Lunedì, 29 ottobre 2012
Giulio Maffii - L'odore amaro delle felci, prefazione di Elio Pecora - Edizioni della Meridiana, 2012
Un libro che rende al termine "lirico" il suo risarcimento: una forma
di espressione ancora estremamente vitale, feconda, capace di fini
corrispondenze tra autore e lettore, e soprattutto plastica, flessibile,
rinnovabile. Sembrerebbe la cifra principale di questo libro di Giulio Maffii,
vincitore del Premio Sandro Penna 2011, ma naturalmente c'è altro. Qui
non ci sono certi ripiegamenti, almeno dal punto di vista - canonico,
soprattutto novecentesco - che generalmente si ha della lirica. Quel
molto che c'è di émpito lirico è felicemente "impuro", esposto come è ad
una meditazione serrata sulle cose e sul mondo che non ammette
linguaggi ermetici o allusivi, o ricorsi ad eccessi simbolistici. "Una
poesia che non grida né incendia - dice Elio Pecora - piuttosto con
parole chiare arde di un fuoco mite e durevole". Per Maffii il discorso
poetico è eloquio, nel senso più nobile del termine. Esplicitazione cioè
di un pensiero che, prendendo le mosse da quelle (apparentemente)
semplici constatazioni che solo il poeta sa cogliere, egli sviluppa con
una lingua articolata e ricca che indica al lettore significati
ineludibili e insieme ne suggerisce altri più segreti. Maffii non
"constata" semplicemente, non si limita a registrare, per quanto
poeticamente, il suo stare nel mondo. La sua, direi, è una poesia reattiva. Dice
Pecora giustamente, "non si addice la condizione di perenne deluso", a
lui come a tutti i poeti. A tutti i poeti veri, aggiungerei, nei quali
l' "inquietudine" non è, se mi si passa il bisticcio, quietismo poetico o
lamento, ma ricerca di "soluzioni" o risposte. E' questa una della
ragioni della mobilitazione della poesia, di quella "resistenza" di cui
spesso si parla a vanvera. Anche in questo a mio avviso risiede la cifra
umanistica di questa poesia. In uno come Maffii anche le parole rare o
desuete (v. più sotto "nella colza") non sono selezionate, magari al
fine di stupire, in un postmodernariato consunto, ma rimandano a una
civiltà dell'uomo, ad un umanesimo "brace", mai - per fortuna -del tutto
spento. Così tutto, in questo bel libro, si trasfigura in esperienze di
humanitas: la riflessione sul tempo, il pensiero della morte
futura e passata, il semplice attraversamento di un campo, il volo della
mente dal mero evento naturale alla speculazione sull'esistere oppure,
sulla scorta della poesia di Margherita Guidacci posta in esergo, la
coscienza della responsabilità di chi tenta con qualche sforzo di
preservare la bellezza in questo mondo di "telchini", gli antichi demoni
della mitologia greca, cui "la loro ignoranza li ravvolge / di
fittissima nebbia".
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Martedì, 23 ottobre 2012
Da un po' di tempo ormai amo leggere i libri di poesia cercando di estrarvi
una campionatura, un significato che vada al di là della mera
testualità, una direzione, un'idea del futuro. Procedo per estrazione,
spuntando quello che non solo mi piace ma che anche indica un'idea,
un'intenzione, una volontà dell'autore di andare oltre l'immagine -
magari mitica - che egli ha della poesia (e della parola) come attività
del tutto peculiare.
Apro il libro di Gabriele Gabbia, un giovane
esordiente ("La terra franata dei nomi", prefazione di Mauro Germani,
L'arcolaio, 2012). In questa raccolta. i cui testi hanno una numerazione
progressiva che travalica le sezioni, e quindi un continuum, la prima
sezione "Diatribe dal ventre", dovrebbe forse essere la carta di
presentazione delle intenzioni, se non della poetica, dell'autore, o di
quello che seguirà nel libro, o del significato del suo misterioso
titolo. La prima impressione che intanto ne derivo è come di uno scaldarsi i
muscoli, di sperimentare lo strumento parola, con qualche spinta a
tentarne i lati oscuri o criptici o "nuovi" (ma la parola - sempre - non
è mai "nuova", ci è stata consegnata, è semmai rinnovabile).
