Giovedì, 27 dicembre 2012
Adriana Gloria Marigo - L'essenziale curvatura del cielo - La Vita Felice, 2012
La poesia di Adriana Gloria Marigo arriva al lettore come una forte energia in movimento. L’essenziale curvatura del cielo, infatti, è
una posa intellettuale che attinge nell’universo, ovunque, le conoscenze cosmologiche e filosofiche da tradurre in poesia. Lo scopo poetico dell’Autrice è
quello di mantenere un contatto forte con la materia esistenziale e culturale dell’amore, inteso come ritmo antropologico e come manifestazione
prolungata della realtà. Marigo ricerca nei versi, eleganti e incisivi, l’adeguato gusto e rigore linguistico per comunicare al mondo l’esattezza e la
chiarezza con cui è necessario intessere il rapporto vita-poeta-lettore. Lo spazio-tempo in cui l’autrice errante diventa peregrina intellettuale è
destinato a diventare uno spazio cosmico-riaccolto, mai immaginato, bensì definito dall’analisi degli elementi conoscitivi fisici e mentali sempre in
tensione. L’attesa, l’incontro, l’illusione, l’incanto, il ricordo, il disincanto, l’ostinatezza costituiscono la colonna vertebrale di questa raccolta
poetica che sorprende per le dinamiche metaforiche descritte, originali e possibili come unica via di scampo alla fuggevole e insoddisfatta sensibilità del
mondo. L’aspirazione e la salvezza dell’uomo è da ricercare nel continuo processo di rinnovamento purificatorio dell’esperienza vitale. Il
passato-presente-futuro si affiancano e si fondono nella stessa contemporaneità dove si incontrano parole, immagini e folgorazioni fugaci. Così spariscono
le distanze e prendono forma gli elementi naturali con una spinta emotiva surrealista, allegorica. L’autrice celebra, in prima persona, l’azione,
riconosciuta e fervida, della passione intellettuale del mondo creativo puntando lo sguardo alla poesia del novecento come realizzazione matura
del proprio destino artistico. Riluce il pudore delle domande senza fondo per non mostrare la vita come una terra stanca, già percorsa, sofferta, data. La
parabola emozionale ha una curvatura esistenziale stratificata, ampiamente segnata dal cammino nell’oltre intuizione. Marigo non costruisce il
cosmo con leggi bizzarre, ma eleva la percezione romantica della tradizione poetica a suprema intelligencija, alla grazia del cielo. (rita pacilio)
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Giovedì, 20 dicembre 2012
Domenico Arturo Ingenito - Per camminare rapidi sulle acque - Ladolfi Editore, 2012
Un'opera prima che non è un assoluto libro d'esordio, grazie a Dio. In
primo luogo perchè l'autore non è per me un nome nuovo, essendo già
passato su questo blog (v. QUI),
e poi perchè Ingenito ha la sua particolare costellazione, e pochi
alibi in odor d'inesperienza o giovinezza, al contrario una cultura che
lo sostiene e nutre. In altre parole, una certa consapevolezza dei mezzi
e poca necessità di dimostrare alcunché.
Un libro ponte, direi. O forse ecumenico, o sincretico. Ovvero
costruito sulla necessità primaria di porsi (come autore) in un centro
geografico, sentimentale, stilistico, culturale, e anche in qualche modo
nostalgico. Come tutti i ponti il suo consistere è fatto di tensioni ed
equilibrii, a volte difficili da mantenere. Del resto Giuliano Ladolfi,
nella nota di chiusura, parla di "provvisoria sospensione tra due
abissi". Ma chi non risica non rosica.
