Lunedì, 28 novembre 2011
Victor Segalen, un
altr o degli oggetti misteriosi (o quasi) della poesia francese dello
scorso secolo. Segalen era un giovane medico di marina che non amava il
mare, la vuota distesa d'acqua che "più si naviga, più somiglia a sé
stessa". Dopo aver studiato alla Scuola principale del Servizio di
sanità della Marina e all'Università di Bordeaux incontra Huysmans con
cui avvia una certa frequentazione e che è il primo a parlargli di Paul
Gauguin e dell'esostismo. Il suo primo imbarco, come un destino, è su
una nave che si chiama Durance e che lo porta in Oceania, fino a
Hiva-Oa, dove Gauguin è morto da appena tre mesi e dove acquista
dall'amministrazione coloniale alcuni dei suoi disegni. E' l'inizio di
un innamoramento per l'Oriente, nutrito anche delle letture di Loti e
Claudel, che lo porterà, in un susseguirsi di andirivieni con Brest,
fino in Cina. E' in Cina che matura il suo capolavoro, monumentale fin
dal titolo, Stèles, pubblicato fuori commercio
a Pechino nel 1912, in una edizione in 24 esemplari "alla cinese", un
unico foglio di carta piegato a fisarmonica, legato preziosamente con
tavolette di legno di canfora e seta. Testi-epigrafi, testi-stele, monumenti, meditazioni, ammonimenti. E' il trionfo dell'esotismo,
sebbene sia l'esotismo del tutto peculiare di Segalen: "L'esotismo che
cerca ciò che non siamo, il diverso per esplorare se stessi, ha nella
poesia e nella sua alchimia il migliore strumento di conoscenza. Il
punto che segna l'originalità e l'attualità di Segalen, nella linea
della poesia come forma di conoscenza che va da Baudelaire a Rimbaud, da
Mallarmé a Claudel, è che anche per lui il mondo sensibile è un testo
da decifrare, ma l'esito della ricerca non è di ricondurlo al mondo
dello spirito, alla trascendenza o alla sensazione epifanica e
soggettiva, bensì di spiritualizzarlo senza negarlo, premessa d'uno
stato in cui le percezioni non hanno più alcun ruolo; la soggettività è
superata nella scoperta, a specchio d'un vuoto ineffabile, del Principe
dell'Assenza, del Nome nascosto, del silenzio" (Lucia Sollazzo).
Le
stele a cui fa riferimento il titolo "erano dei montanti destinati a
facilitare l'interramento delle bare. Vi si scrivevano dei commenti a
mo' d'orazione funebre. Oggi esse sono delle lastre di pietra che recano
un'iscrizione, montate su un zoccolo e drizzate verso il cielo. Il loro
orientamento è significativo. Le stele che danno verso Sud riguardano
l'Impero e il potere, quelle verso Nord parlano d'amicizia, quelle verso
Est d'amore, le stele verso Ovest riguardano fatti militari. Piantate
lungo il cammino, esse sono indirizzate a coloro che le incontrano, al
caso delle loro peregrinazioni; le altre, puntate verso il centro, sono
quelle dell'io, del sé..."( Segalen). Il centro, il quinto dei punti
cardinali tradizionali taoisti: "come la stele segnava con la sua ombra
un momento del sole, ogni poesia segna ancora un momento, quello della
conoscenza al fondo di sé; non immortala l'azione esemplare d'un defunto
o un regno glorioso, ma la scoperta dell'unico impero che conti, quello
di se stessi" (Lucia Sollazzo). Come dice Segalen, la poesia opera "per
raggiungere l'altro punto, il quinto, l'equidistante centro / che io
sono".
Continua a leggere "Victor Segalen - Stele"
Martedì, 22 novembre 2011
Note su Diane Arbus, Retrospettiva, Jeu de Paume, Parigi
Indossare
sé stessi come si indossa una maschera, e dietro questa un’altra e
un’altra ancora, tale é entrare nel circolo decentrato dei ritratti ,
nella serialità divergente dei volti di Diane Arbus.
