Venerdì, 30 novembre 2012
Una traduzione, più musicale che letterale, di un testo ironico, minore ma abbastanza noto, di Victor Hugo, tratto dalla raccolta postuma (1888) intitolata "Tutta la Lira" che Paul Maurice aveva ordinato, sulla base di alcuni manoscritti reperiti dopo la morte dell'autore, secondo una struttura a sette temi (o "corde" come quelle della lira, strumento musicale), quali l'Umanità, la Natura, la Saggezza, l'Arte, la Poesia, l'Amore e la Fantasia. Inutile qui richiamare la complessità e la poliedricità della figura di Victor Hugo, un gigante della letteratura del XIX secolo noto soprattutto, anche grazie alle numerosissime versioni cinematografiche e musicali succedutesi nel tempo, per i suoi "Miserabili" e per "Notre Dame de Paris" (ma occorrerebbe ricordare pure "L'uomo che ride" e "L'ultimo giorno di un condannato a morte"), ma anche drammaturgo, disegnatore, poeta, fervente pensatore politico, oratore e pamphlettista laico, riformista sociale combattente di molte battaglie.
Le mot
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La parola
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Jeunes gens, prenez garde aux choses que vous dites !
Tout peut sortir d'un mot qu'en passant vous perdîtes.
Tout, la haine et le deuil ! Et ne m'objectez pas
Que vos amis sont sûrs et que vous parlez bas.
Ecoutez bien ceci: Tête à tête, en pantoufles,
Portes closes, chez vous, sans un témoin qui souffle,
Vous dites à l'oreille au plus mystérieux
De vos amis de cœur, ou, si vous aimez mieux,
Vous murmurez tout seul, croyant presque vous taire,
Dans le fond d'une cave, à trente lieues sous terre,
Un mot désagréable à quelque individu.
Ce mot que vous croyez qu'on n'a pas entendu,
Que vous disiez si bas, dans un lieu sourd et sombre,
Court, à peine lâché, part, bondit, sort de l'ombre ;
Tenez, il est dehors ! Il connaît son chemin ;
Il marche, il a deux pieds, un bâton à la main,
De bons souliers ferrés, un passeport en règle ;
Au besoin, il prendrait des ailes comme l'aigle !
Il vous échappe, il fuit, rien ne l'arrêtera ;
Il suit le quai, franchit la place et cetera,
Passe l'eau sans bateau dans la saison des crues,
Et va, tout à travers un dédale de rues,
Droit chez le citoyen dont vous avez parlé.
Il sait le numéro, l'étage, il a la clé,
Il monte l'escalier, ouvre la porte, passe,
Entre, arrive, et railleur, regardant l'homme en face,
Dit: - « Me voilà ! Je sors de la bouche d'un tel. »
Et c'est fait. Vous avez un ennemi mortel !
Victor Hugo - extrait de Toute la Lyre, recueil posthume publié en 1888
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Giovanotti, attenti alle cose che dite!
Da una parola persa per la via, tutto
ne può uscire, lutto e odio, e non mi ribattete
ch'avete sicuri amici, e voi parlate basso.
Sentite questa: testa testa, in ciabatte,
a casa vostra chiusi, senza uno che spifferi,
voi dite all'orecchio d'uno dei vostri amici,
quello più misterioso, oppur, se preferite,
da solo bisbigliate, credendovi tacere,
in fondo a una cantina, a trenta metri sotto,
una parola amara verso qualche soggetto.
Questa parola - pensate - che non è stata udita,
che dicevate piano, in luoghi sordi e scuri,
appena mollata corre, scatta, esce dall'ombra;
ecco, è già fuori! conosce il suo cammino;
marcia, ha due piedi, perfino un bastone in mano,
buone suole ferrate, il passaporto a posto;
se servirà, d'un'aquila lei prenderà le ali!
Vi scappa, fugge, niente l'arresterà;
percorre piazze, segue marciapiedi,
supera senza una barca l'acqua d'un fiume in piena,
e va, va, attraverso un dedalo di strade,
dritto a casa di quello che avete menzionato.
Sa il numero, a che piano, ed ha la chiave,
monta le scale, apre la porta, passa,
entra, arriva e beffarda, guardando l'uomo in faccia,
gli dice: "Eccomi! Esco dalla bocca d'un tale."
Ed è fatta. Avete appena trovato un nemico mortale!