In questo Gabbia non sarebbe diverso da tanti altri giovani che
ritengono che la formazione dello stile passi attraverso la ricerca -
anche a costo della rottura di certi nessi "sociali" - di una
originalità prima di tutto linguistica. Ma intanto da questa prima
sezione traspare l'idea. Cos'è "la terra franata dei nomi"? Da quello
che si percepisce, un concetto più nihlista di quello del Bernard de
Cluny (stat rosa pristina nomine...) citato da U. Eco: il
legame tra le cose e la loro identità di nomi è spezzato per il poeta
fin dalla nascita (fin dall' "impasto ventrale") che appare segnata -
nota Germani nella prefazione - "dalla contraddizione e forse da una
terribile casualità", i nomi che stringiamo tra le dita non hanno più
nulla di "pristino", la terra di mezzo in cui dimoravano felici non
esiste più. Ne consegue che "Dove non c'è dove / ogni cosa / è radice
d'abisso". Ne consegue anche, direi, che si perde la funzione storica
dei nomi, il loro valore memoriale. Tra nomi e cose (ecco che alfin si
palesa) c'è quindi il nulla.
"Nulla", con le relative isotopie, è uno dei vocaboli più presenti in
questo libro. Ci si può domandare con qualche sgomento che cosa conduca
un giovane a un "nulla" certo non mistico. Se contemplare il nulla
(anche come oggetto poetico) è una resa o una scorciatoia, si può dire
per paradosso che il nulla nasconde qualcosa, o del reale o dell'autore.
Germani acutamente cita Jabès: "la scrittura non è mai una vittoria sul
nulla, ma l'esplorazione del nulla attraverso il vocabolo". Ecco qua,
ecco che ci si inoltra nel libro. La scrittura, che nella prima sezione
sembrava rigirata tra le dita, per quanto abilmente, come un giocattolo
nuovo, riprende il posto che le compete, la sua funzione analitica,
l'esplorazione di quel poco di realtà (dolorosa, vissuta, tangibile) che
pure sarà sopravvissuta in questo nulla. Certo, sono frammenti,
lacerti, lembi, brani (come afferma il titolo di una delle sezioni),
come si conviene a una poesia che si colloca nel solco ormai canonico
della crisi (ne usciremo mai?), che prende atto ancora una volta di una
collocazione fin troppo periferica dell'uomo rispetto alla sua stessa
esistenza. In quanto lacerti i testi sono brevi, sintetici, in molti
casi come stele; se la parola viene infine trovata "tu / non gualcire
quella parola", dice Gabbia, perchè non molte altre ci son date, con
quella dobbiamo innervare nuove radici. Poesia del poco, della
parsimonia. Ma i lacerti ci sono, e ci testimoniano che il nulla in
verità è popolato dai brandelli di realtà a cui solo la coscienza ha
dato un senso durante la nostra esistenza. La parola finalmente si
aggancia ad essi, vi si àncora, si ricarica di senso, e così facendo illumina gli angoli.
Talvolta è il corpo ("un ceppo", "vascello abbandonato") il terreno su
cui la coscienza forse recupera il sé, forse si dimostra fallace,
talvolta lo strappo di perdite o il confronto di un io disperso,
esistenzialisticamente conflittuale con gli altri, la voce lontana della
madre che intona le sue preci, il padre la cui assenza è come un'orma
in un'auto vuota: niente altro che "spettri", come titola un'altra
sezione, ovvero presenze o ombre non dissimili da quelle proiettate
sulle pareti della caverna platonica. Se qualcosa resta, nel nulla, è
solo per quei nomi che è stato possibile salvare.
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Lunedì, 15 ottobre 2012
Ricevo e pubblico volentieri questa nota di Narda Fattori, che ringrazio, sull'ultimo libro di Lucetta Frisa. Il testo è già apparso su La poesia e lo spirito lo scorso 1 Ottobre.
Lucetta Frisa, L’emozione dell’aria, CFR
La musica è vibrazione d’aria, aria che si piega, corre su precipizi, sprofonda, risale, volteggia lieve come una farfalla, sfugge alla presa, capitombola,
si muove elegantemente come i cavalli al dressage,…, molto concisamente, forse superficialmente, la musica è aria che emoziona e ci trasporta
dentro, fuori, adagio, solenne, allegra, andante…
Lucetta Frisa si fa penetrare da questa emozione e, mutando il ritmo, il timbro e la melodia, varia il suo dettato, il contenuto dello stesso che può
elevarsi, ma mica poi tanto, perché la musica, arte sottile e matematica, trascende la quotidianità ma mai l’individuo perché di esso è prodotto, arte e
non merce, e quindi è una grazia e una bellezza o un dramma e un abisso che gli restituisce la possibilità creativa, quel prezzo terribile che paga da
quando volle mangiare all’albero della conoscenza. Il titolo stesso è una azzeccata sineddoche: è la persona che si emoziona alla vibrazione dell’aria
nella musica.