Parlando di tensioni, di centro, di equilibri, ripartirei da quanto
avevo lasciato in sospeso un paio di anni fa. Allora avevo fatto
riferimento, a proposito dei testi di Domenico che avevo pubblicato su
Imperfetta Ellisse, ad alcuni snodi importanti e potenzialmente in progress. Che qui rinveniamo soprattutto nella prima parte del libro, nella quale ritrovo (VEDI) l'emblematica poesia-luogo Lisbòna - Tehràn, doppi
fuochi di una traiettoria anche esistenziale, come anche (e vedremo le
ragioni) "affioramento linguistico di un oblio incantato, dove
l'italiano mi è materia vocalica estranea". Si trattava in breve, a mio
avviso, di un debito che Ingenito riconosceva a una cultura non sua come
quella persiana - o orientale in genere - a cui si era abbeverato, anzi
una qual certa supremazia poetica, icastica, eidetica, una ricchezza
lirica sorgiva che accomuna con affascinante crasi l'antico e il
moderno. Si trattava anche, quindi, di un rovesciamento di identità
culturale, un innamoramento se volete; si trattava di una sostituzione del canone
o della reinvenzione di una tradizione, di un traghettamento. Qualcosa
che a me piaceva definire, esagerando, una reincarnazione, o una
simulazione di metempsicosi. Qualcosa di più, se posso dire, rispetto al
"tentativo di riappropriarsi di una Retorica, quale essa sia; di un
sistema di espressione che ritorni valido e significante soltanto se
scontato dal sangue della propria esperienza" che rimarca Tommaso Di Dio
nella sua prefazione. Certamente sì, anche questo. Ma perchè? Io credo
che, da questo punto di vista, Ingenito faccia parte anch'egli della
"generazione entrante" in cui (cito Stefano Guglielmin) "il sentimento
dell'orfanità (...) attanaglia questi giovani, collocandoli in un limbo
dove il presente è tutto ciò che procura dolore e gioia gestibili, una
volta compreso che sul futuro non si può più scommettere e che il
passato è responsabile di tutto questo". Ma questo orphanage
Ingenito lo risolve a modo suo, spostando decisamente lo sguardo verso
un altro orizzonte che rende addirittura ridicolo il problema
dell'eterno presente, e forse il concetto stesso di modernità. Se il
"passato che è responsabile di tutto questo" fosse per caso il Novecento
italiano che tutti cerchiamo di scrollarci di dosso, Ingenito lo
ignorerebbe bellamente, ricostruendo un altro passato in cui possono
coesistere tranquillamente Gaspara Stampa e Petrarca, l'amatissimo Hafez
o una sconosciuta (per me) poetessa persiana trecentesca. Ingenito,
come ho avuto modo di dirgli in altra sede, è felicemente antimoderno (o
se volete discretamente inattuale, nel senso nicciano del
termine, cioè agendo "sul" tempo e contro il tempo), l'elemento in cui
si muove è principalmente lirico, direi per forza di cose; il linguaggio
è ampio, anche nei testi più sintetici, e comunicativo. Compagna del
lirismo, spesso orfico, è una certa aria di mito che si respira a
tratti, forse di idealizzazione anche della stessa poesia, che però è
idea forte, quasi (si potrebbe dire senza troppi timori) mistica. Lo
stesso presente, con questa lente, diventa diversamente interpretabile, e
forse sopportabile con meno dolore, come per chi affronta il deserto
con qualche libro nello zaino.
Poi Domenico naturalmente si (ci) ricorda di essere anche un poeta dell'oggi. Come per tutti i ponti la missione del libro è l'attraversamento di un vuoto,
sia che esso avvenga con passi pesanti oppure leggeri come il rapido
camminare sulle acque del titolo. Non so se Ingenito abbandoni con
qualche inquietudine la terra sicura della prima sezione del libro,
"L'angelo e il fuoco" in cui optime manebat, si trovava bene,
ma certo hanno ragione altri commentatori, a cominciare dal prefatore
Tommaso Di Dio, a sottolineare la centralità (il fulcro, direi) de "Il
basilisco", seconda sezione della raccolta, dove proprio la doppia
natura dell'animale, reale creatura capace di correre sulle acque da una
parte e figura mitologica dall'altra, diventa simbolo e veicolo di un
passaggio tra diversi mondi, sguardi, tempi. I passi corti e leggeri del
poeta/basilisco sulla tensione superficiale delle cose sono forma
riflessa in una concisione dei testi (e in alcuni versi folgoranti)
quasi aforistica che è tutta moderna (Di Dio acutamente richiama Porta e
io penso a un quasi altrettanto mitico "Airone"), con un interessante
prosciugamento del testo, come se il passare all'oggi fosse inscindibile
da una frammentata visione dell'evento in cui il linguaggio "deve"
rispecchiarsi (ma gli echi che dalla superficie si diffondono sono
profondi, e il vuoto, gli interstizi, anche per noi lettori vengono
alfine attraversati).
La terza sezione, "La mandragola", sembra riassumere una circolarità
dello sguardo, gettato da quel centro di cui si parlava all'inizio, uno
sguardo che ricomprende, nel parlare di amore forse terreno forse
trascendente o magico, da una parte voci e andamenti della terra da cui
Domenico aveva preso le mosse, dall'altra un linguaggio ancorato
saldamente e senza sbavature alla sua stessa ispirazione. Una parte in
cui la ri-creazione di una tradizione su misura consegue a mio avviso un
risultato di rilievo. Se nella mia precedente nota esprimevo in
chiusura il velato dubbio che la poesia di Ingenito, se "depurata" dalla
potenza di una fascinazione culturale (da cui comunque forse qualche
distanza in seguito si dovrà prendere), potesse residuare in un lirismo
non del tutto originale, credo ora di poter affermare come da certe
affinità elettive sia scaturito al contrario un libro personalissimo e
maturo. (g.c.)
