Giovedì, 27 settembre 2012
Giacomo Leronni - Le dimore dello spirito assente - Puntoacapo, 2012
Q uesta non è una critica e nemmeno una recensione. E' piuttosto una
serie di riflessioni di lettura che prende occasione (e l'autore mi
perdonerà) da un libro non facile, a tratti petroso e lunare, che
domanda a chi lo legge un'attenzione pressoche totale.
Un libro che guarda al cosmo insondabile della parola, o meglio a
quanto essa possa essere sondabile a piacere, senza arrivare mai -
almeno definitivamente - a una meta (cioè, spesso, a dire cosa). E'
l'etremo rammarico di ogni poeta.
Il limite della poesia sta (o molti sono convinti che stia) nella
estrema plasticità del linguaggio che usa per statuto. Qui "limite" lo
prendo nella sua accezione meno eroica. E' quello cioè in cui sbatti il
naso e ti fermi, guardandoti in giro irrelatamente, e NON quello in cui invece getti
il cuore oltre l'ostacolo e scali la montagna come Messner. E' il
limite quindi oltre il quale la parola, come un diamante su cui si tenta
l'ennesima sfaccettatura, perde la sua funzione e si sbriciola. Può
darsi che diventi rappresentazione dell'implosione dell'universo, o
della sua dissipazione entropica. E questo universo, esattamente come in
un racconto di Asimov, può essere infinitamente grande o infinitamente
piccolo, stellare o mentale. Ma la comunicazione con il lettore diventa
come quei segnali radio che arrivano dal cosmo molti anni dopo che sono
stati generati. C'è necessità di decifrare.
Leronni è abile ad esplorare i confini, il limite di cui si parlava.
Prende l'evento (termine per ora indefinito) e lo proietta sulla volta
del linguaggio, su una griglia dove egli opera una selezione (per dirla
con Jakobson) di parole, ne elude, sempre per rimanere in tema,
l'equivalenza, nonchè le ricombina in un suo personale sistema
metaforico. Per dirla in due parole, l'imperativo sembra essere
l'aggiramento della "norma", assumendo qui il termine in senso lato.
Mi sembrava di avere colto in questa poesia qualche indizio:
Lo descrivo il colore
e s'incaglia
poi di soppiatto
rientra nella norma
la tentazione di captarlo
lo incarcera
la voglia che lo addita
lo annulla
richiamo la pupilla
ritiro la tovaglia del senno
lo lascio allora
spoglio, il colore
innegabile.
A me pare che Leronni descriva bene il procedimento di come si faccia a
liberare poeticamente l'evento (colore, amore o qualsiasi altra cosa ci
ispiri) dalla gabbia delle parole. E' abbastanza superfluo parafrasare
il testo, nella sua pulita linearità, ma notiamo almeno un paio di
cose: il tentativo di afferrare l'evento, di descriverlo, il desiderio
di connotarlo dapprima fallisce, rientra nella "norma" delle parole.
Unico mezzo per sfuggire alla gabbia, secondo il poeta, è spogliare
l'evento, operandone una estrazione dell'essenza, sottraendone la
descrizione alla consuetudine, al "senno" (o forse - e qui sta
l'equilibrio sul difficile limite - al senso). L' "oggetto" diventa
innegabile, il suo "essere" si palesa univoco. E' nella potestà
dell'autore stabilire "un margine sufficiente di univocità" (Umberto
Eco). Ma l'arte (anche quella di Leronni, nei suoi testi migliori) sta
nel capire dove sia e in cosa consista questo margine, almeno quel tanto
che basta per "lasciare al lettore l'iniziativa interpretativa" (ancora
Eco). Il postfatore Massimo Morasso non è molto distante da questi
pensieri, quando parla per questo libro di "carica eversiva della
migliore poesia visionaria (...) come sospesa e trattenuta in un limbo
infralinguistico che sta a noi lettori, leggendo, di riconoscere e far
emergere in pienezza alla luce del senno". Al lettore (leggente) quindi
l'onere della prova? Morasso elude la domanda addebitando il dubbio ad
altri, al personaggio Fine Letterato che usa come controparte. Non importa. Ma il rischio di una una oscurità dell' "anima" (v. più avanti) del poeta forse permane.
