’ di amarezza per i nostri fallimenti. E questi anni duemila ci hanno spogliato di ogni ideale e , se la colla è
rimasta, come afferma Alessandro, non c’è più nulla da appendere. (Narda Fattori)
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Venerdì, 15 febbraio 2013
Martina Campi - Estensioni del tempo - Le voci della luna Poesia, 2012
con note di Loredana Magazzeni e Enzo Campi
ISBN 9788896048351
A proposito del tempo, Agostino nelle "Confessioni" osservava " Se
nessuno me ne chiede, lo so bene: ma se volessi darne spiegazione a chi
me ne chiede, non lo so ". E' esattamente quello che accade ai poeti,
potremmo dire, con l'aggiunta molto moderna di una spazialità piena di
buchi, come quei rulli di carta che fanno suonare gli organetti di
Barberia. L'unico problema è che sembra derivarne una disarmonia non
prestabilita, o una poetica dell'elisione, che peraltro può avere i suoi
elementi di interesse. Dunque, tempo e spazio,
che Enzo Campi, nella postfazione, accosta filosoficamente alla poesia
di Martina (che, sia detto per inciso, non è sua parente), in modo che
questo estendersi del primo, come dice il titolo, trovi una sua
giustificazione nel secondo, facendone poeticamente, dico io, un non luogo.
Qualcuno sostiene che siano in realtà tutti (o almeno tempo e spazio)
la stessa cosa, ma il senso di questo oscuro discorso è che il tempo è
un materiale difficile per un poeta, e che una delle caratteristiche
della poesia contemporanea, soprattutto italiana, è la lamentazione (sia
detto nel senso tragico del termine) sul tempo, accompagnata dalla
contemporanea elisione della traccia che esso lascia come una bava di
lumaca, cioè la storia (o la Storia, se preferite). Ne consegue che se
non c'è storia, l'io che è possibile rintracciare in detta poesia è astorico, è chiunque, non è un personaggio, è una
funzione grammaticale. Non si tratta mica di nostalgia per una sorta di
unità aristoteliche riportate a lucido, dobbiamo semplicemente
attenerci al fatto che così' è (e non da ora), almeno su questo versante
della produzione poetica. Direi che è naturale che anche in questo caso
ne consegua una poetica del momento, come se l'estensione del tempo in
cui si vive, di cui è fatta la nostra vita, non fosse che l'ampliamento
del lago in cui il momento stesso annega senza nemmeno smuovere un'onda.
Il momento "è", e qui si torna ad Agostino, e si torna anche all'eterno
presente tanto frequente in poesia quanto (per dirla con Bergson) poco
"cosciente" del fatto che se non sa farsi passato semplicemente non è.
E' naturale perciò che anche il linguaggio, la tessitura sintattica, il
ritmo (esso stesso "tempo") si diradino, si allarghino, si estendano
evidenziando spazi bianchi, marcate interlinee, divisioni strofiche
apparentemente arbitrarie, versi anche di un solo lemma che volgono
rapidamente a capo, in cui il lettore balbettante misura un certa
inanità di sè di fronte a una realtà sfuggente, difficile da comprendere
(ovvero catturare) anche per piccoli frammenti, siano essi di relazioni
amorose, di luoghi, di intuizioni quasi casuali davanti a uno specchio,
di fatti che - semplicemente - accadono. In questi interstizi, in
questi vuoti in cui "il bianco - avverte Wittgenstein in un esergo - è
anche una specie di nero", vive - oggi - il poeta. (g.c.)
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Venerdì, 8 febbraio 2013
Maddalena Bertolini - Una - Giuliano Ladolfi Editore, 2012 - ISBN 9788866440833
Qu esto libro della Bertolini sembra situato alla
confluenza di due fiumi principali, quello privato delle relazioni
domestiche e familiari, e quindi della connotazione affettiva (intesa
come vox media, nel bene e nel male), e quello del personale
confronto con la natura, posta come metro di misura del sé e forse
monito di una limitatezza di cui conviene tener conto. Nel primo flusso
si depositano non solo le dinamiche familiari e gli appunti di una vita
condivisa e di un ruolo (luogo) femminile, ma anche una consapevolezza
particolare, che quel ruolo abbia un fondamento antico, centrale, e sia
fondante della sua stessa poesia. Questa consapevolezza (coesistenza) è
moderna, ma anche - per così dire - apolitica, indizio ne sia la quasi
totale assenza del corpo e dei suoi brani, luogo deputato e anzi - come
dicevo altrove - topos di molta della poesia femminile, in cui si
incrociano ancora problematiche irrisolte e dissidi, magari a discapito
dell'animo. Qui no, direi che qui semmai c'è una sublimazione "materna"
delle cose (anche quando si contempla un lago), senza che ci sia in
questo aggettivo nulla di consolatorio o di alibi per noi uomini. Il
senso è quello di una "comprensione", di un approccio che abbraccia il
momento propulsivo della poesia (o ispirativo, se volete) ma senza
infingimenti, anzi, quando serve, con qualche scatto d'orgoglio che
certe scelte stilistiche, certi enjambement repentini, sottolineano
bene. Certamente, in questa consapevolezza antica e moderna avrà anche
un ruolo essenziale il fatto che, come nota in prefazione Sarah Tardino,
"di secondo mestiere è levatrice la poetessa come la madre di Seneca
sa l'arte di portare alla luce...". C'è in questo anche, naturalmente,
l'assieparsi di una storia personale, il coincidere di una maternità
propria con quella di altre ("ho messo nella vita tanti figli / tanti
urti quelle notti sbattute / le porte premute sulle assenze", ed è
superfluo sottolineare cosa implichi questo ultimo termine). Il "portare
alla luce" poetico, va da sé, implica anche la necessità di
controllare artisticamente l'ispirazione, di mettere a confronto "la mia
/ faccia e quella brutale della poesia", di addomesticarla evitando di
farne un semplice e disordinato stream di coscienza.