(Trad. G. Cerrai - 2012)
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Lunedì, 26 novembre 2012
A corollario della presentazione a Firenze il 16 ottobre scorso di "Trattato poetico" di Czesław Miłosz (Ed. Adelphi), di cui ho dato notizia QUI,
segnalo la pubblicazione su "L'ospite ingrato", rivista on line del
Centro Studi Franco Fortini, del resoconto, corredato da alcuni testi
del poeta, degli interessanti interventi dei relatori Alfonso
Berardinelli, Giovanna Tomassucci e Valeria Rossella, traduttrice
dell'opera. Ringrazio Giovanna Tomassucci della segnalazione.
Alfonso Berardinelli: "È certo (e non sono io a decretarlo) che il Trattato poetico
di Miłosz è uno dei poemi più potenti e labirintici del Novecento,
un’opera audace e insolita che non sa ancora dire se ha segnato un’epoca
della poesia europea o ne ha aperta una nuova. Probabilmente tutte e
due le cose: il bilancio del Novecento che viene compiuto nelle sue
pagine, una tappa dopo l’altra, una dimensione contro un’altra, ha
spinto l’autore alla costruzione di un modello formale che poteva avere,
e forse non ha ancora avuto, un’influenza sulla poesia successiva, non
solo polacca. Per fare un solo esempio, citerei, restando nel cuore
dell’Europa, almeno i due ‘poemi saggistici’ di Hans Magnus
Enzensberger, più giovane di Miłosz di quasi vent’anni e che esordì
esattamente nel 1957, l’anno di pubblicazione del Trattato poetico. Sia con Mausoleum che con La fine del Titanic,
entrambi degli anni Settanta, Enzensberger uscì dai limiti della
composizione breve e sperimentò il poema storico, fra narrazione e
interpretazione. Contro una poetica che era sembrata dominante, ma che
non esauriva certo le potenzialità dello stile moderno, Miłosz abolisce i
confini tematici e linguistici della poesia; (...)"
Giovanna Tomassucci: "Czesław Miłosz ha scritto il suo Trattato poetico
dall’esilio, tra il dicembre ’55 e la primavera ’56. Nella difficile
condizione di poeta senza pubblico, transfuga in una Francia ostile,
negli anni precedenti si era soprattutto dedicato alla prosa con il
saggio La mente prigioniera (1953), ritratto di vecchi amici convertiti allo Stalinismo, e il romanzo autobiografico La valle dell’Issa (1955). In quello stesso periodo si accingeva a scrivere uno dei suoi più bei libri, Europa familiare (1959, tradotto in italiano da Adelphi con il titolo La mia Europa),
atto di amore verso la sua terra natale, la Lituania, crogiuolo di
lingue e culture, che per l’Occidente continuava (ma oggi è forse
diverso?) a essere una ‘regione nebulosa’ su cui si ‘danno poche notizie
e se mai errate’.
Dopo la sua richiesta di asilo politico del 1951, molti compagni di un
tempo lo avevano duramente bollato di tradimento. In patria il suo nome
sarebbe rimasto all’indice quasi fino al conferimento del Nobel (1980).
Per raggiungere i propri connazionali, a parte certe equilibristiche
apparizioni (La valle dell’Issa verrà immediatamente confiscata
dalle autorità ancor prima di uscire in libreria), potrà solo contare
sulle edizioni dell’emigrazione di Parigi e Londra e più tardi sulle
quelle samizdat’. (...)"
Valeria Rossella: "Quando noi leggiamo, dico nella nostra stessa
lingua, compiamo sempre un’opera di traduzione, leggere non è mai un
atto puro. La traduzione da un’altra lingua non è che l’aspetto
macroscopico di questa contaminazione, pensiamo soltanto a come esista
un unico originale, e tante traduzioni, in tempi e in lingue diverse.
La traduzione, e soprattutto quella poetica, è dunque un sosia, ma non una copia: un gemello, che vive di vita propria.
Quando si affronta un testo scritto in una lingua molto lontana dalla
propria, aumenta esponenzialmente la responsabilità del traduttore che
diviene, per il lettore, l’unica voce del poeta.
In questo caso si tratta di affrontare con la splendida, ma anche
ingombrante armatura della sintassi italiana, la duttile e sgusciante
sinuosità di una lingua slava.
Miłosz qui usa l’endecasillabo, tranne che in alcuni frammenti, io ho
pensato di adottare una misura elastica, che si sviluppa modulandosi dal
doppio settenario all’endecasillabo. (...)"