Lucetta Frisa ha già trasposto elegantemente le emozioni suggerite da dipinti famosi e anche da essi, in una felice contaminazione artistica, si è fatta
penetrare, è entrata in dialogo.
Con la musica non si può dialogare, puoi solo assumere la disposizione più consona all’ascolto: tecnico se sei musicista, intimo, intrapsichico se sei
poeta.
Ecco come ce lo dice: “voci/ voli/ fiato/ di chi ama o muore/ l’emozione dell’aria trova il suo alfabeto.” È un alfabeto che si può ascoltare, con
il quale, però, non si può interloquire. L’eloquio è fra sé e sé, fra sé e gli altri. La Frisa può dirlo con questa intensità:
“Se i suoni sono specchi
di un detrito astrale
chi evocano
invocano
quale visione
o profezia?
E a noi tocca solo il dolore
o sordità?
se il canto di sirena incantò il tempo in pietra
le nostre voci
affondano
nei vuoti abbandonati
degli astri
……”
Porgiamo un attimo di attenzione alla spaziatura dei versi che, mi pare, cerchino di imitare la disposizione delle note sul pentagramma; la loro apparente
irregolarità è in realtà il loro pregio, la musica che suonano, il ritmo che vibra nella loro scrittura, il fiato , il respiro.
Ma torniamo ai versi: che sa l’uomo di questo suo miracolo, pur essendone l’artefice? Può essere che la profezia che vibra sia diventata incomprensibile e
qui si stia nel dolore e nella sordità?
Se il canto delle sirene trasformava gli uomini in pietre, ora sordi, si cattura il vuoto fra gli astri e, ben sappiamo che il vuoto è molto maggiore del
pieno.
Ecco che la musica apre le porte della riflessione intrapsichica, emozionale, anche filosofica.
“ la musica lascia una scia
d’aria
ed ombra
dov’è il centro?
è solare vento
che a caso muove il nulla
le sue figure?
nella polvere fu concepito il fremito tellurico
ma nell’atmosfera tutto sembra immobile e muto”
Lucetta procede nel suo ascolto che proietta fuori di sé scienza e coscienza, soprattutto molti interrogativi senza risposta, che non hanno risposta.
Tutta la prima sezione, intitolata Basso ostinato si fa carico delle domande “impossibili” e giunge, inevitabilmente, alla fine del
personale (umano) percorso dell’uomo che passerà oltre la Turbolenza e, contrariamente al razionale e percepito, il ponte è un taglio che ci unisce al buio e resteremo con una fame inesausta di musica che dovrebbe sprofondare con le sue partiture sotto la
nostra stessa crosta e ci porteremo via minutaglie, le cose di tutti i giorni, tutti i giochi, gli inganni.
La musica, così amata e cosi violentemente amante, ci abbandonerà alla sordità, la terra ne sarà abbandonata.
Questa prima sezione del libro, che ha la struttura di una fuga di Bach (però da inesperta, non vorrei azzardare nessuna analogia) è anche la più aspra e
solenne e il titolo è ben accordato: basso, come il ridere del grillo, forte come la lingua del tuono ( versi di Emily Dickinson), ostinato,
niente fughe ma scavi, ascolti, echi, rimandi, rifrazioni e qualche riflessione.
Poesia coltissima, attenta, controllata ma anche dolente, amara, senza alcuna forma di consolazione. La sezione che segue, Les amusements,
ci accompagna verso musica diversa, se non proprio divertente come promette, capace di penetrare e assolvere le minuzie, le sofferenze, gli antri oscuri
del transito umano. Ogni poesia porta il titolo del brano e il nome dell’autore (Schubert, Chopin, Ravel, Brahms, Rimsky-Korsakov, Bartòk, Astor
Piazzolla,…); musica diversa per tempi diversi ma la non contemporaneità dei musicisti offre la possibilità di raccontarsi, perché questo osa talvolta
Frisa, in modi e con timbri spurgati dall’emotività:
“[…] ora tu suoni
per me per noi
per questa casa saturnina che a ogni nota
si frantuma un po’ di più
[…]
impari e dimentichi
impari e dimentichi
e non smetti mai di suonare.