Il suo lavoro rinvia all'interrogazione costante, alla fessura aperta tra l'essere, il dovere o voler essere e l’apparire altro.
La
costruzione del sé, del volto come identità, si rovescia nel cedimento
della medesima di fronte alla non-concidenza, all’inadeguamento tra
forma e anima.
La
costruzione fittizia d'un volto femminile, nascosto da una cortina nera
e coperto da uno spesso strato di trucco, é colto giustamente in
questa impostazione o impostura di presenza. Volto-maschera,
simulazione, facciata, simulacro in variazione eccentrica di sé stesso
nell’assenza di un modello originario.
Giovane
famiglia a Brooklyn: l’impalcatura dell'essere sociale, della figura in
quanto costruzione rispondente alla norma della società americana é
confrontata al punto della sua incrinatura o non-tenuta, tali le crepe
che s'aprono, che si intravvedono sulla realtà costituita per il solo
fatto d'essere messe “in quadro”, portate in superficie dal processo
fotografico. Cosi’, la semplice smorfia di un bambinetto preso per mano
dal padre va a infrangere il quadro glorioso, idealizzato della
visione famigliare in America.
Fotografare
il cedimento della figura in quanto realtà sociale apparente e
costituita significa in Arbus fotografare la differenza compresa come
ogni forma d' anomalia, d'anormalità, di marginalità, di follia, di
deviazione o devianza rispetto al quadro del giudizio normativo , al
modello identitario dominante. A un certo livello cio’ si traduce nella
scelta di soggetti eccezionali, extra-ordinari dalla singolarità
affascinante o mostruosa, il lungo corteo di personaggi “mostri”che
popolano negli anni il suo universo fotografico; ma, a un altro livello,
é la superficie più “normale” , più conforme della realtà quotidiana ad
essere smascherata come impalcatura fittizia, tanto più costruita,
abnorme, anormale che l'altra.
Jewish Giant, taken at Home with His Parents in the Bronx, New York, 1970
La
demistificazione di realtà va di pari passo con la sua iconoclastia
suggerita, non apertamente convocata, insinuata al limite della fessura,
della crepa, nello spostamento sottile del binomio verità-realtà, al
limite della sua piena credibilità o autenticità come tale, dunque nella
destituzione della medesima da una posizione di sacralità.
L'iconoclastia suggerita non é cancellazione o assenza d'immagine ma
immagine-ritratto che si mostra in questa rottura voluta, inevitabile,
prodotta dalla mediazione fotografica. La visione, per esempio, del
giovane americano, con abito impeccabile sventolando una bandierina
patriottica, celebrazione dell'ideale nazionale, é messa sullo stesso
piano della deformità, dell'esposizione del corpo senza maschere, nudo,
“nudista”, informe nell' abbondanza liquescente della carne.
Difficile
trovare in queste fotografie momenti di autenticità epifanica, di vero
trasporto o riconciliazione con la realtà. Più spesso quello che vi
appare è la cesura, il meccanismo contrario di scollamento
dell’immagine, della figura che, messa alla prova di verità, senza
concessioni né intercessioni, sembra d’un tratto cedere, non reggere il
confronto con la critica della realtà.
Nuvole
re-inquadrate in schermo fittizio di gigantesco drive-in, un mangiatore
di fuoco in una fiera paesana, bambinetti al parco facendo smorfie
all’obbiettivo, l’ uomo senza testa in un’ installazione da circo,
clown, funambuli, equilibristi e trasformisti.
Child with Toy Hand Grenade in Central Park, New York City, 1962
Volti-maschere,
volti in travestimento carnevalesco, dettagli di torsi nudi in gioco di
multiple inquadrature tra vetri e specchi, ragazzina gitana a piedi
nudi su un sentiero di terra battuta, vecchia signora borghese in
strada; volto-cortina, occhi socchiusi, calco di cera museale ma attraversato da grinze, rughe, stirature di pelle.