Del resto Leronni molto correttamente ci ha avvertiti, nella "Dichiarazione di poetica" posta all'inizio del libro:
"Sfilano gli stracci / della verbosità // si essicca il discorso
paludato // il fasto retorico / uggiola di finitudine // la ridondanza
perde morsi. // Giacciono i fronzoli disattivati / annegano gli orpelli
// si staccano / le cornici esornative: // chi parla adesso è asciutto /
un corpo scarnificato / evaporato // nient'altro che un'anima".
Bene. Vale la pena di sottolineare, magari partendo da questi due
esempi, che Leronni non bara mai sul linguaggio. Non bluffa, non
persegue l'inusuale lessicale, non compulsa il dizionario. Il fraseggio è
quasi sempre limitato a un solo sintagma, per di più quasi sempre
"principale", cioè paratattico, e questo provoca da una parte un
pregevole effetto, compatto, ritmico, e con una sua musica interna,
dall'altra un incedere sibillino, aforistico (o forse sapienzale, come
preferisce dire il postfatore).
Due parole infine sulle poetiche di Leronni. Di una abbiamo detto, ed è
quella principale e fondante: la riduzione del linguaggio, l'
"essiccazione" del discorso, il superamento (ma fin dove?) del limite,
della "dogana" del significato (prendo il termine dal distico
stupendamente emblematico "Quando dico amore è per eludere / la dogana
del senso"), come pure del problema (egli accusa) della "meraviglia
fatta a pezzi / dalla definizione".
L'altra è quella dei "minimi spazi" ("perchè oltre questi minimi spazi /
non risuono", afferma), cioè quella che altrove ho chiamato poetica
degli interstizi, che va spesso insieme al ripiegamento espressivo,
diversa dal minimalismo degli oggetti e dei luoghi, ma piuttosto una
poesia "percettiva" orientata sui riverberi degli eventi sulla psiche. E
sull'interrogarsi, ovviamente, di come sia possibile sfuggire sulla
pagina alla ossessiva e logora verbalizzazione della mente (e forse
della cultura che ci portiamo sulle spalle).
Va invece respinta la domanda se per Leronni sia indifferente il tema,
anche "minimo", purchè serva docilmente alla sua prima poetica.
Ovviamente no: Leronni è poeta sufficientemente fine (come dimostrano degli
ottimi testi) da non trarre sé stesso nel tranello della metapoesia,
cioè del fare versi per parlare di come i versi stessi si fanno. Se la
costellazione di Leronni è oscura (un'oscurità da cui, secondo Morasso,
il poeta prende lezioni), essa è tuttavia ampiamente popolata: l'amore,
l'estetica e l'apparenza, il molteplice, "lo sguardo che vigila sul caso
[e] dispone l'ignoto in bella forma", l'inganno dei sensi, la morte
come luogo abitato, l' "altalena del mutevole". E naturalmente la natura
di cui siamo parte, qui filtrata da un pensiero analitico insonne e a
volte impietoso, da uno spirito tutt'altro che "assente". (g.c.)
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Giovedì, 20 settembre 2012
Una poe sia di Sylvia Plath, nella traduzione di Giovanni Giudici. Testi e autori che rileggo a volte per un bisogno di "freschezza", anche se appare difficile con temi come questo, o di una linearità sintattica e semantica, o per rispolverare vecchi ferri del mestiere, come la metafora o la similitudine, che per Aristotele erano "senza confronti la cosa più importante..., la sola che non si possa imparare, il segno della genialità". Artifizio che, per antica cultura (si pensi soltanto a Shakespeare o a Marlowe) è tanto presente nella poesia anglosassone (e tanto più nella cosiddetta confessional poetry, a cui tuttavia Giudici non vorrebbe associare la Plath), quanto ormai abbastanza desueto nella nostra. Forse perchè, come notava un critico, in esso devono coesistere sorpresa (tra i termini del confronto) e semplicità (dei medesimi). Cose che poco si conciliano con la poesia "corrucciata" e ombrosa che molti di noi oggi frequentano. (g.c.)TULIPANI
I tulipani sono troppo eccitabili, qui è inverno. Guarda com'è tutto bianco, tutto quieto e innevato. Sto imparando la pace, da me quietamente posando Come posa la luce su questi muri bianchi, questo letto,queste mani. Io non sono nessuno; non c'entro con le esplosioni. Ho dato il mio nome e i miei vestiti alle infermiere E all'anestesista la mia storia e ai chirurghi il mio corpo.
