Lunedì, 27 febbraio 2012
Nel solco
della consueta attenzione che Imperfetta Ellisse ha verso la poesia
contemporanea di altri paesi, pubblico qui alcune poesie del giovanissimo poeta spagnolo Javier
Vicedo Alós, tratte dalla raccolta Ventanas a ninguna parte (Ed. Pre-textos, 2010) e tradotte
da Antonio Buccelli (Antonio Bux), italiano in terra di Spagna. Altri testi, tratti dalla stessa raccolta e tradotti e introdotti sempre da Buccelli (che ringrazio per la sua gentile collaborazione), erano già stati pubblicati QUI
UN SOLO OCCHIO SU TROPPE FINESTRE
Ho conosciuto la poesia di questo giovane poeta nativo di Castellón ma residente a Madrid spulciando, come mio solito, tra le pagine web non solo
italiane, ma anche estere, alla ricerca di qualche valido verso sparso qua e là tra le innumerevoli galassie del mondo interattivo.
Quando ho incontrato i versi di Javier Vicedo Alós, non ho avuto tentennamenti; la trasparenza delle tematiche e del linguaggio di questo poeta non
lasciano dubbi di sorta: è questa una poesia straripante e diretta, che non indugia in futili narcisismi; una poetica bella così come appare, nuda e
cruda, quasi spavalda, che aumenta di tono nel suo esaurirsi, quasi a voler lasciare appositamente interdetto chi la legge; come a voler donare, in una
ipotetica sinergia autore/lettore, spazio e voce all’altro.
Sebbene tradurre sia sempre compito arduo e indelicato, e sebbene si tratti sempre di una riscrittura, di una nuova veste per una già cucita idea, non
ho trovato troppe difficoltà di “sintonia” nel tradurre Javier, vista l’affinità poetica che ci lega, né tanto meno spero aver stravolto troppo l’idea
originaria di fondo delle sue poesie e della sua lirica.
Una lirica questa, aspra e diretta, sottilmente aperta all’infinito e alla fatalità dell’esistenza; un dire che si fa in alcuni tratti più duro e
sprezzante, quasi intransigente, soprattutto nei confronti dell’uomo stesso, nonostante permanga l’impronta sostanzialmente esistenziale delle
tematiche affrontate. (Si nasce senza parole/e con tutte le parole distrutte /ce ne andiamo. da Omaggio verticale parte II).
Il titolo della raccolta invece, tradotto in italiano suona un po’ come “Finestre su nessun luogo” quasi a voler enunciare che il poeta osservi
l’infinito nella sua inesauribilità da un luogo neutrale, irraggiungibile; da dove fissare le coordinate anche della sua personale ristrettezza,
imposta dalla carne, dalla materia; dirigendo le proprie emozioni da una finestra (a volte totalmente spalancata, in altre solo socchiusa, in alcuni
casi totalmente serrata) che altro non rappresenta che la propria anima in balia di un mondo sempre più vuoto, stanco.
Il poeta ci invita così a percorrere a stretto contatto con sé questa profonda escursione verticale.
Le poesie hanno come tema centrale appunto questa visione ambigua e mutevole della vita: il desiderio d’infinito, ma anche la ricerca della realtà,
difficilmente rintracciabile; condizione da cui scaturisce l’amara riflessione che contraddistingue la maggior parte dell’opera.
E poi la particolarità quasi maniacale che Vicedo Alós riserva alla parola, resa monito, forse simbolo da preservare costantemente, come la finestra,
vera figura centrale di tutta la silloge. La finestra è qui metafora d’anima e di coscienza, una coscienza che non vuole piegarsi all’uomo, ma che
vorrebbe quasi distaccarsene, per magari ritornare a quegli stadi primordiali spesso invocati, in stretta simbiosi con tutti gli esseri della terra e
con il grande vuoto sapienziale dell’universo (Scomporre il mio nome in questa sera/come l’uccello che si schianta in canto/fino a intonare la sua
stessa assenza. da Ambizione).