Tale
rifacimento plastico della figura é volutamente colto in un' eccesso di
forma, nell' estremo di un fittizio-iconico simulato che ne denuncia
implicitamente la credibilità. La chiarificazione ossessiva nella scelta
stilistica del ritratto passa attraverso forme volutamente colte
nell’immobilità della loro identità sociale e poi il punto dove questa
cede, si scolla o lascia intravvedere linee di sutura, di sovra-cucitura
e insieme minuscole fessure di superficie.
Ritratti
iconici di giovani ragazze benpensanti in strada, “il folle uomo nudo”
completamente tatuato sul torso con un solo occhio, figura di doppio in
“mezzo uomo, mezza donna”, ragazzini con maschere del “fan club dei
mostri” sui gradini d'una casa in America. “L’uomo che ingoiava lame di
rasoio”, un bambino con il viso coperto di carbone, la ragazza con il
cappello e i guanti, l'uomo dagli aghi piantati sul viso in diversi
punti.
Gemelle
siamesi su una spiaggia, neonati siamesi in scatola di plexiglass,
coppie, doppi, sdoppiamenti, ripetizione in serie della stesso,
serialità messa alla prova; nella ripetizione qualcosa accade.
Identical Twins, Roselle, New Jersey, 1967
Quadri,
specchi, schermi, gioco di inquadrature e rinvii di immagine. Il mondo è
inquadrato, messo in cornice, “in scena” attraverso le sue
individualità e, insieme, leggermente spostato dalla cornice della sua
presunta apparenza o veridicità.
Una
casa a Hollywood nel 1962: facciata apparente, visibile in primo piano
e messa a nudo della medesima come semplice impalcatura svuotata alle
spalle, dissecata, lasciata alle sole assi portanti, sottoposta al
processo fotografico che, inevitabilmente, ne mette in scena la
demistificazione. (Elisa Castagnoli)
(gli altri articoli di Elisa Castagnoli sono reperibili al tag "riflessioni sull'arte")
Lunedì, 14 novembre 2011
Nel 1947-48, nel corso del lungo viaggio
che lo porterà da Czernowitz a Parigi dove arriverà in Luglio, Paul
Celan incontra a Vienna Ingeborg Bachmann, poco più che ventenne. E'
l'inizio di una relazione intensa: "Lo stretto e intimo legame con la
Bachmann, su cui entrambi mantennero sempre un riserbo impenetrabile,
parla in maniera inequivocabile nei testi di entrambi. A lei Celan
dedica le liriche scritte a Vienna, tra le quali forse la più preziosa è
Corona, nella quale l'amore si coniuga con all'oblio, «wir lieben einander wie Mohn und Gedächtnis»
(«noi ci amiamo come papavero e memoria»), e la speranza combatte
tenacemente il silenzio della pietra, in una tensione che sconfina
nell'utopia. La poesia della Bachmann Die gestundete Zeit (Il tempo differito), che dà titolo al suo libro del 1953, potrebbe essere letta come una risposta amara, nel fallimento della speranza, a Corona. E ancora nel romanzo Malina del
1971, all'indomani del suicidio di Celan - di lì a poco anche la
poetessa perirà in maniera cruenta - la figura dello «straniero» che
viene dall'Est, il cui popolo «è il più vecchio di tutti i popoli ed è
disperso nel vento», rimanda esplicitamente, anche nella descrizione
fisica, a Celan" (Mario Specchio).