Non c'è dubbio perciò che i testi più intensi
siano quelli in cui viene rivoltata e messa in scena la quotidianità.
Più intensi per alcune ragioni, tutte interessanti: la non-eccezionalità
delle situazioni (ovvero la loro "normalità"), che permette al poeta di
coglierne sfumature, intime essenze e forza metaforica, dichiarandone
un'adesione implicita e forte; la pulsione profonda, amorosa direi,
appunto materna, quasi ontologica e primaria che mette in moto e
giustifica la scrittura; l'io "sociale" che vi si esplica - a differenza
di altri testi in cui la relazione del poeta è con l'esterno - ovvero
un io che pur essendo centrale non è onnivoro, ma consapevole
interprete e narratore delle poetiche che in quella normalità abitano,
basti leggere a titolo di esempio alcuni dei brani qui sotto.
Ma anche negli altri testi, quelli sovrastati dal
paesaggio, dalle montagne anch'esse familiari e onnipresenti, che sono
"bianche come bestie / ruminano neve hanno la fame", "sono piene di
costole / hanno schiene glabre e vertebre, "mi si ammassano nel sangue",
anche in queste poesie il tessuto principale è affettivo, sentimentale
nel senso buono del termine, però di un sentimento rovesciato, di una
minorità, di una infanzia implicita nel confronto con esse, di un
pericolo sempre presente e sempre sfidato come farebbe un ragazzo. Per
quanto ci sia il rischio di cadere, anche metaforicamente, quello che
attrae Bertolini in fondo è che "la prospettiva non è tirare / avanti ma
soltanto in alto", esattamente all'opposto di quanto forse accada nel
quotidiano di cui si diceva. Oppure, "per quanto mi riguarda - scrive - /
cammino sulle punte / di tutte le montagne". Il che è probabilmente la
stessa cosa.
In entrambi i "fiumi" la poesia si "concretizza",
come è giusto che sia in relazione ai temi, anche quando svicola in voli
pindarici o invenzioni metaforiche o simboliche che possono apparire a
qualche occhio arcigno azzardate o ingenue ("le lenzuola della neve",
"la neve fa le fusa", "le sillabe dei larici", "la giumenta lenta della
lavatrice rumina mutande") ma che finiscono per sorprenderti, per
rivelarsi icastiche e funzionali al racconto. Quasi senza segni di
interpunzione, apparentemente stesa di getto, ma in realtà con "la
scrittura intellettuale dell'istinto" (Tardino), , la parola è spesso
limpidissima e "onesta", la poesia arriva immediata al lettore, e la sua migliore qualità è essere di "una" e di molte. (g.c.)
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Venerdì, 1 febbraio 2013
Matteo Maria Orlando - Mi fa male una donna in tutto il corpo – La Vita Felice 2012
L’opera poetica Mi fa male una donna in tutto il corpo, di Matteo Maria Orlando, contiene elogi d’amore narrati in versi limpidi ed espliciti
dedicati alla figura femminile, contraddittoria e multicolore, quale musa di esperienze di dolore e di profondo piacere. La tematica sentimentale è il
sottofondo luminoso attraverso cui il lettore può osservare il reale individuando i propri percorsi emozionali. La Poesia non è l’espressione
immediata di un’emozione; è un’emozione esatta, come diceva Eliot, proprio perché reagisce alla critica immanente ed è chiamata a giustificare la propria necessità (Massimo Cacciari). Matteo Maria Orlando colloca lo sguardo emozionale sull’anima della propria amata
per tracciare un percorso di levitas senza staccarsi dai luoghi e dalle cose del mondo. Come tutti coloro che vivono il linguaggio poetico,
l’autore non esaurisce il pathos nel significato, ma si lascia appartenere,in tutta la sua essenza, dal logos complice che conserva potenza e nobiltà
filosofica: così io parlerei se potessi fare poesia (Eliot). I verbi pronunciati, privi di retorica, sono quasi tutti al presente perché spingono
impulsi e immagini verso un moto in avanti, inteso come uno spazio fisico ed un tempo storico nuovo, architettato con cura e simbolicamente, da chi scrive.
La poesia qui vuole significare esperienza del quotidiano sentimentale fissando l’attenzione all’estetica reale che sembra allontanarsi dalla concezione
della poesia evasiva e oggettiva del primo Novecento. Il viaggio, in cui il lettore è accompagnato, è un unico atto d’amore: un tragitto lungo vari
registri morali e di senso che confessano lo stato d’animo del poeta quale individuo immerso nelle proprie sensazioni e che sa riconquistare l’energia in
eterno movimento del proprio corpo (Mi fa male una donna in tutto il corpo – Borges). Orlando comunica al lettore che la propria
esperienza amorosa è aperta ad infinite dimensioni culturali che dovrebbero valutarla come un campo ideologico in cui l’universalità umana partecipa in
modo totalizzante, senza porsi limiti, né confini. L’io diventa noi ed ogni evento pronunciato esce dal singolo per entrare a far parte
di un coagulo di esistenze che comunicano e ricercano, sorprendendosi, il senso della vita. (rita pacilio)
Continua a leggere "Matteo Maria Orlando - Mi fa male una donna in tutto il corpo, nota di Rita Pacilio"
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