Anima che comunque ritorna in sé e retrocede a vittima di un’esistenza da cui non si ha scampo, anzi, da dove riaffiora prepotente il desiderio/rigetto
di appartenerle (Rischioso il ritmo della carne/questo salto contro il mondo/ e la sua respirazione di corpi vincolati./Però lì è l’uomo: in quel rischio d’esserlo. da Desiderando mondo).
Una poetica quindi precisa e perentoria nella sua tematica, una riflessione sull’esistenza e sull’impossibilità di immedesimarsi nell’altro, anche
avendone la necessità costante.
Nell’ultima poesia di questa raccolta infine, Javier sembra lasciarci apposta socchiuso uno spiraglio verso il nulla ma specialmente ci lascia,
secondo il mio modesto parere, uno spiffero di segreto aperto verso le sue intime finestre; sapremo allora noi guardarvi dentro, ma soprattutto,
sapremo cosa e dove guardare?
Antonio Bux
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Lunedì, 20 febbraio 2012
Amico di poeti come Aragon, Apollinaire, Jacob.
Tzara, Breton, Soupault, riconosciuto egli stesso come ispiratore del
Surrealismo, amico e collaboratore altresì dei più grandi artisti
dell'epoca, come Modigliani, Braque, Matisse, Picasso, Mirò, che
illustrarono alcuni suoi libri (straordinaria l'edizione Teriade del
1948 de Les chant des morts, [vedi]
arricchita da 125 incisioni di Picasso), e ancora critico d'arte,
musicofilo e partigiano della Resistenza francese (nonché amante di Coco
Chanel), Pierre Reverdy rappresenta una complessa figura di
intellettuale e di raffinato poeta, sostanzialmente poco noto da noi
(che io sappia, a parte traduzioni e scritti sparsi, per un titolo
italiano si deve risalire a "La maggior parte del tempo" che Franco
Cavallo curò per Guanda nel 1966), mentre di maggior fortuna gode nei
paesi anglosassoni dove autori come Ashbery, Padgett, Rexroth si sono
cimentati in sue edizioni.
"In Pierre Reverdy la clausura abita un altro
spazio angustissimo: quello degli occhi. Lo spazio della poesia sono gli
occhi. Il fuori viene svuotato del suo ardere, del suo colore. Il
colore rimanente spesso è un blu notte, trepidante di attesa, o un
giallo splendente e spremuto, trepidante anch’esso della vita che si
lacera e si dona e tuttavia non è, non può essere, non è pienamente:
perché colui che era atteso non è mai arrivato.
In Reverdy lo spazio della scrittura è la calibrazione precisissima
dell’immagine, pena l’angoscia; senza sfocamento. La descrizione rapida
prima che l’oggetto trascolori nella sua luce, prima che la solitudine e
la malinconia generino astio. E quindi storpiatura nella parola. Dove
la parola non arriva, o rinuncia, ecco lo spazio bianco della pagina, il
verso bianco tra un verso e l’altro, la parola non detta, l’immagine
ritagliata e immobilizzata nell’angolo di una stanza.
Lo spazio trema in Reverdy come i muri fragili della casa; qualcosa è
già accaduto, la parola l’insegue; il poeta fugge il mondo, rinuncia; la
sua voce non centra, è centrata dalla minaccia di una tempesta che
scoppierà; dall’attesa.