Dopo
pochi mesi Paul riparte per Parigi, sua destinazione finale e suo
destino. Ma la relazione affettiva non si interrompe. Nel 1949 Ingeborg
raggiunge Paul in Francia, dove intreccia con il poeta un legame
passionale che brucerà nel giro di un paio di anni, ma che non si
interromperà mai del tutto, anche dopo che ciascuno dei due avrà trovato
altri compagni (Max Frisch lei, Gisèle de Lestrange lui), con ritorni
di fiamma (come nel 1957, sempre a Parigi) e soprattutto un fitto
scambio epistolare (Troviamo le parole, Ed Nottetempo, 2010),
in cui progressivamente il confronto diventa poetico, si fa letteratura,
scambio reciproco di influenze, ma anche ricognizione del progressivo
scivolare di Celan nel suo personale gorgo di dolore, rimorsi, rimpianti
inconciliabili. Anche se l'ultima lettera è del 1961, a parte quelle
mai spedite, il legame è radicato. Poco dopo il suicidio di Celan,
gettatosi nella Senna nel 1970, Ingeborg annota in margine al
manoscritto di Malina: "La mia vita è alla fine. Lui è affogato, trasportato nel fiume, lui era la mia vita".
Continua a leggere "Ingeborg e Paul"
Mercoledì, 9 novembre 2011
C'è chi mi dice ma che roba leggi?, c'è chi mi dice ma non potresti
pubblicare più roba di questo tipo invece che di quest'altro? Parlo di
Imperfetta Ellisse, naturalmente. Ora, partendo dalla premessa che è un
blogghetto e che cosa gliene frega alla gente di cosa pubblico,
bisognerebbe intanto capire che spessissimo parlo di libri che mi
arrivano (gentilmente), che molti di questi scritti hanno un valore che
varia molto, che ecc. ecc.. E bisognerebbe cominciare a leggere un pò
meno superficialmente quello che scrivo. Che non è oro colato, altra
premessa, e non vuole fare opinione. E che a ben vedere non si occupa
nemmeno proprio del libro di cui sta parlando, ma di qualche spunto di
riflessione o problemuccio generale che potrebbe far comodo o essere
interessante. In altre parole (e tanto per fare un esempio): a me non
interessa se il/la poeta/essa X scrive con tutta la Treccani accanto, o
se appiccica le parole credendo di essere inglese, o se pensa che la sua
crisi sia emblematica di tutte le crisi, o che ami le foglie al vento
più di ogni altra cosa. No, a me interessa partire da lì per dire:
guardate che a mio modesto avviso se continuate a scrivere così (o di
queste cose) non andate da nessuna parte, o forse voi ci andate ma la
poesia no ecc. Non lo dico proprio così però, e questa è un'altra
questione. Perchè se si andasse a leggere con un pò meno di fretta
digitale, forse si coglierebbe qualcosa tra le righe. Già, tra le righe,
ed è lì che sbaglio. Perchè non mi piace dare bastonate a nessuno. Sono
un non violento della recensione, che confida nell'intelligenza degli
altri, nel suggerimento, per quel che può valere. Insomma, sforzatevi,
cercate di capire al volo. Cercate di capire che non si parla tanto di
voi quanto della poesia (con la p minuscola, certo) e di dove a mio
avviso la poesia (la vostra, la mia, quella di tanti epigoni di sé) va a
parare.
Continua a leggere "Maalox 4 - A me mi frega l'educazione"
Giovedì, 3 novembre 2011
Viola Amarelli è
stata più volte presente in queste pagine, per cui è quasi necessario
rimandare a quanto ho scritto in quelle occasioni (v. il tag "viola
amarelli") almeno per alcune cose che rimangono presenti nella sua
scrittura. Inoltre alcuni dei testi pubblicati in questo suo nuovo libro
(Le nudecrude cose e altre faccende, Ed. L'Arcolaio, 2011)
erano già passati di qui poco più di un anno fa, mi riferisco a "incendi
occidentali". Il che in parte costituisce anche una piacevole
rilettura e forse una riflessione.