(potete leggere il resto del dibattito su "L'ospite ingrato" - LINK)
Mercoledì, 21 novembre 2012
Supernova, di Fabiano Alborghetti (L’arcolaio 2011)
Il Poeta ha un appuntamento fisso con il dolore e anche se non è un credente leale non cela la ricchezza del suo rapporto arcano e spirituale con il mondo.
La morte, intesa come assenza, distacco, abbandono, passaggio, esalazione, sublimazione, nuova vita, è una poesia a metà come un crocifisso ancora vivo
inchiodato sul lato del cuore: nella bellezza di esistere si racchiudono concetti multipli e infiniti come i desideri o i fenomeni concettuali
legati all’assoluto. Nella poesia di Fabiano Alborghetti l’infinito e l’assoluto sono attestati nelle persone che soffrono e che forse ‘amano ciò che non vedranno una seconda volta’. Si tratta, dunque, di sguardi puntati sugli esseri umani e non sugli oggetti da possedere o
costringere: il progetto poetico è quello di unire le funzioni ordinarie biologiche al tentativo di opporsi e non astrarsi dalla realtà crudele del
destino. Estrapolare il senso non dai versi, ma dalla singola parola poetica come per sviscerare metafore che appartengono alla scienza psicanalitica:
sembra che ci si appropri del desiderio di appartenenza all’amore come un permesso alla libertà di esporsi con la pelle e la concettualizzazione del
pericolo del contagio mentale. E’ vero che ogni poesia è vittima del suo autore? (Yves Bonnefoy) Se così fosse ogni poesia è il fallimento della poesia, ma
il momento semplifica la testimonianza della coscienza e delle immagini che si riproducono, ogni volta, nuove. L’opera Supernova di Alborghetti
supera e sopravvive al surrealismo. Se la ‘stella nova’ esplodendo raggiunge una luce armoniosa considerevole il tempo nell’universo e la stessa galassia
contaminata dalla luminescenza folgoreranno la poesia. La poesia diventerà un tutt’uno con la vita e l’esperienza umana fino ad arrivare con semplicità
consapevole allo stupore emozionale: le cose che appartengono al dolore saranno connaturate di enigmi suggestivi e percettibili agli animi
prescelti.
Si tratta di un linguaggio poetico che non prescinde dalla filosofia interpretativa del simbolismo per immagini: Supernova rivaluta il concetto di
dolore come varco per arrivare alla saggezza dei propri limiti. (rita pacilio)
Continua a leggere "Fabiano Alborghetti - Supernova, una nota di Rita Pacilio"
Giovedì, 15 novembre 2012
Enrico De Lea, di cui ho parlato in un paio di altre occasioni qui su
IE, mi manda questo smilzo fascicoletto edito dall'Associazione
culturale "La luna" (2011), di cui è direttore letterario Eugenio De
Signoribus. Dieci brevi testi in tutto, una "sequenza poetica", come ama
chiamarla l'autore. Un termine ormai consueto nella poesia
contemporanea, che anch'io in altre occasioni ho adottato, che sta a
significare la rinuncia al poemetto, ad un'unitarietà che ormai non è di
questo tempo frammentato, e insieme la volontà di aggrapparsi ad un
filo di senso (o tòpico) che attraversa il nostro sentire e il nostro
scrivere e in qualche modo quei frammenti riconnette.
Dice De Lea, dimostrando una perfetta consapevolezza del suo lavoro:
"Sono testi - aventi come prestiti/pretesti fisici la costa e
l’entroterra dell’area ionica prossima allo Stretto di Messina - con cui
si tentano, forse da una distanza, profili di progressivi avvistamenti
ed avvicinamenti ad una terra-luce, attraverso una parola arcuata tra
passo collinare, bracciata e marea raggiunta o fuggita, un ossessivo,
costante identificarsi coi luoghi resi luce e con la luce resa lingua e
materia amata, una mitografla ctonia e naturale, in cui insiste anche la
storia personale e collettiva". Per altra via Enrico poi mi parla di
"fantasia di avvicinamento ai "luoghi" ".
Mi è sempre piaciuta questa idea di avvicinamento, perchè da una parte
suggerisce curiosità ed esplorazione, dall'altra implica un destino,
quello cioè - come nel paradosso dell'eleate Zenone - di un
raggiungimento della meta mai definitivo. Tòpos quindi per me potente, a
maggior ragione se lo si accosta al "luogo" (tòpos per eccellenza),
area (non necessariamente fisica) in cui l'uomo si riconosce e forse si
radica per sempre, costruendo quindi la sua propria "religio".
