Sabato, 28 aprile 2012
Un articolo di Diego Conticello su Lucio Piccolo, accompagnato da alcuni testi del poeta siciliano, tra cui i quattro "Canti barocchi". Ne ringrazio l'autore.
Agli albori del secolo scorso, in una Palermo trasognata e pomposa dominata dai Florio, nasceva negli agi nobiliari Lucio Piccolo (27 ottobre 1901), figlio di Giuseppe, grande possidente terriero nell’area nebroidea (con antenati crociati) e della contessa Teresa Mastrogiovanni Tasca Filangieri di Cutò (il ramo materno è più blasonato del paterno, annoverava ben tre vicerè di Sicilia ed era arrivato nell’isola al seguito dei Normanni; Teresa era la più giovane di cinque sorelle, tra le quali spiccava per cultura Beatrice, madre del futuro scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa). Sin da ragazzino, Lucio assorbe tutta quella congerie già gattopardesca ormai immersa nel terribile sfacelo iniziato con l’unità d’Italia e la definitiva cacciata dei Borboni dal meridione. Timidissimo e, a detta di molte testimonianze, eccessivamente attaccato alle gonne dell’autoritaria madre, cresce nell’enorme palazzo di famiglia in via Libertà – poi raso al suolo dalle bombe alleate durante la seconda guerra mondiale – alquanto solitario data la vistosa differenza d’età con i fratelli (Agata Giovanna, la primogenita, era nata ben dieci anni prima, nel 1891, il fratello Casimiro nel 1894). Coltiva precoci interessi musicali e già al ginnasio ‘Garibaldi’, grazie a sensibili ed acutissime capacità interpretative, oltreché ad una duttile intelligenza creativa e ad un’applicazione forse eccessiva, fronteggia gli stessi professori soprattutto in greco e latino (sono state ritrovate alcune pagelle dell’epoca dove i voti altissimi fioccavano a dismisura, peraltro in un periodo morbosamente ‘severo’ in cui anche gli alunni maggiormente meritevoli stentavano a raggiungere la sufficienza). Ancora adolescente gli viene affibbiato il soprannome di ‘musicista-filosofo’, specie nell’ambiente coltissimo del circolo Bellini di Palermo, frequentato spesso anche dal cugino principe Giuseppe Tomasi, che talvolta lo punzecchiava, ma solo per posa, su queste velleità artistiche, soprattutto per quanto riguardava l’arcinota pedanteria e ricercatezza nella composizione musicale: - « mio cugino compone una biscroma al giorno!» soleva ricordare a tutti il futuro autore de Il Gattopardo.
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Mercoledì, 18 aprile 2012
Lunedi 23 aprile prossimo Andrea Inglese sarà ospite del Dipartimento di Lingue e Letterature Romanze - Laurea in Traduzione dei Testi Letterari e Saggistici dell'Università di Pisa (v. locandina completa QUI). In quell'occasione Inglese, attento interprete della poesia contemporanea francese e dello scambio sempre vitale tra quella e la poesia italiana, introdotto da Alberto Casadei, parlerà del suo libro "Commiato da Andromeda" (Valigie Rosse, 2011, Premio Ciampi), parte di un più ampio lavoro che ha per centro la città di Parigi, e leggerà e commenterà testi tratti dalla raccolta di Jean-Jacques Viton "Il commento definitivo - Poesie 1984-2008" (Metauro, 2009, postfazione di Nanni Balestrini) che lo stesso Inglese ha tradotto e curato. Seguirà un laboratorio di traduzione che avrà per oggetto un componimento di Viton, "la chute ne s'improvise pas".E' possibile leggere testi di Viton QUI e QUI, mentre la prefazione della stesso Inglese a "Il commento definitivo" è reperibile QUI. Un brano tratto da "Commiato da Andromeda" è invece reperibile QUI.
Sabato, 14 aprile 2012
Labirinto - voi siete qui (Dédale – vous êtes ici)
...Il lavoro della Métail pubblicato qui, "Labirinto - voi siete qui", è un poema di 180 versi, diviso in 10 sequenze (arrivo del treno - il nome della città - la città orizzontale sulla mappa - la città verticale - cercando il centro - la città in costruzione - la città storica - sottosuolo - posto per vivere - posto sconosciuto). Esso traccia l'arrivo e la scoperta della città di Berlino, il passaggio dal luogo sconosciuto a quello familiare, quello che si pensa di conoscere. "Labirinto - voi siete qui" aiuta l'osservatore a situare sé stesso. Il cerchio rosso che figura in tutte le mappe a Berlino in questo poema evoca altresì il cerchio vuoto dello Zen, una città in perpetua mutazione, impossibile da afferrare........
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Lunedì, 9 aprile 2012
Su Poesia 2.0 continuano gli interventi di vari autori sulla "buona poesia" (v. QUI). Ho pensato di scrivere anch'io due note, anche allo scopo di chiarire qualche punto a me stesso.