Reverdy non abita lo spazio, è lo spazio ad abitare il perimetro dei
suoi occhi. Il poeta abita la provvisorietà dell’immagine, e quindi la
precarietà dell’esistere. La sua scrittura nasce a distanza, nel bordo
della mondanità, al cui centro splendono gli ori e le perle e dove la
parola viene lanciata nel vortice della danza come la vittoria
rigogliosa e lacera della vita. Reverdy guarda e parla. Ma le parole
potrebbero lasciare posto alla sola immagine". (Sebastiano Aglieco,
fonte: Poesia 2.0)
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Lunedì, 13 febbraio 2012
Di Spigno riempie la tela, le sue poesie sono
"quadrate", con lunghe catene sintattiche (per lo più), che invadono
gli spazi della pagina. L'inquietudine dell'ipermetro (settenari +
esametri + qualcos'altro che ci puoi trovare) sembra indicare quella che
solitamente (e a sproposito) si definisce "urgenza" del dire, anzi, di
più, dello scrivere, come fosse un "se c'entra c'entra", liberatorio di
un fiato lungo, fin quasi all''apnea, che punta dritto al limite destro
della pagina.
Mi viene in mente un bambino che prende un lungo
fiato per gridare poi più forte. Se grida (per quanto, se possibile,
sommessamente), allora vuol dire forse che la fiducia nella parola
ancora c'è, ancora c'è almeno la speranza di individuare un senso nelle
trame di questa tessitura di parole, o di esprimere un grido
testimoniale. Se "allunga" forse ha un po' meno fiducia nella forza
della poesia, nella sua capacità di sintesi o polisemia o eco di
metafore più alte (es. quel correlativo oggettivo di cui fu importatore e
rappresentante per l'Italia il Montale che il postfatore Fernando
Marchiori evoca un paio di volte). O forse è semplicemente una questione
di stile, di avvicinamento a modalità più discorsive, più narrative,
più contemporanee (ammesso che il contemporaneo esista) anch'esse
tuttavia già attestate.
Leggendo, la parola che salta in mente è: espressione. L'effetto è contemporaneamente marmoreo e plastico, petroso e liquido. In altre parole: interessante.
Poiché il linguaggio è quello quotidiano, però qui assiepato, addensato
in filamenti estetici, in squarci ordinari però di colpo disvelanti
come un oracolare stormo di uccelli, potremmo definire questa come un'arte povera della parola,
ove il "povero", proprio in relazione ai materiali, si intende in una
accezione che ci rimanda a Celant, Merz e compagnia bella, sebbene con
un suo modo, a volte, di essere un po' sentenziosa, di avere qualche
tratto di ingenuità. Di Spigno non cerca scarti o corti circuiti
semantici, usa il linguaggio as it is, vuole dimostrare (e
spesso ci riesce, come nei testi che ho scelto) che esso ha venature
poetiche senza doverlo assoggettare a particolari torsioni, nemmeno
concettuali. E senza - anche - la variabile indipendente del soggetto,
qui non tanto assente, come nota anche Marchiori, quanto "esposto" o
"sfrattato" e tuttavia agente e mobile come il decentrato fuoco di
un'ellisse. Pur tra qualche contraddizione, che Marchiori più o meno
velatamente individua, tra sorveglianza del linguaggio e compressione di
spinte liriche emergenti, tra déplacement del soggetto e il
mettere chiaramente a fuoco un campo speculativo ("geografie variabili",
dice il prefatore) che sia più di un generico "male di vivere". Il che
tuttavia non impedisce, negli esiti migliori, l'emergere (e sono
d'accordo con Marchiori) di "una insospettata spinta verticale
[d]ell'esistenzialismo di Di Spigno". (g.c.)