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Giovedì, 13 dicembre 2012
Wojciech Bonowicz - Mare aperto, Incerti Editori 2012, a cura di Leonardo Masi
Uscita nel 2006, Mare aperto è la quarta raccolta poetica di Wojciech Bonowicz (1967). [...]. Mare aperto è a oggi la silloge di Bonowicz che ha avuto in Polonia maggiori riconoscimenti, fra i quali il Premio Gdynia, e lo stesso autore la considera un punto di svolta della sua carriera. Dopo di essa si è cominciato a parlare di Bonowicz come di un nuovo esponente della poesia religiosa. Pur non negando il proprio interesse per la teologia (del resto nel 2001 pubblicò una fortunata monografia su Józef Tischner, brillante prete filosofo morto l'anno precedente) l'autore prendeva però al contempo le distanze da una poesia il cui fine fosse quello di inserirsi in una tradizione, quella della poesia religiosa, pur molto fortunata in Polonia. La ricerca del poeta è rivolta piuttosto verso una lingua adeguata a parlare delle faccende che gli stanno a cuore. C'è la religione, certo, ma prima di essa, in questo libro magistralmente costruito, viene il tema della scrittura, con una serie di componimenti autotematici. Se in queste poesie cerchiamo risposte, troveremo soltanto ulteriori domande: Bonowicz crea continuamente situazioni ambivalenti, le sue storie sono piuttosto delle epifanie. Esemplare è il testo che dà il titolo alla raccolta: abbiamo da un lato una situazione molto chiara, presa dal quotidiano, e però d'altra parte restano tanti elementi inspiegati. Tutto questo avviene in soli tre versi, più un titolo che aggiunge mistero al mistero. Abbiamo un quadro, ma non sappiamo cosa avviene fuori dalla cornice. E poesie come Cronaca o Canti storici parlano forse di attualità? O di altri tempi e di altri luoghi? Tutte le risposte sono plausibili, perché lo spazio e il tempo in cui si muovono questi testi sono quelli dell'archetipo. Si noti, infine, che Wojciech Bonowicz è nato a Oswiécim, la cittadina presso il campo di sterminio nazista che ai più è noto col nome tedesco di Auschwitz. In un'intervista il poeta ha detto: "Solo dopo l'uscita di Mare aperto ho cominciato a parlare di Auschwitz, che è un tema col quale mi misuro da sempre. Sono cresciuto all'ombra del campo di sterminio. La consapevolezza che questo è accaduto così vicino ti segna per tutta la vita. [...] Prima avevo paura a parlarne, non volevo che le mie poesie fossero lette solo in quest'ottica: ecco un altro poeta del dopo-Auschwitz! Ora non ho più paura". (dalla postfazione di Leonardo Masi)
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Lunedì, 10 dicembre 2012
Ieri su La Lettura del Corriere della Sera è uscita una recensione di Roberto Galaverni di "La fine del Mondo", l'antologia di testi di Ghérasim Luca edita da Joker, a cura di Alfredo Riponi, traduzioni di A.Riponi, R.R.Florit e G. Cerrai.