La buona poesia
L'altro giorno mi è arrivato in casella un comunicato stampa di una
lettura pubblica, uno dei tanti che ricevo. Il condizionamento che
scatta di solito in questi casi è quello che mi fa muovere il dito verso
il tasto CANC. Poi chissà per quale ragione ci ho
ripensato, ho letto la poesia che vi era contenuta, la breve nota
biografica dell'autrice che informava che la medesima era la vincitrice
del premio Taldeitali 2011. Che non è il Montale né il Montano ma
nemmeno quello della Associazione del Verso Sbilenco. Insomma non
proprio un premio scalcinato.
Ora, sappiamo benissimo che una rondine non fa primavera e nemmeno fa
inverno un'oca lombardella che vola verso sud. Ma quell'unica poesia lì
in cima al comunicato stampa era proprio brutta. Certo, poteva rimanere
il dubbio che il resto del corpus poetico della autrice fosse di
straordinario valore, ma il fatto che quel testo fosse stato scelto,
forse dalla stessa poetessa, per campeggiare nel volantino lo rendeva
emblematico, anzi esemplare. E, a sua insaputa, esemplare del fatto di
essere brutto. O se preferite cattivo.
Per me, intanto (e l'ho detto altre volte), una poesia è brutta quando
lascia il tempo che trova, come il libeccio. Quando si disperde in un
istante nel rumore di fondo dell'impoetico, o se vogliamo del "poetico"
indifferenziato (sì, come la spazzatura) fatto di slogan pubblicitari,
di jingles, di accostamenti consunti, di associazioni d'idee, di
semplice esibizione di sentimenti che sono tanto belli quanto (si spera)
già noti a tutti. Quando si perde di vista, tra i tanti, il rischio di
una lingua meramente denotativa, che diventa pura descrizione e tracima
nei versi con parole, simboli, metafore, strutture così tante volte
usate da essere diventate oggetti enumerabili. Di converso,
come avvertiva in una delle sue "scuole di poesia" Massimo Sannelli,
“stiamo attenti a non dilagare in immagini troppo personali; forse siamo
gli unici a considerarle belle, e per gli altri potrebbero essere
semplicemente enfatiche o incomprensibili”. E aggiungeva che è inutile
mettere cuore nella propria opera se poi il poeta non "prende distanza
dalla sua materia, e (...) più se ne distanzia più la fa sua e la rende
infuocata”.
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Domenica, 1 aprile 2012
Massimo Pastore è uno che aveva pensato di smettere di scrivere, cosa che depone a suo favore, a volte bisogna averceli certi dubbi, e invece molti altri che quella incertezza dovrebbero avercela proprio non ce l'hanno. Ma quella di Massimo non era un'autocritica, e poi comunque per fortuna ci ha ripensato. No, voleva smettere perchè per lui la poesia è dolore. Dolore sia espresso in versi, sia sofferto a scrivere. Ma come sappiamo, di "dolore" ne son piene le fosse (poetiche). Poi bisogna vedere quale, se ha dignità poetica. Massimo è poeta figurativo e cantastorie (v. QUI) come tanti musicisti della sua terra ligure. Ma anche un romantico depurato da romanticismi, uno che piace alle donne, un acido che a qualcuno può dare imbarazzo. Non ha eccessivi pudori, e un poeta non dovrebbe infatti averne. Certo a volte indulge, un pò posa, fa il maledetto. Ma a suo credito va detto che non parla, come altri, per sentito dire e se questo non bastasse è uno che osa, nel linguaggio, nell'invenzione metaforica. Mi ha mandato un po' di poesie. Gli ho risposto dopo qualche tempo: "Caro Massimo, eccomi qua...purtroppo ho avuto poco tempo ultimamente. Ho letto le tue poesie. Potrei dire in una battuta: da Bukowski a un Ginsberg eterosessuale, ottime per essere lette in pubblico, attorializzate col corpo, sputate addosso alla gente. E' questa la tua cifra, insieme a una ferocia o rabbia di fondo che a volte non controlli (e forse è giusto così). L'amore è una materia difficile, in poesia come nella vita (se esiste una differenza tra le due cose). Anche feroce, appunto, specie se è quasi soltanto scontro di carni, di quella maniera infantile di conoscere che è il tatto e la ferita. Alcune poesie sono molto buone, altre meno (ma solo perchè, mentre tutto fila liscio, ogni tanto d'improvviso ci infili qualcosa come per dispetto o per posa), altre no. Altre coinvolgenti, quando (es. Rame o Confesso) ti ricordi di avere un cuore lirico da qualche parte. Ma, a parte tutto, da tutto questo magma emerge un bella stoffa. Se riesci a mettere d'accordo potenza e controllo (come in quella pubblicità di pneumatici) sei a posto!" Poesie di amore e morte, intesi non tanto come polarità topiche consunte quanto come luoghi narrativi dove il dolore si palesa e mostra la sua maschera. Amori che non durano, un pò esibiti e hors de scène, carnali e di una sottesa violenza sempre borderline; la morte del padre, sempre presente anche quando non espressamente citata, elaborata in particolare in un intenso testo in prosa che qui non ho voluto pubblicare, una autentica elegia rap. E anche squarci urbani o interni giorno in cui si vive velocemente e senza meta e velocemente si scrive come se fossero graffiti, una lingua con i suoi codici, la sua anarchia, le sue distorsioni. Poesia che può piacere o non piacere, senza vie di mezzo. Ma che non passa inosservata.
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