La terza parte, più breve, intitolata Peace Piece, si sposta con indifferenza fra la musica da camera a quella blues e jazz, ma non sono
indifferenti i temi: in queste poesie Lucetta Frisa esce da sé per guardare gli altri, gli altri come persone e non come mondo, cioè convitati ad una mensa
amara.
E per i bambini, per il loro rispetto, per il loro affetto, per evitare loro le escissioni dei sogni e i morsi della vita, dice” abracadabra/ se potessi”
Ma non c’è magia che tenga, se non questi bellissimi versi che possono solo restituirci un po’ d’umanità.
La dolenzia non è disamore , è troppo amore per la bellezza che si vorrebbe pura come nell’arte e diffusa invece le brutture scorazzano nelle contrade del
mondo e se ne sono impadronite.
Narda Fattori
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Mercoledì, 10 ottobre 2012
Pubblico in calce un componimento scelto da Trattato poetico di Czesław Miłosz (Adelphi, 2012 - Traduzione di Valeria Rossella) in occasione della presentazione che avverrà a Firenze presso la Fondazione Il Fiore, Via di San Vito 7, Martedì 16 ottobre 2012 alle ore 17.00. Gli interventi saranno di Alfonso Berardinelli, Valeria Rossella (poetessa e traduttrice del libro), Giovanna Tomassucci (docente di Letteratura Polacca all'Università di Pisa). La locandina dell'evento, completa anche di indicazioni stradali, è reperibile QUI)
Tra l'inverno del 1955 e la primavera del 1956 Czesław Miłosz
dà corpo alla sua originale concezione della poesia in una vera e
propria sfida letteraria: un grande poema che, eludendo le cornici di
genere e arricchendosi di elementi prosaici o colloquiali, mescolando
citazioni eterogenee, imitazioni letterarie, valutazioni critiche ed
enunciati filosofici, delinea un vasto affresco storico-culturale del
Novecento polacco, tassello imprescindibile della storia europea. Un
affresco che si compone di quattro parti, evocative di altrettanti
scenari: il mondo della belle époque nella Cracovia di inizio secolo; la
vita politica e artistica di Varsavia tra le due guerre, con ampie
digressioni sui poeti del tempo; le devastazioni della seconda guerra
mondiale e gli orrori dell'occupazione nazista, con la rivendicazione
di una poesia capace di giudizio etico; la Natura e in particolare
l'ambiente degli Stati Uniti, in cui Miłosz, dopo aver contemplato
l'abisso in cui sono precipitate le culture europee, individua la
dimensione ideale per trovare serenità ed equilibrio, senza peraltro
sottrarsi al dovere di condividere con i fratelli polacchi le questioni
cruciali del XX secolo. Il Trattato poetico ha la forza
espressiva di un grande romanzo storico, l'intonazione nostalgica di
un poema sul tempo perduto, il suono straziante di un requiem in morte
di un'epoca, l'accento pacato di una meditazione sulla storia,
sull'arte, sulla coscienza individuale. E anche le Note dell'Autore
che chiudono il volume si rivelano una splendida creazione
letteraria: un mosaico di schizzi e ritratti in miniatura che, come per
magia, ricreano il mondo di una ormai lontana Europa. (dal risvolto di copertina)
(...)Dalla ‘piccola Cracovia, come un uomo dipinto’ a Varsavia, ‘città estranea su una piana sabbiosa’, i toni della poesia cambiano. Si fanno più malinconici e raccolti, ricchi di un peso che si fa man mano più grave: “eh
no, lettore, non abiti una rosa / questo paese ha suoi pianeti e fiumi /
ma è fragile come il lembo del mattino. / Lo ricreiamo noi giorno per
giorno / stimando più ciò che è reale / di ciò che è irrigidito in nome e
suono. / Al mondo lo strappiamo con la forza, / troppa facilità non lo
fa esistere. / Di’ addio a ciò che è scomparso. Ne giunge ancora l’eco. /
A noi tocca parlare in modo rozzo e aspro”. Si percepisce nei
versi il rimpianto di non poter più parlare della natura, del semplice
succedersi delle stagioni, per non tradire l’impegno politico richiesto
dalla propria terra.