Tra guanciale e risvolto del lenzuolo han puntellata la mia testa Come un occhio tra due palpebre bianche che non si chiuderanno. Stupida pupilla, tutto deve sorbirsi. Le infermiere passano e ripassano, non disturbano, Passano come gabbiani all'entroterra nelle loro cuffie bianche, Con mani affaccendate, identiche l'una all'altra, Così che è impossibile contare quante sono.
Per loro il mio corpo è un ciottolo, vi attendono come l'acqua Tende ai ciottoli sui quali deve scorrere, gentilmente levigandoli. Mi portano il torpore nei loro lucenti aghi, mi portano il sonno. Adesso ho perduto me stessa sono stufa di fardelli - La mia ventiquattrore di pelle come un nero portapillole, Mio marito e il bambino sorridenti dalla foto di famiglia; Mi agganciano la pelle i loro sorrisi, sorridenti ami.
Ho gettato cose a mare, io cargo di trent'anni Testardamente attaccata al mio nome e indirizzo. Hanno passato una spugna sui miei affetti. Impaurita e nuda sulla verde barella plasticata Ho guardato la mia teiera, i miei portapanni, i miei libri Sparire affondando e l'acqua si è chiusa sul mio capo. Sono una monaca adesso, non sono mai stata così pura.
Io non volevo fiori, volevo solamente Giacere a palme riverse ed essere tutta vuota. Come si è liberi, liberi da non credersi. La pace è così grande che abbaglia, E non chiede nulla, un'etichetta col nome, pochi aggeggi. È il finale a cui approdano i morti; me li figuro Inghiottirselo come un'ostia da comunione.
I tulipani sono troppo rossi, mi fanno male. Anche sotto la carta li sentivo respirare Lievi, sotto la bianca fasciatura, come un bebé mostruoso. La loro rossezza parla alla mia ferita, gli risponde. E sono infidi: sembrano galleggiare, benché mi tirano giù, Sconvolgendomi con le loro lingue imprevedute e il colore, Dozzina di rossi piombi intorno al mio collo.
Nessuno mi sorvegliava, adesso sono sorvegliata. A me i tulipani si volgono e dietro me alla finestra Dove una volta al giorno si allarga e si assottiglia la luce E io mi vedo, piatta buffa ombra di pupazzo ritagliato Fra l'occhio del sole e gli occhi dei tulipani, E non ho faccia, ho voluto cancellarmi. I vividi tulipani divorano il mio ossigeno.
Prima del loro arrivo l'aria era calma abbastanza, Andava e veniva, respiro su respiro, senza trambusto. Poi loro l'hanno riempita come un gran chiasso. Adesso l'aria si rompe e vortica quale un fiume Si rompe e vortica su una macchina affondata rossa di ruggine. Concentrano la mia attenzione che era prima felice Di giocare e riposare senza impegnarsi.
Le pareti, anche loro, sembrano riscaldarsi. I tulipani dovrebbero stare in gabbia come bestie feroci; Si aprono come la bocca di un grande felino africano E io mi accorgo del mio cuore che apre e chiude La sua ampolla di rossi bocci per puro amore di me. L'acqua che assaggio è calda e salata, come il mare, E viene da un paese lontanissimo come la salute.
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Mercoledì, 12 settembre 2012
sono qui fermo l'albero davanti che preso dalla luce muove i rami e l'icona del suo parlarmi scocca
un collo umano esce dalla casa rientra richiudendo le persiane
***
l'io brunito non può carezza per corazza rivolgersi fissando a un volto esterno "il prossimo" abbracciando
e non perché sia guscio uscio vuoto da flussi sballottato dall'interno agito e rosicchiato più di tanto
quanto perch'è diviso e unito nel bosco delle case essendo uguale e unico già in sé tra contagiosi e ostili sorridente attrito
***
è picchiettando sul nulla, che rimane così suolo bagnato, che la lettura, lo studio, magari veloci, creano la gabbia di un tempo acutamente solitario semicoincidente con lo spazio orario tollerabile camera
***
è impossibile capirti? giro intorno ai suoni della tua voce, scruto i lineamenti a specchio la luce sulla tavola imbianca il circospetto rilevo accostamenti rifletto: tu sei tu. E "noi" cosa sta a fare? è infisso anche di più? una brina leggera il ragionare
***
come l'acqua viene ghiaccio d'un tratto ho la rivelazione della connessione: atomi dei corpi separati dagli atomi slacciati dello spazio
nell'ombra lavorata delle imposte infantile, un bicchiere di latte
***
la polvere sul tavolo e tramite la finestra nella luce che forma rombi chiari e liberi nell'ombra rettangoli lucenti, ovunque è come ovunque? la serie silenziosa dei granelli, dei legni, della mente; tutte le porte aperte della casa alimentano solo una corrente. Schiusi i vetri, il transito del fluire vivente con il suo mantello di teorie circa i convogli della solitudine.