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Martedì, 7 febbraio 2012
Basta con questi poeti mammoni che vogliono fare poesia senza allontanarsi da casa!! "Noi italiani siamo fermi alla poesia fissa nella stessa città, di fianco a mamma e papà", dice giustamente la critica Cancellieri. Come darle torto? La poesia deve essere flessibile, bisogna abituarsi all'idea di cambiare poesia spesso, chi se lo può permettere vada a fare poesia all'estero!, come qualche tempo fa suggeriva acutamente il critico Celli. Era ora che qualcuno lo dicesse! Finalmente la critica militante e di rottura si sta risvegliando da un annoso torpore e punta il dito al vero nocciolo della questione, la "poesia bambocciona". Basta con questi poeti fannulloni che una volta trovato un verso, una "stanza" o una quartina anche part- time ci si adagiano sopra per tutta la vita! Essi sono incuranti di quel male oscuro che il critico Monti lucidamente diagnostica nella poesia fissa, e cioè la monotonia che, per quanto ci faccia rima, con la poesia non può andare d'accordo! Non solo: non è azzardato ipotizzare, in parziale discordanza con il critico Brunetta, che la monotonia della poesia fissa sia una delle cause del noto e diffuso "assenteismo poetico". Per quanto deprecabile, come non capire chi si dà malato per starsene a letto a leggere l'ultimo Fabio Volo o abbandona per una mezz'ora la poesia fissa pe annà a comprà un par de cicorie? Insomma i tempi cambiano, come ricorda la critica Fornero, non possiamo "prométtere" ai nostri giovani una poesia fissa, figuriamoci poi gli ormai obsoleti ammortizzatori poetici, come certi concorsi o quell'inutile Canto 18 che parla di ruffiani e adulatori, ormai del tutto scomparsi dal settore poetico. Insomma, è la crisi in cui versa il nostro PD (Poetic Debt, debito poetico) ad obbligarci ad affrontare la sfida della flessibilità. Chi ha studiato da poeta lirico non è detto che possa esercitarsi con nuvole e mal d'amore e foglie morte fino alla pensione, sai che palle! E del pari chi fa il poeta di ricerca non potrà continuare a fare il ricercatore a vita, per quanto precario. Dovrà cambiare, delocalizzarsi, ristrutturarsi, magari decostruirsi. In altre parole dovrà diventare competitivo, puntare sulla qualità. E' la globalizzazione, ragazzi, vi attende la sfida con i paesi in via di sviluppo poetico.
Venerdì, 3 febbraio 2012
A proposito di Georg Baselitz, Museo d’arte moderna, Parigi
Scavare la materia per scoprire una forma già là, pre-esistente, sommersa, lavorare sul togliere, sul tagliare, sull’estrarre o affondare, mai
sull'aggiungere, dare forma, affinare. Togliere il superfluo, strati su strati per arrivare all'oggetto in sé dove l'atto di scavare rinvia
implicitamente alla terra, a un ritorno al suolo, all'impronta d'una matrice generativa, generante o rigenerante per l’immaginazione nella sua messa in
spazio plastica d’altre possibilità sculturali. La scultura si vuole in Baselitz ritorno a un “grado zero” della medesima, simile a un de-stratificare, sfogliare, discendere in senso
genealogico, strato su strato, ciò che corrisponde, anche, a decostruire le sovra-strutture dell’estetica occidentale fino a toccare o raggiungere
paradossalmente una sorta di “innocenza ritrovata” nel fare artistico, (innocenza a posteriori prodotta a ritroso d’una cultura). Partire dal gesto in
presa diretta sul legno, gesto di “non-sapere” assoluto, non premeditato né razionale, violento, primordiale, gesto in togliere che porta in sé
qualcosa di irriducibile dandosi in primo luogo nel proprio potere di presenza e di fascinazione, al di qua d’ogni preoccupazione formale o
stilistica.
L'energia violenta implicata in tale atto, la brutalità del legno nella sua realtà ordinaria, una materia “bassa”, a portata di mano attaccata
direttamente dall'ascia o dalla segatrice; lo stato d'urgenza, di necessità nell'approccio sculturale, l'intempestività del suo darsi in presa diretta
su tempo , contro il tempo, a contro-tempo sulla forma, in parte ridipinta, ripresa o ridisegnata a tempera, acquarello o vernice, aggiunta di stoffa o
d'altri tessuti, presa infine tra il desiderio di figurare e il ritorno a una primordialità della materia tronco-albero-legno in quanto forza
emergente, agente o generante dalla natura.
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