Il radicamento mi sembra una delle costanti di De Lea, anche senza
arrivare alla "ossessione" a cui egli stesso accenna. Ne avevo già
parlato, mi sembra, a proposito di altri suoi lavori (v. QUI),
in particolare "Ruderi del Tauro", in cui - dicevo - c'è (a livello
conscio e inconscio) una vera mitologia delle radici, dove tra l'altro
il linguaggio ha un ruolo particolare, legando e insieme tenendo a bada
le cose. Va da sé che ad ogni radicamento (od ossessione) corrisponde
uno spaesamento, un luogo anche mentale in cui si "sta" ma non si "è",
un luogo che si cassa accuratamente dalla propria poesia e forse dalla
propria biografia perchè la felicità è "laggiù" e "a quel tempo". E da
questo punto di vista la poesia di De Lea, se posso azzardare, è
decisamente antimoderna o se volete felicemente strapaesana.
Ma qui c'è anche uno sguardo "doppio", sia nel senso di cattura e resa
della "luce", sia del suo essere nel contempo esterno e interiorizzato,
nonchè diacronico, poiché la distanza geografica o quella dislocazione che
segnalavo in "Ruderi" spostano l'esperienza nel tempo e agiscono
potentemente sul nostos e sul mito. Al doppio occhio, quello fisico e
quello non solo memoriale e "distante" ma che (anche) rielabora in
soggettiva, bastano lacerti di realtà o vaghe suggestioni percettive per
imbastire un quadro solidamente intramato con il linguaggio. Un occhio
che non disvela frammenti di concretezza o li usa come correlativi
oggettivi, ma che semmai ingemma quei frammenti in un pensiero o appunto
in una nost-algia, che alla fine non è di De Lea ma è universale poichè
il lavoro di "fasciatura" nel linguaggio degli elementi ispirativi è
così accurato che l'io, in questi testi, si eclissa del tutto.
Continua a leggere "Enrico De Lea - Da un'urgenza della terra-luce"
Sabato, 10 novembre 2012
“Il ricercare non significa nulla. Trovare, questo è il vero problema. Chi trova qualcosa, non imposta cosa, anche se la sua intenzione non era di
cercarla suscita in noi curiosità se non ammirazione. Quello che dipingo è il mostrare quello che ho trovato, non quello che stavo cercando. In arte le
intenzioni non sono sufficienti, conta quel che si fa, non quello che si ha intenzione di fare.”(
Picasso , Scritti)
Guernica, 1937
(attraverso le fasi fotografiche del suo sviluppo)
Picasso: “Potrebbe risultare interessante fissare fotograficamente non le fasi d’un quadro ma le sue metamorfosi. Forse ci si renderebbe conto delle strade
che segue il cervello per realizzare il proprio sogno. La visione iniziale rimane quasi intatta nonostante le apparenze.
Penso spesso a una luce e a un’ombra. Quando le ho messe in un quadro mi esercito a “romperle” aggiungendo un colore che crei l’effetto contrario, quando
poi il quadro viene fotografato mi rendo conto che in fondo l’immagine ottenuta dalla fotografia corrisponde alla mia prima visione, precedente le
trasformazioni apportate dalla mia volontà.”
“Un quadro non è mai pensato o deciso anticipatamente, segue il mutamento d’un pensiero, quando è finito continua a cambiare secondo il sentimento di chi
lo guarda. Vive una propria vita come una persona, subisce i mutamenti di cui la vita quotidiana ci sottopone” [1].
Il bombardamento del piccolo paese basco di Guernica raso al suolo durante uno degli episodi più sanguinari e violenti della guerra civile spagnola
all’opera di forze d’aviazione nazista alleate al nascente regime franchista si trova alla genesi dell’immenso murale dipinto dall’artista nel 1937 per
l’Esposizione internazionale di Parigi. Dora Maar, fotografa e compagna di Picasso all’epoca, segue attraverso una serie di stampe fotografiche l’evolvere
progressivo dell’opera nel corso dei mesi, l’imposi dei suoi crescenti valori cromatici cupi, dei forti contrasti chiaroscurali, il raggiungimento della
sua piena intensità drammatica. Lo sguardo incrociato tra elaborazione pittorica e trasposizione fotografica, il dialogo ininterrotto tra i due medium,
sancisce chiaramente una genesi mista, picto-fotografica per l’opera.