Viola
non ha mai frequentato, fin dalle sue prime prove, una poesia delle
occasioni, o prevalentemente lirica, o elegiaca (semmai oracolare), o
rapsodica, e ogni suo libro è frutto consapevole di un'idea, e un
progetto nel senso pieno del termine. Compresa anche una speciale
attenzione per la forma, che va di pari passo con (ed ospita e assiste e
nutre) l'idea o le idee che muovono la sua ispirazione. Non è perciò un
caso che l'epigrafe posta in apertura sia insieme una lucida
dichiarazione di intenti e una (possibile) chiave di lettura, una
asserzione di Antonio Porta ("Non mi sono mai appagato di una forma, ho
sempre cercato di provocarne molte"). Naturalmente qui, come in Porta,
la forma è funzionale a quel che si dice, è parte significante del
dettato, anzi è una sua "dilatazione". E ancora, la "provocazione" della
forma è dinamica, varia nel corso del libro. E' cioè espressiva, come
un volto che muta con le emozioni. Forme in movimento: grave, andante, presto sono
annotate le sezioni del libro.Quindi poemetto quando è necessario,
prosa poetica o verso lungo quando il respiro ispirativo o il racconto
lo pretendono.
Le
"nudecrude cose", quelle che come dice l'autrice "se ne fottono o, più
esattamente, restano imperturbabili", sono il protagonista latente di
questo libro, come un'ombra nella fovea dell'occhio. "Cosa" come
sappiamo è un termine tanto generico quanto inquietante. "Cosa" non è
"oggetto", è un quid insieme ineluttabile, destinato e sopratutto più
longevo di noi, che va oltre la nostra esistenza, e non c'è, direbbe
Bourdieu, "persuasione occulta" più potente di quella del semplice
ordine delle cose. Ma l'ordine della cose, dice Viola, è un caos che si
riflette sulle nostre vite, o una casualità di eventi sofferti, di
prospettive annichilenti. O anche la semplice apparizione, per quanto
carica di segni pitici, di una campagna d'inverno in cui un sé inquieto
si rispecchia. Sempre, o quasi sempre, la donna o le donne al centro di
questa poesia: che vivono le loro paure, che aspettano i loro uomini
fuori da un carcere, attraversano piazze, tirano ironici bilanci
fallimentari delle loro lotte, si affacciano "sull'orlo della fine",
vivono la loro "ora delle passioni e del deliquio" o la zona d'ombra
delle loro malattie, personaggi e interpreti (e cito i titoli delle
sezioni) di convivenze, cure, strabismi, congedi. Ma quello che
Viola vuole dire è che le nudecrude cose, se pure se ne fottono, "hanno
una loro bellezza, anche quando distorte, lesive, a volte mortali",
sono popolate da un "dio disperso". Devono essere vissute. E descritte.
Forse riordinate. Lo dice con un nudocrudo stile, pulito e personale,
inventivo nel lessico ma non autoindulgente, mai esondante, mai
eccessivo, neppure nei testi più lunghi che qui non ho inserito ma che
Viola sicuramente predilige, e soprattutto privo di ammiccamenti, di
furbizie di mestiere. Sotto molti aspetti un libro pensato per sé, un
libro di bilancio che Viola doveva scrivere, che doveva al suo personale ethos umanistico, alle sue sofferenze, per capire. Dice Amarelli nel bellissimo testo finale, "a latere",
qui non riprodotto: "...la scrittura è dall'origine un fissare, un dar
conto. E nel fissare c'è l'ordine, l'elenco, il taglio sul mondo: il
"cosi è" artistico (...) Tutta questa ansia di fissare, contare, nasce
da un flusso e si risolve in un flusso, quasi una sorta di processo a
"doppio cieco". Se il primo flusso è quello esperienziale, il secondo è
uno sguardo che trabocca (...) Si presta voce a un mondo, a una faglia,
all'innervatura di un picciolo, ci si illude, perchè il mondo resta
tutto...(...) E' la scrittura spugna, materia che respira: quello che
hai ridai. Per questo ogni poesia è sempre, dannatamente, anche nolente,
politica". Vedete? Il progetto, l'idea...
Continua a leggere "Viola Amarelli - Le nudecrude cose e altre faccende"
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