Finché Miłosz non risolve il conflitto con un ultimo, nostalgico gesto. Scriverà nell’ode conclusiva: “molto,
molto ci sarà rimproverato. / Perché, pur potendo, rifiutammo la pace
del silenzio / […] Invece volevamo smuovere ogni giorno / la polvere dei
nomi e degli eventi / con le parole, poco badando al loro / e nostro
svanire, scintillando”. Non può far riposare lo sguardo sul paesaggio americano che lo circonda, anche se la tentazione di “costruirsi per sempre una casa nella Natura”
è forte; c’è un luogo a cui tornare sempre, e nel momento in cui gli
uomini reinventano continuamente i confini geografici, è la mappatura
emotiva a ridefinire l’idea e l’anima stessa di una patria. (da una nota di Chiara Condò - Fonte: Cabaretbisanzio.com)
Altre cose di e su Milosz QUI
Continua a leggere "Czeslaw Milosz - Trattato poetico, presentazione"
Sabato, 6 ottobre 2012
Teresa Ferri - Precipizi di luce, Dialoghi con Aligi Sassu - Interlinea, 2012
La pittura è poesia silenziosa e la poesia è pittura che parla,
dice Simonide nell'epigrafe a questo libro. Due delle arti che non si
sono incontrate molto spesso, a parte qualche eccezione che possiamo
trovare anche su questo blog (v. QUI e QUI).
Linguaggi diversi, che richiedono al fruitore sensibilità diverse, e
che hanno tra loro un rapporto per così dire sbilanciato, anche se ci si
limitasse al banale fatto che la pittura propone l'immagine a chi guarda, la poesia deve suscitarla
in chi legge, la prima usa la luce (una luce che precipita, dice
Ferri), la seconda la voce. E che diversi tra le due espressioni sono la
libertà di interpretazione che lasciano al destinatario, nonchè il loro
contesto artistico, il loro porsi nei confronti del mezzo, del luogo,
dello spazio.
La "traduzione" in versi di un'opera figurativa non è facile. Gli
approcci possono essere molto diversi, e alcuni di essi sbagliati: la
soggezione nei confronti dell'opera stessa, la tentazione di
"parafrasarla" o di darne una versione in versi didascalica, o peggio
ancora di "verbalizzarla", spegnendone di fatto le suggestioni più
preziose. Oppure, di converso, se ne può raccogliere a cuore aperto
l'ispirazione, lasciarsi possedere, trarne qualcosa di vitale, di
artisticamente diverso ma non distante, qualcosa che "risuoni" anche
senza usare l'immagine come testo a fronte. Insomma un altro oggetto
d'arte che nasce da una catena di suggestioni, analogie, associazioni
del pensiero, echi della mente o del cuore, e anche dalla apprezzabile
ambizione di gettare un ponte quasi sinestesico tra due modalità
espressive.
Mi pare di aver rinvenuto queste ultime qualità in parecchi dei testi di questo libro di Teresa Ferri,
libro che è nato da una vicinanza, da una prossimità non solo
geografica ma anche sentimentale: la raccolta di oltre 200 opere di Aligi Sassu
che il collezionista Alfredo Paglione ha donato ad Atessa, città natale
di Teresa, e che è ospitata nel palazzo che fu della famiglia Ferri. Ne
è uscito una sorta di inconsueto catalogo poetico, un "come lo vedo io"
molto personale, in cui 50 tavole di Sassu trovano riscontro in
altrettanti testi, in essi si riflettono e da essi ricevono un riflesso
di parole, qualche nuova chiave interpretativa delle implicazioni
metaforiche o di quel limes tra mito e realtà, tra antico e moderno così caro a Sassu.
Continua a leggere "Teresa Ferri - Precipizi di luce"
Mercoledì, 3 ottobre 2012
Una recensione di un romanzo, per una volta in mezzo a tanta poesia, che ricevo da Narda Fattori e che pubblico volentieri.
Anna Rosa Balducci, La casa color grigioperla, Edizioni Progetto Cultura.
“C’era una volta…”: no, non inizia così il bel romanzo di Anna Rosa Balducci; c’è stato, c’è ancora, un barcone di naufraghi in fuga da fame e guerra che
ha affrontato il mare inconosciuto e periglioso per sfuggire ad un destino che non ha storie, ma finali.