"Bisognerebbe forse avere in mente le pagine di Emile Cioran sulla calcificazione, il fanatismo grammaticale, la monumentalità della lingua francese, prima di avvicinarsi alle poesie di Ghérasim Luca, lo scrittore romeno espatriato in Francia nel 1952 e scomparso nel 1994, quando, proprio come il suo più illustre conterraneo Paul Celan, pose fine alla sua vita gettandosi nella Senna. L'antologia La Fine del mondo costituisce il suo primo volume di versi tradotto in italiano direttamente dal francese, una lingua che Luca, nato nel 1913 da una famiglia ebrea askenazita e di lingua yiddish (ma anche romena e tedesca), scelse di adottare molto prima dell'espatrio, e non per garantirsi una patria e un'appartenenza linguistica nuove, quanto per testimoniare nella più codificata e inesorabile delle lingue la condizione di radicale, ontologica estraneità dell'uomo al mondo che gli è dato". (continua a leggere QUI)
Giovedì, 6 dicembre 2012
Marco Bellini - Attraverso la tela – La Vita Felice 2010
Attraverso la tela,
di Marco Bellini, è una lucida raccolta di versi e narrazioni che ricorda le svolte dello spazio cosmico del destino dell’umanità già
lette nei lavori di Elena Svarc. Il lettore si trova di fronte ad una colloquialità che dal ‘basso’ procede verso il ‘laterale’ perché le esperienze
vissute e conosciute, di cui l’autore parla, sono condivisibili e donate in una forma di confidenza amicale, quasi confessate. Bellini sa che ogni elemento
del reale appartiene al mondo e che nessuno ne può cambiare l’irreparabile fatalità. Il tempo è localizzato nelle casuali intonazioni ideologiche e
sociologiche: e allora ho chiesto di uscire dal tempo. Questa poesia ci consente di avvicinarci all’attività conoscitiva dei pensieri compiuti e
all’importanza delle sue motivazioni. L’autore esce ed entra nel reale, infatti, per trasformare in poesia gli attimi che si annullano quando la
definizione psicologica diventa corpo-materia. Il ritmo lessicale e l’evidente estetica romantica delle visioni proposte si mescola ad un raro senso
poetico: tutto viene partorito da un subconscio che vuole rivelarsi come razionale, ma che conserva ed evidenzia una forte pulsione emozionale. La
rifrazione del verso, espresso in una prosa poetica curata e coerentemente aperta, sprigiona una tensione fenomenologica che appare, a chi entra nel
racconto poetico, come una sequenza di specchi sovrapposti. Il senso metaforico presenta un’ ‘essenza parallela’ che può determinare un nuovo flusso vitale
possibile, dettato da regole eterogenee, e una nuova filosofia dello spazio-tempo che ci catapulta nel monologo, assai profondo, che misura, nel nostro
animo, la percezione delle cose sensibili. In questa raccolta leggiamo, tra le righe, la consapevolezza della negazione filosofica del Novecento in cui
Montale preferiva sottolineare il suo ‘non volere’ o il suo ‘non essere’. La lettura sincera del mondo, come straordinaria aderenza poetica, è
l’elaborazione della fine del silenzio della perdita-assenza. Bellini definisce in modo acuto le distanze temporali tra ciò che è stato e ciò che rimane:
non sfugge la definizione dei parametri che indicano gli abissi e ci dona, con autentico rigore, i movimenti armonici tra l’esistenza morale e la sapienza
dell’intelletto. (rita pacilio)
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Domenica, 2 dicembre 2012
E’ abbastanza inusuale per questo blog, ma è anche vero che due opinioni sullo stesso soggetto, specialmente se aprissero uno scambio di idee, possono essere
una risorsa. Lo saranno certamente per l’autore preso in esame. E’ per questo che volentieri pubblico qui, dopo quella di Narda Fattori apparsa nel
Luglio scorso (v.
QUI
), la recensione critica di Teresa Ferri al libro di Abele Longo, “Reversibilità”. Ne ringrazio l’autrice.
Come un mantra sacro: Reversibilità di Abele Longo
La copertina della raccolta di poesie di Abele Longo (Reversibilità, Calimera, Edizioni Accademia di Terra d’Otranto, 2012, pp. 98) fornisce
immediatamente un preciso percorso di lettura, grazie a due suoi elementi importanti, il titolo e l’immagine. Se il titolo va considerato come enunciato
programmatico del testo, secondo le ormai note indicazioni todoroviane, il disegno riprodotto, sia nella sua forma che nel suo contenuto, ci consegna la
chiave interpretativa dei versi a venire. La “reversibilità” allude a un rovescio, a un capovolgimento, mentre l’insetto dal sorriso sarcastico e dalle
fattezze quasi umane che campeggia al centro della copertina bianca della plaquette, nella sua originalità naïve, rimanda alla leggera ironia
sfumata d’amaro che pervade i versi. Vero e proprio accorgimento stilistico, è appunto questa risorsa retorica a condurre al ribaltamento semantico della
rappresentazione e delle connotazioni attese. Infatti non va trascurato che, come insegna Jauss, ogni testo configura e prevede un orizzonte di attesa,
un’attesa che questa scrittura sembra compiacersi di eludere fino ad andare a costituire un vero e proprio “testo di godimento”, secondo la celebre
definizione barthesiana. Il lettore viene strattonato dalla sorpresa e le sue aspettative circa la significazione vengono fatalmente eluse dalla scrittura,
che depista chi legge per immetterlo in un percorso singolare, in una rappresentazione non banale, insolita.
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