***
Mezzo nel sonno rifletto su passaggi tra un corpo e l'altro tra due o più vicende tra le voci e su persone appartate non da poteri assoggettate ma come in attesa donne in primo luogo
***
Preme l'autunno tornano al lavoro continuo a studiare nelle gialle foglie di carta mi agito e dormo.
Giovedì, 6 settembre 2012
Margh erita Rimi - Era farsi (Autoantologia 1974-2011) - Marsilio 2012
Di Margherita Rimi avevo pubblicato un paio di anni fa qualche testo tratto da "La cura degli assenti" (v. QUI),
silloge rappresentata anche in questo libro, antologia di sè e quindi,
si suppone, bilancio di un lavoro poetico protratto negli anni, dagli
anni '70 ad oggi. Bilancio anche ovviamente di vita, con una parte
preponderante riservata al lavoro di Margherita, quello di medico e
neuropsichiatra infantile che si confronta (e non può che subirne anche
sentimentalmente il segno) con il mondo dei bambini. E, come si conviene
in una "autobiologia", con il mondo del sé bambina.
La poesia di Rimi prende il vissuto e lo sveste. Questo avviene ad
esempio dal punto di vista del linguaggio, costruito su un lessico piano
e semplice, per lo più paratattico, a volte insistito, scelto in
ragione della sua funzionalità, specie quando si tratta di tentare di
trasmettere l'articolazione del pensiero, perplesso o doloroso, di un
fanciullo che, appunto, insiste per essere ascoltato. Contemporaneamente
lo vela, perchè questa non è poesia dell'oggetto, non vi sono "cose",
ma semmai dell'impalpabile, della sensazione, e forse - se non
dell'indicibile - del difficile da dire compiutamente. E' inevitabile
che non sempre il pensiero traspaia, stante che il linguaggio, specie
nei testi brevi, perfettamente asciugato perde un po' quella pluralità
di senso che tanto aiuta il lettore. E insieme si torce, si annoda o si
chiude in certe forme ricorsive che Rimi sembra amare, siano esse
anafore ("come finisce / se sui binari è... / come finisce se... / come
finisce se... / come finisce se... / come finisce se... ") o anelli ("Ti
tocco / e mi credo / Ti amo / e mi amo / mi tocco / e ti credo"), tanto
da farne una cifra stilistica, efficace quando si vuole tratteggiare il
linguaggio ansioso dei bambini, meno in altre occasioni.
Ma, a parte questa considerazioni, Rimi ha chiare le sue coordinate.
Della sua storia professionale da cui decanta (e filtra, perchè a volte
il distacco è necessario) piccoli quadri dolorosi e forse un po'
rassegnati (v. oltre Su due rotelle); della sua tradizione
culturale (e non è un caso che una delle epigrafi alle sezioni sia il
teorico della tradizione T.S.Eliot) che non è solo negli espliciti
Pirandello o Agota Kristof o Ana Blandiana, ma anche in più nascosti
accenti ungarettiani o montaliani, in quello che mi è parso un Bernard
Noel degli Extraits du corps ("Dalla trasparenza / delle mie
ossa / guardo / il mio bacino") e perfino in un sorprendente indizio di
Oliver Sachs (v. oltre la bella Quando l'albero era l'albero); della sua sicilianità (niente affatto un concetto astratto) che si esplica in testi leggeri e traforati, qui non presenti.
Il filo rosso del libro è il divenire, non solo l' "era farsi", ma
anche probabilmente quello che ancora "accade", la domanda (e da qui
forse il bisogno di una autoantologia) se l'infanzia è passata, se non
passa mai, se è stata fissata o forse esorcizzata dal lavoro nell'infanzia
degli altri. Se è degli adulti "spostare il tempo". Se è possibile
distanziarsi dall'altro, anche l'altro anagrafico fuori e dentro di noi,
il più debole fuori e dentro di noi, il "gemello". Domande importanti, che rimandano
ad una inquieta coscienza dei "grandi". L'obbligo, anche in poesia, è
principalmente uno: "Abbiamo una regola molto semplice: il tema deve
essere vero" (Agota Kristof).
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