Dal barcone quattordici personaggi sbarcano su un lido ignoto ma inconsueto: non siamo a Lampedusa, a Mazara del Vallo, a Otranto; qui c’è un Adriatico
quasi lagunare, qui c’è un Adriatico che non reagisce alla loro intrusione, un po’ perché da sempre accogliente, un po’ perché distratto e poco interessato
a chi non ha denari da versare. Si capisce abbastanza presto , specie per chi abita questi territori, che siamo a Rimini, in autunno. Dopo un giorno
smarrito sugli scogli, appare un rifugio: una casa lì a due passi, abbandonata e vuota, quasi in attesa della piccola comunità di rifugiati di colore: due
vecchie, due vecchi, due giovani donne, due giovani maschi e cinque bambini, tre orfani e due figli “regolari”; anche i bambini sono differenziati per
carattere e sesso, due femmine e tre maschi , un microcosmo che riflette il macrocosmo.
L’autrice all’inizio, soprattutto, gioca con diversi punti di vista, che non mi pare contribuiscano a dare originalità alla storia, perché il linguaggio
rimane uguale, e il punto di vista si riduce a un commento, non molto di più. La storia è affidata ad un narratore esterno, onnisciente, che conosce gli
antecedenti e forse anche il finale, anche se non lo lascia trapelare. E’ un narratore attento, specie a quanto differenzia i singoli; per quanto riguarda
il confronto con i pallidi cittadini chiaramente esprime che vede soprattutto somiglianze. Come dev’essere fra umani.
Ci viene detto che la comunità viene da un paese africano scombussolato dalla guerra, eppure abbiamo un missionario cattolico che lì si è insabbiato con un
altro bianco misterioso e insieme portano avanti un ospedale, una scuola. Sono figure quasi mitiche, fiabesche sicuramente. Ma entrano a pieno diritto
nell’inframmezzarsi di parole e molti silenzi, silenzi non ritrosi, ma di rispetto, di individuazione.
Già da subito leggiamo l’irruzione della fantasia: il missionario che non è mai tornato in patria, quattro vecchi che decidono di emigrare e sono solo in
attesa della morte; forse rappresentano lo spirito di un mondo antichissimo e lontano che abbiamo sopraffatto ma che non vuole cedere lo scettro della
dignità..
Le due giovani donne sono la forza e la fermezza, sono figure amorose ma non oppressive e non timide o represse; dei due giovani uomini, quello non sposato
ha studiato medicina, l’altro ha imparato le abilità del tirar su case e ponti, cose solide e durature.
Nessuno li disturba nella pacifica convivenza; sono i bambini che per primi affrontano la nuova realtà, creano il primo legame, poi il giovane dottore che
voleva frequentare l’Università di Bologna, per fregiarsi del titolo con la piena competenza derivante, finisce a curare gli ultimi in un ambulatorio
precario e volontario. I bambini, soprattutto, i maschi sono disegnati a tutto tondo, curiosi, pieni di talenti nel corpo, nelle mani, nelle menti.
Poi la storia vira improvvisamente sul fiabesco: l’arrivo di una signora ammalata che vuole godere della loro pacifica compagnia e lasciare qualcosa di suo
ad altri : sarà la cura della pittura per un bambino, l’offerta del denaro per sollevarli dal rischio dell’ elemosina. Infine , con la sua morte,
arriveranno gli agi di una casa da sentire propria, dove vivere e legare il filo della vira che dura, proprio quando lei se ne va.
Il dottore si è innamorato, la vita riprende il suo ciclo.
Non ha un inizio fissato nel tempo, né un finale che chiuda perfettamente il cerchio.
Perché la vita non ha un chiaro inizio né una altrettanta chiara fine: siamo come quanti ( in fisica) che si incontrano, si intrecciano , si lasciano,
creano. Intanto nella storia irrompe la primavera…
E’ un bel libro , questo di Anna Rosa Balducci: un libro che ti invita alla lettura e quel tanto di fiabesco sfuma la pesantezza e l’ammasso del dolore che
le storie di migranti portano con sé.
Ci fa, noi lettori, diventare più buoni, più generosi, più innocenti.
Bastasse un libro….
Narda Fattori
Anna Rosa Balducci
è nata a Rimini nel 1952. Laureata in Lettere Moderne a Bologna, insegna materie letterarie. Scrive da sempre e ha
ricevuto diversi riconoscimenti nei Premi letterari ai quali ha partecipato. Ha pubblicato articoli e interventi su quotidiani e riviste; la raccoltaLa balena e altri racconti (2002); il romanzo Pane a colazione (2007), oltre ai libri di fiabe Pupaz zi, nani, re e anche un tre (2004) e Girasole e altre storie (2010).
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