Continua a leggere "Picasso, un universo di pittura - di Elisa Castagnoli"
Lunedì, 5 novembre 2012
Pubblico qui una nota di Daniele Poletti come introduzione a pochi testi di Augusto Blotto, poeta magmatico, tellurico, anzi diluviale, fin troppo sconosciuto nel nostro paese. Con la prospettiva, spero, di poterci occupare quanto prima in maniera più diffusa di questo "radicale [capovolgitore] del conosciuto, dell'atteso, del normale", secondo le parole di uno dei suoi estimatori. Un poeta che mette alla frusta non solo il linguaggio e la sua capacità eidetica, ma anche il nostro comfort di lettori. (g.c.)
Per Augusto Blotto (Torino, 1933), sono stati usati ormai innumerevoli e pertinenti epiteti e aggettivazioni, da critici come Stefano Agosti, Giorgio Barberi Squarotti, Sergio Solmi, Giovanni Tesio, Sandro Montalto, etc. E, se conoscendo la persona e l'opera, la definizione più immediata e calzante è quella di "uomo di sfide e dismisure" (Giovanni Tesio), vogliamo qui introdurre, in una visione diacronica, la figura di Blotto come uno dei grandi "esclusi" della letteratura italiana. Si badi bene, nessun tono commiseratorio in questa affermazione: Blotto, a un certo punto del suo itinerario poetico, si è autoescluso dall'ufficialità della cultura; ma il resto è stato fatto dai grandi poli di aggregazione intellettuale (neoavanguardia inclusa e su tutti), che hanno proceduto su sentieri ben definiti, rispondendo a un'idea quasi preordinata di ricerca, e non rimanendo in ascolto (o avendo timore di farlo) di una certa eterodossia letteraria di cui Blotto fa parte. (Per inciso si può ricordare anche il caso di Alberto Faietti o per aspetti diversi di Lucio Saffaro e Emilio Villa). Senza timore di esagerare si potrebbe affermare che Augusto Blotto sta alla poesia come John Cage sta alla musica: c'è un prima e un dopo di loro. Senza sottrarre importanza a ciò che ci hanno lasciato Zanzotto, Cacciatore, Ruffato, Guido Ballo anche (da tornarci su), per citarne solo alcuni, ma tentando di darne un pò di più, di importanza, al Blotto innovatore e "trovatore" della lingua poetica italiana. Sì perché come ama ricordare l'autore "nella mia poesia non cerco/ricerco, trovo". La poesia di Blotto è un canto molto articolato di ciò che viene trovato sulle strade percorse in metri e chilometri. Una topografia del reale forgiata nel crogiolo di soluzioni linguistiche inusitate, inaspettate, nella gamma quasi sterminata dell'invenzione espressiva. Per forza d'urto, di fronte ai versi blottiani, saltano le convenzioni e le convinzioni, perché ci si trova di fronte a qualcosa di inaudito. La spericolatezza sintattica si lega a forme idiolettiche -sempre però riconducibili al dizionario, mai autoreferenziali- che cercano strenuamente di individuare in modo più preciso il senso del percepito; verbalizzazioni, sostantivazioni di parti recondite della lingua, ma anche dell'inconscio, creano un'amalgama musicale dodecafonica, più spesso atonale, che fa dell'opera di Blotto una delle espressioni più avanzate della ricerca (in questo caso va detto) poetica. Il contributo decisivo a questo stato della poesia è dato dalla struttura instancabilmente simultaneista, il montaggio intersecato di percezioni attraversate, che porta alle estreme conseguenze la tecnica del cut-up e della visualità della scrittura, proprio perché attuata secondo un'architettura rigorosa e post-endecasillabica. Il risultato non risente di alcun intellettualismo, l'uso frequente del registro basso e comico e di scelte lessicali "impoetiche", contribuiscono alla determinazione dei versi di Blotto come una registrazione quasi pedissequa del reale. Raymond Queneau insegna che esistono 99 modi diversi per raccontare la stessa cosa, probabilmente Blotto è il n°100: modo del non dire, suggerimento, evocazione, traslazione. Tutto questo concentrato in 60 anni di scrittura e quasi 20.000 pagine di poesia, tra editi ed inediti. "Uomo di sfide e dismisure", appunto.
daniele poletti - novembre 2012
Continua a leggere "Augusto Blotto - A piene mani, con una nota di Daniele Poletti"
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